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Articolo di giornale


Mercoledì, 02 Dicembre 2009Leo, l’antidoto al peggio del calcio. Tutto tranne che un altro MaradonaGABRIELE ROMAGNOLI PER LA REPUBBLICAPallone d´oro all´anti-Maradona. All´antidoto. Contro il veleno che sta uccidendo il calcio come ogni forma di spettacolo, vita quotidiana inclusa. Lionel Messi è l´altra possibile faccia del dado e della realtà. Se gli concederanno di crescere e dimostrarcelo. Da anni si sente dire che è l´erede di Dieguito (tra i primi e più accesi sostenitori dell´investitura).Se così fosse, significherebbe che anche il Dna sa fare i dribbling, scrollarsi la marcatura della follia a buon mercato, saltare l´avversario dell´autodistruzione e andare in porta con qualche gusto dell´etica non solo di un´estetica onnivora che tutto dovrebbe consentire. E insomma, basterebbe guardare le immagini: Diego è quella faccia indemoniata che si mangia la telecamera imperlata a Usa ´94 implorando la squalifica, Leo è quel ragazzino che esulta un po´ poi abbassa la testa. Di lui si poteva dire da subito, citando Francesco De Gregori: «Il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette». Dell´altro, tuttalpiù: «Il ragazzo si farà».A comprimere Messi nella cornice dell´erede di Diego lo si è spinto a togliersi in fretta i denti del giudizio. Si è fatto anche lui il suo bel gol saltando cinque avversari e, soprattutto, quello di mano con conseguente mancanza di scuse, anzi totale giustificazione (senza richiami però a interventi divini). Come l´aver Hegel liquidato in età giovanile la tentazione della fede e l´essersi certi uomini giocati nell´adolescenza i jolly della sregolatezza, il fatto che abbia già compiuto quei due gesti fa confidare in quel che verrà dopo la maturazione. Il Leo Messi incoronato è oggetto di ragionevole fiducia. Non esiste nel calcio del 2009 nessuno preferibile a lui e non solo per il talento che esibisce. La sua bravura è difficilmente esprimibile a parole. Tutti i cantori che ci hanno provato sono, a diversa profondità, precipitati nel pozzo della retorica. Il modo in cui gioca Messi non richiede ricorso al vocabolario dell´improbabile o al cassetto delle metafore perché è l´opposto della ricercatezza: è la cosa più semplice che si possa vedere in una partita. Non fa trivele, passi doppi, cucchiai. Leo tiene la palla incollata al piede, salta l´uomo, va in porta. Tutte e tre le cose, che sono poi i fondamentali dell´attaccante, le fa in modo estremo, nel senso di massimizzazione delle possibilità. Nessuno come lui ha ridotto la distanza tra il piede e la sfera, non solo nell´impadronirsi del pallone, ma anche nel portarlo avanti: incollato, calamitato, agganciato è la triade degli aggettivi che si lascia alle spalle. Nell´evitare il marcatore è oggi il più abile e meno plateale. Piccolo com´è, una sua finta di corpo è una virgoletta, quando ci mette l´altra, a chiudere, è già arrivato a destinazione. E la destinazione è la porta: non per la palla, per lui stesso. Cristiano Ronaldo scarica tiri saetta, Leo Messi fa la saetta. Non conosce scorciatoie, conta sulla propria rapidità e non su quella dello strumento di gioco per ottenere il risultato. Tira quando proprio non c´è altra soluzione, ma se può va dentro anche lui. E´ un ragazzo così: sofferto, gentile e perfino monogamico. Non ha amato mai altro che il Barcellona, forse l´amerà per sempre (eddai, facci questa grazia). Difficile davvero immaginarselo tipo Figo che giura con la mano sul cuore e la sera dopo si fa Madrid o come uno dei tanti che sbarcano senza neppure sapere dove, s´infilano la prima sciarpa che trovano e dicono alle telecamere: «Ho sempre sognato di vestire questi colori». Leo, se non lo perdiamo, dovrebbe essere l´apostolo della riconoscenza: il Barcellona ha fatto grande lui e lui fa grande il Barcellona.Tutto perfetto, allora? Non c´è un solo problema? A parte la fragilità che gli procura frequenti infortuni, ci sono due limiti, in teoria. Dicono di lui: non è uomo squadra, non fa la differenza da solo, non si carica i compagni sulle spalle (strette, come da premessa). Lo dice soprattutto Maradona, che gli è per sventura allenatore in nazionale, sottintendendo: «A guardar bene, dopo di me han buttato lo stampo». Ora, foss´anche vero: il calcio è un gioco che si fa in undici, tutte le responsabilità (non solo quella penale) sono personali e perché dovrebbero 10 barattoli appendersi al paraurti di Messi e lui trascinarli al banchetto nuziale? Perché dovrebbe essere l´ennesimo invasato che urla ai compagni, agita le braccia eccitando le curve e risolve il rebus da solo? I migliori sono un esempio, non un alibi. L´altro pericolo sta nel peso dell´attesa, nel gioco di parole del Messia, nell´incontinenza mediatica che già ai Mondiali di Germania ne faceva il protagonista delle partite dell´Argentina anche quando stava in panchina. Le iperboli sono trampolini verso il vuoto. Ballandoci sopra disse Maradona allo stadio di Pechino per Argentina-Brasile: «Meglio una notte a veder giocare Messi di una notte di sesso». Con tutto il rispetto per "la mano di Dio" e il piede di Leo: ho conosciuto l´amore e sono stato al Camp Nou, non avrei dubbi nel dare al pallone d´oro la medaglia d´argento.