Amicizia? Meglio la Giustizia.

Post n°1178 pubblicato il 02 Gennaio 2016 da monari

A proposito del volume "Rimini, dieci anni di economia. Tra passato e futuro", edito da "il Ponte".

Padre del concetto di «amicizia civica» (da intendersi quale «concordia politica» secondo Nicola Abbagnano [«Dizionario di Filosofia», I]), è quell'Aristotele che giganteggia nella mente del personaggio manzoniano di don Ferrante.
Il quale lo aveva scelto come suo autore per essere pure lui un filosofo («Promessi sposi», cap. XXVII), anzi un «dotto», come si legge nel passo dove (ib., cap. XXXVII) si dà notizia della sua morte per peste, ovvero per quella strana realtà indimostrabile mediante ragionamento, ma da lui ammessa soltanto quale effetto delle influenze astrali.
Don Ferrante era in buona compagnia: sua moglie donna Prassede (ib., cap. XXV) «faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello».

Se sovrapponiamo all'aristotelismo di don Ferrante le pretese ermeneutiche “totalitarie” di donna Prassede, otteniamo l'ideale figura del filosofo odierno che crede all'«amicizia civile» di Aristotele, ma dimentica che essa è concordia tra uguali in un mondo di disuguali.
Infatti, come si studiava un tempo, Aristotele ritiene che per “natura” ci siano uomini capaci di fare i cittadini ed altri no.
Ad esempio, né i coloni né gli operai potevano essere cittadini, ovvero partecipare al governo della cosa pubblica.
Ritenendo che “per natura” gli uomini non sono uguali, Aristotele legittima la schiavitù.

Il nostro richiamo alle pagine manzoniane sulla strana coppia Ferrante-Prassede, è non un vuoto ricordo di cose passate, ma un solido richiamo ai tanti fenomeni odierni per cui cerchiamo una concordia politica, anche se non ci preoccupiamo che essa sia garantita da un rinvio non ad Aristotele ma alla nostra Costituzione.
Vengono a proposito queste preziose parole di Vladimiro Zagrebelsky («La Stampa», 23.11.2015): «La libertà richiede rispetto degli altri e eguaglianza. […] Il vero ineliminabile collante è la tolleranza consapevole. Essa non è relativismo indifferente, ma riconoscimento delle libertà altrui».

L'«amicizia civile» di Aristotele non perviene a questo riconoscimento. La formula affascina, ma il suo retroterra non garantisce nulla, come dimostra la storia d'Europa che, scrive Zagrebelsky, «ha conosciuto roghi e fucilazioni di eretici e oppositori», per cui dobbiamo difendere «la società aperta, plurale, tollerante» che «è più debole di quella resa monolitica da una unica ideologia totalitaria».
La forza di questa debolezza, ci sembra, sta nel credere che la «tolleranza consapevole» non nasce da cattive amicizie civiche ma da buone radici di dialogo e confronto, che ogni giorno sta a noi di cercare e trapiantare ovunque.

Ancora Zagrebelsky. Il 24 dicembre su «Repubblica» ha scritto che, nella vita politica, occorre mirare a rifiutare l'«ingiustizia radicale» dell'utopia (perché «la giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino»), attraverso l'educazione, il cui uso da parte della politica andrebbe sottoposto a controllo.

Stesso giornale e stessa data: il lungo pezzo di Eugenio Scalfari su «Misericordia. L'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo» si chiude con un augurio: «che la fratellanza e l'amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto».

Dunque, per tornare al principio di questa nota, l'«amicizia civica» è nulla se non scaturisce da uguaglianza, libertà e giustizia, con buona pace di Aristotele e dei suoi lettori di oggi.
Dovrebbe apparire significativo il fatto che il nuovo Vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, nell'insediamento ufficiale, ha citato alcuni articoli della nostra Costituzione, tra cui quello (il n. 3) che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…».

Alla vigilia di Natale, sul «Venerdì» di «Repubblica», Curzio Maltese ha affrontato proprio il tema della dignità, con una sostanziale visione negativa della realtà italiana: «La perdita di dignità», ha scritto, «è inflitta dall'alto al basso, ma viaggia anche in senso inverso e ormai i cittadini non hanno alcuna considerazione delle istituzioni e delle élite».
Così «un veleno violento» si sparge nella società, facendo risorgere razzismo e xenofobia, e favorendo «la folle corsa a nuove catastrofiche guerre».
Proprio nella Messa della Notte di Natale, il Papa ha parlato della necessità di «coltivare un forte senso della Giustizia», dando così ragione al suo amico Eugenio Scalfari ed all'articolo di quel giorno, apparso su «Repubblica».

Ed a proposito di Giustizia, proprio la Chiesa di Roma è tirata in ballo da un'inchiesta nata al suo interno sull'Apsa, l'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica: «Poi, sull'iniziativa è sceso il silenzio», commenta Filippo di Giacomo, notista de «il Venerdì» (24.12.2015). Ed infine c'è il processo vaticano “sospeso” contro i due giornalisti italiani Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi.
Ovvero, non basta parlare di Giustizia, ma occorre praticarla.

