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How many miles can a “Dead man” walk?

Post n°87 pubblicato il 30 Gennaio 2012 da ilblogdelmar
 

Nelle parole di Bashar al-Assad c’è del vero. La guerra civile in Siria tocca gli interessi di tutta l’area mediorientale. La competizione per il predominio regionale tra Iran, Turchia e Stati del Golfo si interseca nelle vicende interne siriane complicandone il quadro. Un intervento esterno rischia di rompere i fragili equilibri esistenti. Al-Assad ne è a conoscenza e si fa scudo di questa situazione. Gli altri attori temporeggiano. I siriani muoiono.

In un articolo uscito su Foreign Policy il 28 dicembre, intitolato “Obama administration secretly preparing options for aiding the Syrian opposition”, si parla di un piano statunitense per risolvere la crisi siriana. Ma esiste una reale possibilità di azione per gli americani e per la comunità internazionale?

L’intervento in Siria potrebbe avere alcuni vantaggi per gli Stati Uniti: innanzitutto toglierebbe un alleato all’Iran (prima via di comunicazione con gli Hezbollah libanesi, Assad è una pedina fondamentale per Ahmadinejad). La sua caduta avrebbe il duplice effetto di indebolire la Repubblica Islamica e l’organizzazione libanese. L’asse Teheran-Damasco è il punto di riferimento del governo sciita iracheno; con Damasco fuori dall’orbita di Teheran sarebbe più semplice contrastare le ingerenze iraniane a Baghdad. Infine riabiliterebbe parte dell’immagine statunitense all’interno del mondo arabo.

Le possibilità di azione americane sono però limitate. Certamente non può essere efficace la formula del “leading from behind”, inaugurata con successo nella spedizione contro Gheddafi. Un primo problema da risolvere sarebbe quello di trovare un attore sul campo dietro cui potersi muovere: il CNS e il Free Syrian Army non hanno per il momento la forza del Consiglio Nazionale di Transizione e dell’Esercito Nazionale di liberazione libico.

Sarebbe poi complicato trovare chi possa ricoprire il ruolo guida assunto dai francesi in Libia. La Turchia potrebbe essere l’unico Stato papabile. Erdoğan sta cercando di far emergere Ankara come nuova forza regionale ed avrebbe grandi benefici dall’uscita di scena di Assad. La sua politica degli “zero problemi con i vicini” mal si concilia con l’attuale situazione sul confine siriano e inoltre, dopo aver cavalcato per mesi l’onda emotiva delle rivoluzioni arabe, non può certo mostrarsi accondiscendente di fronte ai massacri commessi contro la popolazione siriana. Un cambio di governo a Damasco gli sarebbe dunque gradito ma non a tal punto da poter pensare di intraprendere uno scontro frontale contro il regime siriano.

Anche gli Stati del Golfo avrebbero tutto l’interesse a far cadere Assad: vedrebbero accrescere il loro peso all’interno della Lega Araba e contrasterebbero le ingerenze iraniane nella regione. Sfruttando la loro leadership all’interno della Lega sono riusciti a far approvare delle sanzioni economiche contro il regime, a sospendere Damasco dall’organizzazione e ad ottenere il consenso per una missione di osservatori che vigili sullo stato dei diritti umani in Siria (solo Libano e Iraq non hanno votato).

Inizialmente la missione degli osservatori sembrava essere uno strumento utile per mettere in crisi il regime. Dopo nemmeno di una settimana si sono però già alzate le prime voci critiche contro l’operato dei delegati arabi. Il piano d’azione esigeva la fine delle repressioni, il ritorno dell’esercito nelle caserme, la liberazione dei prigionieri, il rispetto della libertà di stampa e il libero accesso in Siria dei media internazionali. Veniva poi chiesto di giudicare Assad per gli atti commessi e di porre immediatamente fine alla repressione.

Niente di tutto questo è stato fatto e al-Assad non sembra voler cedere. Gli osservatori non possono spostarsi senza la presenza di militari siriani al loro fianco e sembra che il regime abbia trasferito forzatamente molti dei prigionieri politici in aree off limit per i delegati. Le stesse interviste con la popolazione avvengono in presenza di esponenti del governo, precludendo la possibilità che gli intervistati possano sentirsi liberi di parlare senza temere per la loro incolumità.

Anche la credibilità dei delegati è stata messa in discussione. La scelta di nominare a capo della spedizione il generale sudanese Muhammad Ahmed al-Dabi, implicato nella guerra civile tra Nord e Sud in Sudan e accusato d’aver preso parte alle atrocità commesse in Darfur, appare fuori luogo. Il direttore della Lega Araba, Nabil al-Araby, in una conferenza al Cairo ha preso le sue difese, definendolo “a capable military man with a clean reputation”. Alcuni analisti sostengono poi che si sia puntato su di lui per rendere più gradita la missione a Damasco, visti i buoni rapporti tra Siria e Sudan. Resta il fatto che la scelta di un militare con un pedigree come il suo a capo della delegazione stride alquanto con l’obiettivo di tutelare i diritti umani.

La comunità internazionale ha deciso di attendere i risultati della delegazione araba prima di scegliere come agire, ma per il momento si trova con le mani legate. In caso di fallimento della missione (cosa tutt’altro che improbabile viste le difficoltà che gli osservatori stanno trovando sul campo), sarebbe difficile impedire alla Russia (con $19.5 miliardi di investimenti in Siria) di mettere il veto a qualsiasi misura intrapresa contro Assad in sede ONU.

I problemi non sarebbero inferiori anche qualora venissero rilevati dagli osservatori gli estremi per un intervento internazionale. Damasco controlla le frontiere e le principali vie di comunicazione. Per stabilire un corridoio umanitario sarebbe necessario deliberare una no fly zone su gran parte della regione, attaccare le difese aeree siriane e i sistemi militari di comando e controllo, correndo il rischio però di dare un pretesto all’Iran per intervenire a difesa dell’alleato. La guerra civile si trasformerebbe in crisi regionale (opzione meno apocalittica).

“When change does come to Syria, the Syrians have to own it” L’articolo di FP termina con le parole di Brian Katulis, membro del Center for American Progress. In effetti, per il momento l’unica alternativa sembra essere quella di lasciare in mano ai ribelli siriani la sorte del loro destino e sperare che riescano a rafforzarsi per tenere testa al regime.

Fred Hof, funzionario del Dipartimento di Stato, sostiene che Assad sia un “Dead man walking”. Nel lungo periodo sono molte le possibilità che potrebbero far propendere verso questa ipotesi. Il rafforzamento della Turchia, l’aumento della credibilità della Lega Araba, l’accresciuto peso dei ribelli siriani, l’intervento della comunità internazionale libera dal veto russo potrebbero realmente costringere il Presidente siriano a farsi da parte. Sono tutti scenari possibili ma certamente non attuabili in breve tempo.

Bashar al-Assad sarà anche un “Dead man walking”, ma la strada che è in grado di percorrere può essere ancora lunga e c’è il rischio che molte altre vite vengano perse prima che il suo cammino si arresti.

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Commenti al Post:
orchidea_selvag2012
orchidea_selvag2012 il 30/01/12 alle 09:11 via WEB
Letto tutto ma non so cosa dire... spero ti accontrnti di un buon inizio settimana intanto:)
 
 
ilblogdelmar
ilblogdelmar il 01/02/12 alle 00:02 via WEB
Grazie... Spero tu ti accontenti di un semplice saluto e un augurio che la serenetà ti accompagni per tutta la vita... ;-)
 
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