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Giovani, «abbandonati» e riminesi

Post n°152 pubblicato il 20 Giugno 2006 da monari

Superare nel dialogo il senso di crisi, capire le nostre identità

«Dimmi con chi vai. Ma non sai chi sei…». Abbiamo stravolto il vecchio adagio che deduceva dal gruppo d’appartenenza le caratteristiche individuali di chi vi partecipava. Ne abbiamo ricavato un ipotetico slogan del tipo di quelli che piacciono a chi progetta «campagne informative» rivolte con forte presunzione ad obiettivi molto ambiziosi: «suscitare la discussione», «formare le coscienze».
Incolonniamo da una parte le azioni svolte da enti pubblici e da istituzioni politiche, e dall’altra i fenomeni che la società registra (tra la meraviglia degli ottimisti e lo scandalo di chi grida ogni giorno al lupo, anche se transita un agnello male in arnese). La bilancia fa pendere il piatto della realtà più di quello delle campagne formative. L’unico contrappeso in grado di rimettere a posto la bilancia, è l’educazione. Ma l’impegno che essa richiede nel tempo, la rende un’entità non misurabile in un solo istante. Il suo significato si rivela nel momento in cui i fatti dolorosamente ne denunciano l’assenza.
L’interessante fondo del direttore don Giovanni Tonelli (“il Ponte”, 18 giugno 2006), partendo dalle cronache periferiche di un mondo giovanile già di per sé periferico nella società contemporanea, invita a soffermarci su «segnali» come il disabile messo in croce per scherzo, i 19 arresti per droga in un solo paese, i ricatti hard via telefonino. L’articolo conclude riferendo come anche da parte di numerosi sacerdoti sia stata denunciata «l’assenza di una riflessione approfondita sull’universo giovanile riminese»: i ragazzi dopo la scuola media sono «di fatto» abbandonati.
Provenendo da terminali anche sociologicamente sensibili come i sacerdoti, la denuncia è un invito alla riflessione. Nella quale tutti dovremmo sentirci coinvolti con il disinteresse pratico e l’interesse ideale di chi non ha «campagne informative» da farsi finanziare. E con la preoccupazione che il vivere sociale è una molteplicità di soggetti e fenomeni per cui quanto accade intorno non deve lasciarci indifferenti. Anzi deve convincerci a considerare il modo di vivere di «questo» mondo al quale apparteniamo.
Giustamente il direttore non ha parlato soltanto di un vago (ma non troppo, alla fine) «universo giovanile», ma ha specificato che si tratta di quello «riminese». E certo non per sottovalutare il significato dei fenomeni.
Rimini ha sempre avuto a livello nazionale una sua tipicità sociologica che deriva dalla sua vita economica e dalle relazioni sociali che quest’ultima comporta. Per ciò le ricette valide altrove qui non funzionano. Occorrerebbe esaminare le conseguenze di questa tipicità sulla vita delle famiglie e dei giovani locali, sedotti da modelli che poi fanno moda anche fuori di casa. Rimini finisce per essere epicentro di fenomeni di massa che dobbiamo studiare nel loro nascere.
La specificità riminese aggiunge valore al discorso su quell’universo giovanile, invitando ad un impegno di analisi quanti ritengono che sia ancora possibile «educare» la società di domani nel suo dinamico sviluppo di oggi. Quest’analisi dovrebbe condurci ad esaminare con la necessaria obbiettività tutti i fattori nuovi che appaiono nella società, nella comunicazione, nell’economia, rilevando soprattutto i legami meno appariscenti ma ben saldi che uniscono tra loro questi tre fattori. I quali stanno mutando i vecchi modelli.
Davanti ai fatti che accadono, è sbagliato dichiarare una disperazione che non porta a nulla, e rimpiangere i modelli del passato. Le vecchie generazioni debbono trovare nelle nuove quanto possa unire positivamente (in famiglia, a scuola, nel lavoro) in un’epoca in cui si sente parlare soltanto di crisi del focolare domestico, di vuoto della cultura e di precarietà professionale. Non esistono modelli validi per tutti. Gli adulti debbono non contrapporsi ma dialogare. Soprattutto in un periodo in cui tutti, giovani od anziani, siamo classificati soltanto come fasce di consumo. Il problema delle nostre identità dovrebbe essere affrontato come primo passo sulla strada del confronto con il mondo «abbandonato» dei giovani, senza imporre formule ma offrire ascolto. Per sapere chi siamo «noi» adulti, prima di chiedere ai giovani che cosa siano e soprattutto che cosa si sentano loro.
Antonio Montanari

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