 
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Giornalismo riminese

Post n°1177 pubblicato il 16 Maggio 2015 da monari

Storie antiche di giornalismo riminese.
Un amarcord veloce. Avevo 19 anni nel 1961. Come scrissi anni fa, piombò a Rimini, con lussuosa sede al grattacielo, tale Carlo de' Siena, con un settimanale ("Europa flash"), che scomparve dopo pochi numeri: era l'imitazione del noto rotocalco "Oggi". Si presentava come un grande esperto, ma non conosceva neppure le telescriventi.
Credo, per notizie molto successive, che quell'impresa editoriale fosse più legata al controllo della città che era base militare Nato, che ad un'idea di fare qualcosa di nuovo nel panorama giornalistico nazionale.

Una quindicina d'anni dopo aiutai un amico a sopravvivere ad una carognata estrema ricevuta da un quotidiano, collaborando ad un suo foglio locale. Ad un certo punto anche per noi arrivò una lussuosa sede (non ne avevamo mai avuta una, tranne un tavolo in tipografia), avendo ricevuto un contratto editoriale: la pagina fissa di un centro studi giuridico-economici. Che poi (molti anni dopo) scoprii essere una emanazione dei "servizi", curata da un collega che avrebbe fatta brillante carriera universitaria. Transitando dalla estrema destra molto surriscaldata di quegli anni. E godendo di un appoggio famigliare a sua volta basato sulla massoneria bolognese-romagnola.

ARCHIVIO
Dal mio blog politico sulla Stampa on line del 24/12/2007.
Caro Carlino (e tutto il resto)
Mi hanno detto che il «Carlino» ha festeggiato i 50 anni della sua pagina riminese. Auguri.
Sono affezionato alla redazione del 1960-62, quando da studentello vi feci un apprendistato fondamentale sotto la guida del capo-pagina prof. Amedeo Montemaggi, un giornalista di vaglia e soprattutto un maestro di cronaca dalla rara efficacia e intelligenza delle cose.
L'idea di riempire le giornate con un diversivo allo studio universitario, mi venne appena conclusa la sessione d'esami dell'abilitazione magistrale (la nostra non era allora chiamata maturità).
Dissi a mio padre se mi poteva presentare a Montemaggi che lo conosceva bene.
Una mattina di fine luglio andammo mio padre ed io in piazza Cavour, ed incontrammo Montemaggi proprio sulla porta del palazzo dove ha tuttora la sede il «Carlino» riminese.
Montenaggi Dopo i convenevoli di rito, Montemaggi (foto) mi disse una cosa che ho sempre conservato in memoria come prima regola del lavoro di cronista: «Bisogna imparare a lavorare di corsa. Ieri sera ho fatto in tre quarti d'ora un pezzo di due cartelle e mezzo per l'edizione nazionale».
In quella regola c'è tutto quanto è utile ai cronisti (e anche ai blogger) in certi momenti. Ovvero concentrarsi sull'argomento, saper tirare fuori tutto quello che serve, scrivere, rileggere e spedire...
Allora non c'erano né telescriventi né computer, si andava col «fuori sacco» in stazione o al massimo per le cose urgentissime si ricorreva telefono. Che andava però usato con parsimonia per non essere sgridati dall'amministratore bolognese, celebre, temuto e tiratissimo.
Il vice di Montemaggi (che cominciava allora le sue ricerche sulla Linea gotica) era Gianni Bezzi, studente in legge, bravo, intelligente e soprattutto amico, nell'impostarmi sul lavoro di ricerca della notizia e nella stesura dei breve testi di cronaca. Bezzi ha poi lavorato a Roma al «Corriere dello Sport».
Corrispondente da Riccione era Duilio Cavalli, maestro elementare, e conoscitore dei segreti dello sport, materia affidata per il calcio al celebre Marino Ferri. Mentre «Isi», Isidoro Lanari, curava le recensione cinematografiche.
E poi c'erano i padri nobili del giornalismo riminese che frequentavano la nostra redazione. O che collaboravano allo stesso «Carlino». Giulio Cesare Mengozzi, antico amico della mia famiglia, sostituiva Montemaggi durante le sue ferie. Luigi Pasquini, una celebrità che non si fece mai monumento di se stesso, ed ebbe sempre parole di incoraggiamento con noi giovani. Ai quali Flavio Lombardini offrì di collaborare alle sue iniziative editoriali.
C'era poi la simpatica e discreta presenza di Davide Minghini, il fotoreporter, l'unico che aveva un'auto con cui andare sul luogo di fatti e fattacci. Arrivò ad un certo punto Marian Urbani, il cui marito gestiva l'agenzia di pubblicità del «Carlino». Si mise a fare la simpatica imitazione di Elsa Maxvell, la cronista delle dive americane. Dove c'era mondanità c'era Marian che le ragazze in carne corteggiavano per avere appoggi in qualche concorso di bellezza....
C'era poi un collega giovane come me, che era figlio di un poliziotto, e che andava in commissariato a rubare le foto degli arrestati dalle scrivanie dei colleghi di suo padre. E noi le dovevamo restituire...
C'era una bellissima ragazza, Nicoletta, che da allora non ho più rivisto a Rimini. Ricordo una simpatica serata che Gianni ed io trascorremmo con lei ed una sua amica inglese al concorso ippico di Marina centro. Cercavamo di insegnare alla giovane d'Oltremanica tutte le espressioni più strane del parlare corrente italiano, al limite di quello che il perbenismo di allora poteva considerare turpiloquio. Ma la frase più ardita era semplicemente: «Ma va a magnà er sapone».
Leggo sul Carlino-on line le parole di Piero Meldini per i 50 anni dell'edizione riminese: «Chiunque sapesse tenere in mano una penna (tenerla bene) è passato dal Carlino».
Posso di dire di aver fatto con Montemaggi, Bezzi e Cavalli una gavetta che mi è servita sempre. Forse appartengo ad una generazione che è consapevole dei debiti verso i maestri che ha avuto. Forse ho la fortuna di essere consapevole dei miei molti limiti per poter riconoscere l'aiuto ricevuto nel miglioramento dalle persone con cui sono venuto a contatto allora e poi. Fatto sta che quei due anni nel «Carlino» per me sono stati fondamentali.
Studio e passione per argomenti diversi hanno la radice in quella curiosità che mi insegnarono essere la prima dote di un cronista.

