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Post n°235 pubblicato il 19 Marzo 2011 da as_scacciapensieri

Mercoledì, 01 Dicembre 2010
Schemi, classe e velocità: mai nessuno come il Barça
GIANNI MURA PER LA REPUBBLICA -

Come gioca il Barcellona si gioca in paradiso, e lì il più lieto dello spettacolo dev'essere stato Liedholm. La squadra di Guardiola segue le idee di Nils, ma a ben altra velocità. Per il resto vale l'adagio: "Finché il pallone ce l'abbiamo noi non ce l'hanno loro". Elementare, senza pallone non si fanno azioni e non si segna. Il Real è stato abbattuto, non solo battuto, anche se a Mourinho non piace ammetterlo. Pure, in un certo senso lo 0-5 di lunedì rivaluta il Mourinho interista, che un Barcellona quasi uguale (mancava Iniesta, Villa era altrove) lo eliminò, con un po' di fortuna ma giocando il ritorno in 10.

Il Barcellona esibisce a memoria un calcio molto bello, fatto di tecnica, velocità e gusto del gioco. Il suo limite sta solo nella ricerca della perfezione, nel voler segnare sempre dall'area piccola. La sua forza sta nel credere ciecamente in questo stile di gioco, che coniuga la pazienza del ragno alla rapidità dello scorpione. Cruijff ha gettato i semi, Guardiola ha fatto crescere la pianta. Cinque gol (nessuno di Messi, in serata vagamente storta) e potevano essere di più. Ora si capisce perché in capo a una stagione Ibrahimovic sia stato respinto come un corpo estraneo. Perché, pur segnando la sua parte, appartiene a un altro calcio. Che non vuol dire essere meglio o
peggio, ma solo diverso, portatore di altri valori. Tant'è che in Italia è amatissimo, rispettato, unico. Dove va lui arriva lo scudetto e ci si può permettere il lusso di giocare senza gioco: palla lunga e ci pensa il gigante. Un lancio alto e lungo dalla difesa all'attacco per il Barcellona non è un errore, è un'eresia.

Con l'ingresso di Jeffren, lunedì erano 9 i giocatori usciti dalla cantera, ossia dal vivaio. Una percentuale del genere ce la scordiamo. L'Italia non è un Paese per giovani, nemmeno per giovani calciatori. Qui, finché le cose non cambieranno radicalmente, si misurano in centimetri e chili. La tecnica è la grande sconosciuta, in compenso tutti corrono molto (spesso a vuoto), forse perché, come dice Galeone, insegnare a correre è più facile che insegnare a giocare. La ragnatela del Barcellona si fonda su una tecnica impressionante, ma anche su un pressing alto e ben coordinato. Alta è anche la percentuale di piedi buoni rispetto a quelli un po' scarsi. In gergo, di manovali rispetto ai violinisti. Puyol, Abidal e Busquets sono i manovali, punto e basta. Se Iniesta o, in seconda battuta, Xavi, non vince il Pallone d'oro, è uno scandalo. Due così simili in Italia nessuno li farebbe giocare insieme. Guardiola sì, e il doppio regista è una delle chiavi del successo. In più il Barcellona piace perché si vota a un calcio di rara bellezza, direi quasi musicale. A chi guarda sembra tutto facile, spontaneo, ma dietro a certi tagli, a certe aperture c'è molto lavoro nelle prove, cui corrisponde molto entusiasmo nelle recite che contano.

Faccio fatica a immaginare Guardiola su un'altra panchina, Inter o Chelsea che sia. Oppure con lui si ingaggia almeno mezza squadra. Altrimenti rischia di essere come Ibrahimovic al Barcellona: un alieno. Ma questo un allenatore non può permetterselo. Merita un grazie da tutti quelli a cui piace il calcio spavaldo, leale, allegro e che mette allegria.

Alle spalle di questo Barcellona metto nell'ordine il Milan di Sacchi, la Honved di Jeno con la supervisione di Sebes, il Real di Di Stefano, l'Ajax di Michels e Cruyff, la Juve del Trap, di Scirea e Platini e l'Inter europea di Herrera. Partiamo da qui: tutto l'opposto, fiducia nel contropiede orchestrato dal grandissimo Luisito Suarez e favorito dalla velocità di Jair e Mazzola, dalla corsa di Facchetti, da una difesa molto forte. Squadra italianista come poche. Italianista anche Trapattoni, ma la Juve che perse ad Atene con l'Amburgo era una signora squadra poco italiana, illuminata dal genio di Platini e dalla classe di Scirea, infiammata dall'anarchia di Boniek e dalle sgroppate di Cabrini. C'era in questa Juve un po' dello spirito dell'Ajax, solo un terzino e lo stopper a tenere la posizione, gli altri liberi di scambiarsela su e giù per il campo. All'Ajax già allora c'era l'attenzione al vivaio, la valorizzazione dei giovani, i maestri di tecnica per i ragazzini. Mentre il Real, ben prima di Perez setacciava campioni in giro per il mondo. Kopa dalla Francia, Puskas dall'Ungheria, Di Stefano (poi naturalizzato spagnolo) dall'Argentina. Era il Real che dominava in Europa, un attacco che incantava e una difesa (Zoco, Pachin) di picchiatori. La Honved perse Puskas e altri pezzi e si perse coi carri armati del '56. Era la base della Nazionale, sempre allenata da Sebes, stesso gioco, solo con Palotas centravanti arretrato al posto di Hidegkuti. Molti abboccavano ai numeri sulle maglie, ma i veri attaccanti erano l'8 e il 10, Kocsis e Puskas.

Il Milan di Sacchi si continua a dire, forse perché sarebbero troppi i giocatori simbolo. Questa squadra ha cambiato l'immagine del calcio italiano, rinunciatario e timido in trasferta, catenacciaro a oltranza, sempre teso a portare a casa il massimo risultato col minimo sforzo. In casa o fuori, per quel Milan era la stessa cosa, dopo qualche minuto gli altri erano barricati (all'italiana) nella loro area. Era un Milan che univa il vigore fisico (Gullit, Rijkard, Costacurta) alla tecnica (Van Basten, Donadoni, Maldini). Con un'intensità, per dirla con Sacchi, fin lì sconosciuta. Il Milan toglieva spazio, toglieva fiato. Paradossalmente, si difendeva attaccando, senza mai sguarnire l'ultima linea, a costo di ricorrere sistematicamente al fallo tattico e al fuorigioco insistito, e regolato dal braccio di Baresi. Era un Milan di granatieri, tolti Evani e Donadoni, mentre il Barcellona è in larga parte formato da minigiocatori. Ma questo è il bello del calcio: non è il fisico a fare la differenza. Quando arriveremo a capirlo anche in Italia, si potrà cercare di imitare il Barcellona, che oggi è semplicemente inimitabile.

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