Il nostro calcio

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Venerdì, 13 Marzo 2009Soldi, debiti e programmazione. La ricetta vincente delle squadre inglesiROBERTO DE PONTI PER IL CORRIERE DELLA SERAPrendete un allenatore, meglio ancora se egocentrico, carismatico e di successo, sistematelo su una panchina in mezzo alla tifoseria avversaria, poi aspettate per vedere di nascosto l'effetto che fa. In Inghilterra firmerà autografi agli spettatori durante l'intervallo. In Italia? Se è fortunato, dovrà solo ignorare gli insulti assortiti; se non lo è, dovrà cercare di evitare le «bastonate sui denti» (copyright Pietro Lo Monaco, a.d. del Catania) prima, durante e dopo il match.È anche in questo, nell'aria rilassata con cui Mourinho autografava i programmi della partita a Manchester, la differenza tra il football e il calcio. Tanto è stressato e isterico il pallone dalle nostre parti, quanto è divertito e divertente quello della Premier League. Poi ci si stupisce se nei quarti di finale ci sono quattro club inglesi, mentre della crisi della serie A si occupa pure il Wall Street Journal: «L'Italia non trova spunti dal suo calcio», il titolo del quotidiano economico. L'unico titolo che ci siamo meritati. In campo, per dirla alla Mourinho, «zero titoli».C'era una volta Alex Ferguson, non ancora sir, chiamato dal Manchester United a rinverdire i fasti dei Busby Babes: era il 1986, l'estate dei Mondiali in Messico e della mano di Maradona, quando a Old Trafford il tecnico di Govan venne presentato ai tifosi. Il primo trofeo è arrivato nel 1990, la Fa Cup conquistata battendo il Crystal Palace. Quattro anni dopo. In Italia, a un allenatore non avrebbero concesso tutto questo tempo. In Inghilterra, sì: anche per questo oggi il ManU è una fantastica macchina da guerra, campione d'Inghilterra, d'Europa e del mondo, lanciato verso un leggendario quintuple.Programmazione a lungo termine e investimenti mirati, magari lasciando partire bandiere come Beckham sostituendole con diciottenni di belle speranze come Cristiano Ronaldo, e poco importa se poi i calciatori inglesi sparpagliati per i 16 club negli ottavi di Champions erano solo 9 (problemi di Fabio Capello, al più), mentre persino gli italiani erano molti di più, 21. Del resto il calcio inglese è inglese per modo di dire: le 4 squadre qualificate per i quarti hanno un allenatore scozzese (Ferguson), uno spagnolo (Benitez), uno francese (Wenger) e uno olandese, Hiddink, che peraltro succede a un brasiliano (Scolari), a un israeliano (Grant) e a un portoghese (Mourinho, do you remember?). Il c.t. dei bianchi è italiano, giustappunto, e in questo melting pot di culture calcistiche è nato un pallone che da anni e anni ormai ha cancellato il cosiddetto gioco all'inglese, lanci lunghi e via, e il «classico risultato» (chissà perché classico, poi).Quanto ai capitali, quelli arrivano da ogni parte del mondo: Manchester United e Liverpool sono in mano agli americani, gli arabi si sono presi Fulham e Manchester City, il Chelsea è del russo Abramovich, giusto per citare qualche esempio. Quale investitore straniero invece potrebbe mai pensare di sbarcare in Italia, nel calcio degli stadi fatiscenti, delle tifoserie violente, dei veleni e degli scandali? Al massimo il folkloristico avvocato italoamericano Joe Tacopina.Però c'è un però. Ha ragione Adriano Galliani quando sostiene che la principale ragione della crisi è economica («Le squadre inglesi grazie soprattutto agli stadi hanno ricavi nettamente superiori dei nostri, l'Inghilterra e la Spagna ci stanno nettamente superando e questo è un grave problema. Se non avremo anche noi gli stadi non competeremo più ai massimi livelli europei e sarà un disastro»), ma non si possono chiudere gli occhi davanti alle voragini di bilancio dei principali club di Premier: le due finaliste di Champions dello scorso anno, ManU e Chelsea, sono anche le due squadre più indebitate d'Europa: 770 milioni di euro i Red Devils, addirittura 935 i Blues. Chiamasi doping finanziario: vincere è bello, vincere barando un po' meno.