Gianni Bezzi scomparve giovedì 17 febbraio 2000, a 60 anni.
Lo ricordai sul web con queste righe.
Aveva debuttato al "Carlino" riminese, come vice-capopagina. Ma uno scherzetto fattogli mentre doveva essere assunto a Bologna nella redazione centrale, lo ha buttato sulla strada.
Ha diretto poi a Rimini il periodico "Il Corso". Nel 1969 è stato assunto a Roma al "Corriere dello Sport", dove è rimasto fino alla pensione. Ha scritto anche un volume su Renzo Pasolini ed ha curato, lo scorso anno, un libro sullo sport riminese nel XX secolo.
Persona buona ed onesta, professionista serio, amico di una lontana giovinezza nel mio debutto giornalistico, lo ricordo e ne piango la scomparsa con animo rattristato. E queste parole possano farlo conoscere anche fuori della Rimini astiosa dove venne tradito e ferito dal disonesto comportamento di chi volle ostacolargli una carriera meritata per la correttezza umana e professionale.
Sul settimanale Il Ponte pubblicai questo articolo, il mio Tama 749.
Ciao, Gianni
Quando qualcuno si metterà a scrivere con completezza ed onestamente una storia del giornalismo riminese di questi ultimi cinquant'anni, dovrà dedicare un capitolo a Gianni Bezzi, appena scomparso a Roma, dove aveva lavorato per tre decenni al "Corriere dello Sport" come cronista ed inviato speciale.
Lo ricordo con infinito dolore. Ho perso un amico onesto, buono, corretto.
Ci eravamo conosciuti nel 1960 alla redazione riminese del "Carlino", dove guidava con serenità e buon gusto il lavoro di un gruppo di giovani, molti dei quali poi hanno cambiato strada, chi ora è architetto, chi docente universitario.
C'era uno di noi, figlio di un questurino, che a volte voleva fare degli scoop e prelevava in Commissariato le foto degli arrestati, poi arrivava una telefonata e noi le dovevamo restituire.
Gianni amava lo sport che aveva in Marino Ferri la penna-principe del "Carlino". Fece il corrispondente locale del "Corriere dello Sport". Aveva un linguaggio asciutto, il senso della notizia, era insomma bravo.
Un bel giorno, mentre frequentava già di sera la redazione bolognese del "Carlino", dopo aver lavorato al mattino in quella di Rimini, e mentre gli si prospettava un trasferimento sotto le due torri, successe questo, come si ascoltò a Palazzo di Giustizia: risultò che lui in ufficio c'era andato così, per sport.
Diresse poi un nuovo giornale "Il Corso", che usciva ogni dieci giorni. Mi chiamò, affidandomi una pagina letteraria (che battezzai "Libri uomini idee", rubando il titolo ad una rubrica del "Politecnico" di Vittorini), ed anche una rubrica di costume ("Controcorrente") che firmavo come Luca Ramin.
Fu un sodalizio di lavoro intenso ed appassionato. Mi nominò persino redattore-capo, e credo che sia stato l'unico errore della sua vita.
Per Marian Urbani inventai una sezione definita "Bel mondo", nel tamburino redazionale. La cosa fece andare su tutte le furie il giornale del Pci che ci dava dei "fascisti" ogni settimana, avvantaggiandosi su di noi che, come ho detto, andavamo in edicola solo tre volte al mese. E non sempre.
Nel gennaio del '67 il nevone ci fece saltare un numero. Due anni dopo, Gianni fu assunto a Roma.
Queste mie misere parole possano, in questa città di smemorati, ricordare un giornalista che proprio a Rimini ha dedicato la sua ultima fatica, un libro sullo sport del '900. Ciao, Gianni.

L'anno scorso è scomparso Silvano Cardellini, anche lui celebre firma del «Carlino». Oggi lo celebrano, ma non fu sempre trattato bene da quel giornale. Allora osservai in ricordo del caro amico:
«Ti hanno costretto a fare il cronista sino ad ieri, non so per colpa di chi, forse per il fatto che (come hai scritto tu) «normali non siamo» o non sono pure quelli di fuori (leggi: Bologna). Se avessi diretto un giornale cittadino, avresti avuto il gusto di alimentare le polemiche, che sono il sale del pettegolezzo, anche se esse stanno ben lontane dall'informazione della quale a Rimini non frega nulla a nessuno».

Fuori tema, in apparenza. Rimini, il giornalismo, il sottoscritto e "La Stampa", con mia gratitudine ad Anna Masera. Da il Rimino 157, anno XI. Gennaio 2009.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

 
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Giornalismo e politica a Rimini in crisi

Post n°1176 pubblicato il 07 Dicembre 2013 da monari

Il cane da guardia.
Giornalismo e politica a Rimini in crisi.

Lettera a "il Ponte", 7 dicembre 2013


Caro Direttore don Giovanni Tonelli,
il tuo editoriale apparso nel "Ponte" dell'8 dicembre scorso, lancia un giusto ed onesto allarme sulla crisi di Rimini.
Fonte bene informata mi spiega che la "situazione" dell'aeroporto di Miramare era nota agli addetti ai lavori già da sei anni. Noi "semplici cittadini", come recitavano le cronache politiche di un tempo, abbiamo smesso da parecchio di meravigliarci, non perché dotati di particolare sensibilità, ma soltanto in virtù del fatto che alla favola della cicogna non abbiamo mai creduto. Né ci crediamo soprattutto ora.
Un Comune come Rimini, che per la prestigiosa carica di Assessore alla Cultura va in prestito a Cesena onde trovare una persona degnissima, racconta forse in maniera trascurata ma efficace una certa visione del Mondo che non è considerata meritevole di attenzione.
All'inizio di questo secolo XXI, a Rimini si facevano grandi (e strani) progetti, proprio mentre da molto lontano arrivavano chiari segnali della crisi economica mondiale incipiente, che ora ha ridotto noi italiani come dei naufraghi senza scialuppa di salvataggio. E a chi, come il sottoscritto, ne scrisse qualcosa sopra un quotidiano locale, arrivò la risentita risposta politica che rivendicava, con elegante ma sovrabbondante retorica, l'inconfessata superiorità della classe dirigente amministrativa che si autoproclamava unica depositaria della funzione di decidere.
L'aumento dell'astensionismo alle urne, e quelle forme partitiche classificate con la controversa etichetta di "populismo", confermano un unico dato di fatto: i cittadini non riescono più a sopportare ("digerire") questi politici, con una giudizio sommario che fa di ogni erba un fascio, in una notte scura in cui tutte le vacche sono nere.
Ma è colpa dei cittadini o colpa dei politici che hanno servito a tavola cibi indigesti al punto che l'inventore della riforma elettorale appena bocciata dalla Corte Costituzionale, l'aveva definita una "porcata"? Veniva allora, e viene ancora, facile il gioco di chiedersi se quella etichetta fosse una specie di autobiografia volontaria, confessata per orgoglio di appartenenza ad una certa linea politica.
Hai molta ragione, caro direttore, nel sottolineare, chiudendo l'editoriale, questi aspetti: 1) individualismo dei riminesi, 2) furbizia di certe persone o gruppi, 3) loro recita pubblica, litigando soltanto sui giornali locali (secondo la vecchia lezione dei proverbiali "ladri di Pisa").
L'ultima tua annotazione ("Ognuno però ha il peso di una classe politica che si merita"), centrando il tema con efficacia, abbisognerebbe di un approfondimento che lo spazio non ti permetteva.
Anche tu credi che la libera stampa sia il cane da guardia della democrazia. Per questo, quel cane non deve abbaiare alla luna, ma deve registrare ed illustrare, giorno dopo giorno, tutto quello che non va, senza guardare in faccia a nessuno.
In tempi in cui la crisi della stampa tradizionale fa temere la scomparsa dal formato di carta per molte testate, facendole rifugiare nel mondo del web, occorrerebbe che la gente comune sentisse il bisogno di un'informazione indipendente (come quella che dimostra il tuo fondo), affiancandosi con un sostegno economico al giornale che legge.
Il quale sostegno dovrebbe garantire al cane da guardia il cibo che altrimenti sarebbe costretto ad attendere da altre mani. Un cibo che, se offerto gratis, sempre contiene delicati e dolci sonniferi perché poi il lettore, alzando gli occhi attorno a sé, non veda quanto accade.
Cordiali auguri a tutti.
Antonio Montanari

 
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Estati italiane

Post n°1175 pubblicato il 02 Agosto 2013 da monari

"Per chi ha qualche ricordo un po' in là nel tempo, sa che l'estate non ha mai portato troppi consigli alla politica ed ai politici. Anzi. Che cosa accadde, ad esempio, un due agosto alla stazione di Bologna? Un 4 agosto, ci fu la strage dell'Italicus.
Prima di un ferragosto un partito di destra inonda l'Italia con un manifesto beneaugurante. Dieci giorni dopo, a Torino la magistratura scopre il "golpe bianco" di Edgardo Sogno con il sostegno della loggia P2 di Licio Gelli, e previsto appunto per  ferragosto. Con l'intervento dei militari si voleva realizzare una repubblica presidenziale. Era il 1974.
Dobbiamo andare in vacanza con l'incubo che il passato ritorni?
[Dal blog che pubblicavo nella sezione politica della "Stampa" di Torino. 29 luglio 2008. Anno III, post n. 236 (613).]


Agli articoli del 2009 in "Diario italiano".

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


 
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Il mio 1943

Post n°1174 pubblicato il 30 Luglio 2013 da monari

Il mio 1943 è quello di un bambino di pochi mesi (sono nato alla fine dell'agosto precedente), che ne ha avuto contezza attraverso i racconti di famiglia.
Diceva mia madre Maddalena Nozzoli che gentilmente a casa nostra, in Palazzo Lettimi, posto al centro della città a due passi dal Tempio di Sigismondo Malatesti, in quel gennaio arrivò la polizia politica a perquisire l'abitazione, in relazione all'arresto di suo fratello Guido, preso a Bologna, dove svolgeva servizio militare.
L'imputazione era di attività sovversiva mediante la distribuzione di volantini intitolati "Non credere, non obbedire, non combattere". Aveva fatto la spia un amico o conoscente, di cui ho saputo soltanto che Guido una volta lo incontrò a Roma in un bar, lo guardò fisso in volto, e quello si mise a tremare rovesciandosi addosso il caffellatte che stava sorseggiando. Parole dello stesso Guido.
(L'espressione "ho avuto contezza", era un modo tipico di esprimersi dello zio, non una stravaganza mia.)
Tra i capi d'imputazione, oltre al reato di "attività politica contraria al regime", c'era pure quello di essere detentore di libri proibiti dal regime, come il "Tallone di ferro" di London o "La madre" di Gor'kij, libri che peraltro "venivano venduti anche sulle bancarelle". Lo raccontò lui stesso in una manifestazione intitolata "Autobiografia di una generazione", i cui atti con lo stesso titolo sono stati poi pubblicati a stampa (1983).
Talora, quando compro qualche libro alquanto compromettente, come quelli un po' scottanti di Storia passata o recente, mi viene da pensare a quell'imputazione, al fatto che potremmo anche noi essere accusati di leggere testi non graditi al Potere politico.

Fonte di questa pagina: un mio articolo del settimanale "il Ponte" (09.12.1990), ed il volume "I giorni dell'ira".

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

 
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Barafonda, ipotesi su di un nome

Post n°1173 pubblicato il 07 Luglio 2013 da monari

Perché la "Barafonda" di Rimini si chiama così? Lo chiediamo alla nota scrittrice concittadina prof. Anna Rosa Balducci.
"A Rimini, in Via Onofrio Tommasini (dal civico 14 al civico 24) esiste una vasta area in cui sorge un agglomerato di edifici, in uno dei quali ho abitato da zero a quattro anni (dal 1952 al 1956)". 
Quell'area a dune, canneti e acquitrini, fu acquistata dal bisnonno della scrittrice, Giovanni (1853-1927), che vi costruì la prima casa.
Si possono fare due ipotesi sull'origine del nome "Barafonda". La prima è stata raccontata "fino agli anni sessanta, anche nelle scuole, da Balducci Maria, l'ultima dei nove figli di Giovanni: Giovanni arrivò in zona, vi costruì la prima casa e su suggerimento di un amico, forse di un cugino, reduce dal Brasile, scrisse su una tavola di legno, con vernice rossa, 'Barafonda', ricordando la località del distretto di San Paolo Bara-Funda. Tale scritta denominò la via in cui è ancora locata la sua casa per parecchio tempo, finché in età fascista venne chiamata Vico Angelini, per poi essere definitivamente denominata Via Onofrio Tommasini".
Seconda ipotesi, "memorizzata a lungo nei racconti familiari: lo stesso Giovanni e la moglie Angela furono per un lungo periodo in Brasile, presumibilmente nei pressi della località Bara-Funda e loro stessi battezzarono la zona limitrofa all'attuale via Onofrio Tommasini, quando fecero ritorno in patria, ricchi di una pignatta d'oro che avevano portato appresso. Questo valse loro il nomignolo 'Pignatta' e alla zona l'appellativo di 'Barafonda', nonché di 'Ghetto dei Pignatta'. Pare certo che qualcuno della famiglia fosse stato in Brasile e avesse condotto con sé, in patria, questo nome. L'esistenza di una piccola collettività di migranti dal Brasile è confermata da alcuni testimoni esterni alla famiglia (uno, morto qualche anno fa, soprannominato 'Parigi', ne faceva esplicita menzione). Pare essere stata l'evocazione paesaggistica a suggerire questo singolare battesimo (analogie con il paesaggio brasiliano)".
Una postilla di autobiografia famigliare è in queste parole della prof. Balducci, docente di Lettere nelle scuole superiori: "Uno dei nove figli di Giovanni e Angela fu Luigi Balducci, mio nonno, morto nel 1922 per le ferite della prima guerra. Lasciò la moglie, Sammarini Pia e due figli, Mario e Guido (mio babbo), di sette e due anni. Uno dei nove figli di Giovanni e Angela fu Lodovico, babbo di Carlo Alberto Balducci, cugino di mio babbo Guido".
Carlo Alberto Balducci è stato un noto docente, apprezzato studioso e serio scrittore, comparso nel 1991.
Prosegue Anna Rosa: "Carlo Alberto amava questa ricostruzione storica e ne parlava,all'occasione, arricchendola di inflessioni letterarie. Le fantasie e le memorie sono diverse, la memoria storica affidabile e consolidata dal vissuto è andata perdendosi negli ultimi trenta anni . Il ricordo di mio babbo Guido della antenata trasformata in visione latinoamericana (la donna con la pipa, ecc.) è da verificare, forse corrisponde alla nonna Angela, o forse ad un'altra figura femminile. E' possibile recuperare materiale filologicamente credibile al catasto storico, negli archivi personali dei sopravvissuti piu' anziani (ormai pochi) e negli archivi parrocchiali (la zona apparteneva alla parrocchia di San Giuliano martire)".
Di Anna Rosa Balducci è appena apparso in "Racconti emiliani. 3" a cura di Elisa Pellacani un testo pubblicato sul Rimino nel 2005, "Auschwitz e la balena".

 
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Ingorgo politico

Post n°1172 pubblicato il 16 Aprile 2013 da monari

Sino a qualche settimana fa, i commenti politici avevano calcolato la terza Repubblica. Era uno dei tanti fantasmi che affollano le redazioni dei giornali e le stanze di pregiati intellettuali che emettono sentenze ad un tanto al chilo. Non so, ovviamente soltanto per colpa mia, se nel frattempo la numerazione sia cambiata e se, tra progetti, proposte, profferte e promesse, siamo già arrivati alla sesta od alla settima Repubblica. Mi scuso per la mia incapacità di tenere i conti matematici, ma i discorsi politici sono qualcosa di più di un numero da attaccare alle notizie fresche di giornata.
Per tanto tempo abbiamo ascoltato pareri di ogni tipo contro il sistema elettorale in vigore, definito Porcellum (ovvero porcata) dal suo stesso ideatore, che non consente la governabilità del Paese. Uno studio di A. Agosta e N. D'Amelio dimostra che pure il vecchio "Mattarellum" non avrebbe garantito una governabilità del Paese, pur rovesciando l'esito elettorale: alla coalizione di Berlusconi sarebbero andati 259 deputati contro i 125 attuali; ed a quella di Bersani 235 anziché gli odierni 345. Forse la forbice tra le cifre uscite dalle urne e quelle che si immaginano per un cambiamento del sistema (non sapendo prevedere quanti pesci potrebbero finire in padella), frena il dibattito sull'argomento.
Gli unici dati di fatto che non ammettono discussione, sono quelli emersi nel giro di un anno e mezzo, tra la nascita del governo Monti (16 novembre 2011), le votazioni politiche dello scorso febbraio e la prossima elezione del nuovo Capo dello Stato. Ovvero le hanno provate di tutti i colori per rimettere in piedi un Paese colpito dalla crisi economica. Hanno inventato i tecnici che dovevano rimanere fuori dalla Politica. Poi essi sono saliti in Politica, usando il verbo opposto a quello del capo del governo che avevano sostituito, e che si era sempre etichettato come uno disceso in campo.
Poi sono stati inventati i dieci Saggi divisi in due gruppi che hanno prodotto il loro ricco bagaglio di proposte da offrire al prossimo governo che sarà nominato dal futuro presidente della Repubblica. In tutto sono 83 pagine sull'economia e 29 sulle riforme istituzionali. I principali commentatori politici cosiddetti indipendenti non hanno dimostrato grande entusiasmo per quei testi. L'ingorgo costituzionale attuale, tra crisi politica e semestre bianco della presidenza Napolitano, poteva essere evitato da sue dimissioni anticipate. [Anno XXXII, n. 1123]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 15, 21.04.2013, Rimini

 
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Le avverse nubi

Post n°1171 pubblicato il 06 Aprile 2013 da monari

La tremenda, comica nuvola di Fantozzi non persèguita soltanto il famoso personaggio inventato da Paolo Villaggio 40 anni fa, ma è diventata il simbolo di una condizione che coinvolge tutti. Forse rappresenta pure qualcosa di politico, non so. Sembra rimandare a quel classico verso del Foscolo (sia detto senza offesa per nessuno), che risuonava un tempo nelle menti giovanili, "sento gli avversi numi".
Con la nuvola di Fantozzi se la prendono le vittime di una condizione di disagio, come l'arrivo sulla spiaggia in contemporanea con un acquazzone, mentre si sperava nel bel sole primaverile. Ma anche il sole ha perso il suo fascino. C'era una volta quello dell'avvenire, cantato dagli anarchici alla fine dell'Ottocento: "Quando sarà abolito il capitale e splenderà il bel sol dell'avvenire avremo la ricchezza generale e la felicità". Che nessuno però s'azzardava a definire, trasformandola soltanto nell'immagine vaga, rubata all'Antico Testamento, dei fiumi che scorrono a latte e miele. Un arguto scrittore, Stefano Bartezzaghi, ha inserito le nuvole fantozziane in un suo gustoso volume (2012) dal titolo che non ammette critiche, "Non se ne può più".
Ma di questa nuvola che persèguita chi desidererebbe soltanto esser lasciato in pace, esistono altre due versioni: una scientifica ed una politica. Per la prima, ci affidiamo al Servizio Meteorologico dell'Università Federico II di Napoli che, basandosi sulle ricerche di due studiosi tedeschi, conclude una nota con queste parole: "Sembrerebbe che  la  nuvola di  Fantozzi abbia un fondo di verità". La certezza che esiste una siffatta nuvola che guasta tutto, è invece nelle opinioni politiche emiliano-romagnole, tutte le volte che le previsioni del tempo vanno verso la pioggia intensa, e poi di acqua ne scende poca o nulla. È successo nell'aprile 2009 e nella Pasqua 2013. Ma quella nuvola, sostengono tali opinioni, è il prodotto di una "non sufficiente precisione della comunicazione" sullo stato del tempo.
Il lamento politico, con un tono che dal Veneto sino a noi s'accompagna alla minaccia di azioni legali, ha le sue ragioni fantozziane di esistere, per dire che certe cose succedono soltanto in casa nostra. Ma a calmare gli animi potrebbero servire i dati dell'Arpa regionale che, proprio per il periodo pasquale 2013 (28-31 marzo), così sgrammaticava: "l'afflusso di correnti umide ed instabili determineranno condizioni di variabilità perturbata" con precipitazioni irregolari.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 14, 14.04.2013, Rimini

 
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Cara Rimini, 1996

Post n°1170 pubblicato il 05 Aprile 2013 da monari

«Cara Rimini» [1996]
...una lettera per descrivere la città, o da scrivere a lei

 

 

Nelle mie private intenzioni, quest'articolo vuole essere una lettera per descrivere la nostra città, o da scrivere a lei (ad essa, per i puristi). Dovrebbe servire a spiegare concretamente una proposta che ho fatto in fretta al direttore del nostro giornale: affidare alla penna di alcune persone, che vivono ed operano tra noi, il compito di svolgere lo stesso tema di queste righe.
Il direttore ha già capìto di che cosa si tratti, ma adesso devo comprenderlo io. «Confidando nella pubblicazione della presente», siccome non sono un teorico mi faccio un esempio a mio uso e consumo: credo che avesse ragione «don Benedetto» (Croce) quando scriveva che uno non può dire di avere in testa un bel quadro, bisogna che lo dipinga.
Lo so. Le parole di Croce sono più intelligenti ed eleganti delle mie. Dato che (come derideva Palazzeschi), «ci sono professori, oggidì, a tutte le porte», per chi legge armato di matita rossoblù mi corre l'obbligo di fornire giusta etiamque legittima citazione. Allora, vedasi B. Croce, Aesthetica in nuce, Laterza, III ed. (1954), pag. 21, al capitolo intitolato «Intuizione ed espressione»: «Un'immagine non espressa, che non sia parola […] parola per lo meno mormorata tra sé e sé […] è cosa inesistente».
Proviamo a mormorare qualche parola, entrando direttamente nel tema. Cominciamo da una pagina pubblicitaria che ho sotto gli occhi, dai settimanali di giugno, dove si legge: «Rimini. Undici parole al sole». Segue l'elenco. «Mitica. Vicina. Solare. Complice. Soave. Dinamica. Notturna. Aperta. Nobile. Intelligente. Instancabile». Per la verità, stando al buon senso le «parole al sole» dovrebbero essere soltanto dieci. Come fa ad essere al sole anche la Rimini «notturna»? E poi, ma non per pignoleria, la Rimini «solare» che sta «al sole» non è un'inutile ripetizione?
Questa pubblicità ci obbliga a riprendere almeno uno di quegli undici aggettivi, o al contrario ci autorizza a scartarli, non citandoli per non apparire privi di fantasia?
La Rimini «nobile» qual è? E che cos'è? È l'eleganza dei suoi monumenti, sono le geometrie del pensiero umanistico che traducono nelle linee armoniose del tempio di Sigismondo un sogno di perfezione che alimentò le utopie dei filosofi del Quattrocento italiano? È la luce che il tempo aveva offuscato, e che i restauri hanno restituito al suo originale splendore, il quale commuove il visitatore odierno, obbligandolo a riflettere che quella tonalità cromatica, che la patina dei secoli aveva deturpato e cancellato, è la stessa che videro i Malatesti, l'Alberti, gli uomini e le donne della sua corte?
Ma per contrasto, la Rimini «nobile» potrebbe anche essere quella decaduta, abbandonata ed avvilita dell'anfiteatro, l'illustre e sconosciuto monumento romano che potrebbe diventare simbolo delle incurie pubbliche, avendo in buona compagnia sia il palazzo Lettimi (ancora lì con le sue macerie della guerra), sia il teatro che non c'è, che rassomiglia agli scenari di cartapesta dove i fotografi di inizio secolo facevano infilare la testa di una persona, per ritrarla con un vestito o su di uno scenario dipinto. Del teatro c'è la facciata, ci sono due sale, ma non c'è l'anima stessa da cui discende la parola. Non c'è un palcoscenico, non c'è una platea. E continuano a chiamarlo teatro.
La Rimini «nobile» è quella dei ricordi del Kursaal distrutto non dalle bombe ma dagli uomini, come pure la chiesa di Sant'Antonio sul porto canale, all'inizio della ricostruzione post-bellica?
Dal punto di vista sociale, Rimini è più «nuova borghesia» che «vecchia nobiltà» (l'osservazione è pertinente, o vado fuori tema?). Non ho scritto «vecchia borghesia» di proposito: questa aveva certi galatei che adesso non usano più. Rimini è la città dalle mille vetrine di lusso, una delle più ricche d'Italia, dove i consumi sono altissimi, dove l'ostentazione è un mito sociale che affascina e coinvolge senza più distinzioni ideologiche, e purtroppo senza moralità alcuna.
«Instancabile», Rimini produce altissimi redditi per un numero sempre più limitato di persone. Ma impone modelli di comportamento, rispetto al quale non tutti riescono a tenere il passo. Mi si potrebbe obiettare che tutta l'Italia è così. Non ci credo. Basta informarsi un poco, leggere, guardare certe immagini televisive (sui giornali sono scomparsi i reportage fotografici: va di moda mettere a fianco di un articolo la scena di un film). Non tutti possono scialare, vivere lussuosamente.
Rimini fa moda fuori di Rimini. Chissà perché, quello che avviene qui fa tendenza. E non sempre con le cose migliori. Quei ragazzi meridionali che ogni mese salgono dal Sud per un fine settimana, da vivere ballando o sballando, spendono, lo dicono loro, sulle 400 mila lire per volta. Questo tipo di vita che finisce per essere assorbito anche dal proletariato urbano (mi scuso per l'uso di queste vecchie categorie socio-economiche che suonano antiquate nel marmellatume corrente), è più «mitico» che «intelligente». Ma a cosa servono i miti?
Rileggevo alcuni giorni fa un articolo di Giorgio Tonelli, apparso dieci anni fa sul Ponte a proposito del libro di Federico Fellini intitolato La mia Rimini. Tonelli riassumeva, con la maestrìa abituale, il senso delle pagine felliniane: la sua Rimini era tutta romana, tutta inventata, tutta di sogni (e di cartapesta nella realizzazione filmica).
Dove sta il «mito»? È quella visione poetica, illusoria (o allucinante) del passaggio del Rex che, testimone la generazione di Fellini, a Rimini non è mai passato? Il mito è, oggi, lo slogan pubblicitario che «qui non è mai tardi»? Ma dietro questa facciata da esportazione, dietro la pubblicità, qual è il vero volto della città? È quello della vita estiva? Ma la nostra economia non è solo turismo. È quella del corpo esibito sulla spiaggia nella sua snellezza abbronzata, o anche il passo incerto di tanti anziani, di tanti giovani a cui la vita ha riservato un diverso destino?
Parlando dell'«anima Rai», un suo vecchio dirigente, Pierluigi Celli, l'ha definita «variopinta. Un circo. E non lo dico con disprezzo. Io sono di Rimini e ho un gran rispetto per il circo, in senso felliniano. Un luogo fatto di decadenza e lustrini». E se anche Rimini fosse un po' circo, nel senso felliniano di «decadenza e lustrini»?
Noi ci barcameniamo, a livello anche politico, nel pensare una città che d'estate lavora e d'inverno deve stare in letargo, per cui ai problemi (grandi o piccoli) non si può pensare d'estate, e d'inverno è meglio lasciar perdere.
Esagero? Un esempio, per non farla lunga. Al traffico sono stati dedicati sondaggi, rilevamenti, progetti, indagini, inchieste. Ma l'anello intermedio tra vecchia e nuova circonvallazione, con il previsto (fine anni Sessanta!) ponte sul Marecchia non si è completato, e la circolazione è strozzata. E così il gemello (o in alternativa il tunnel) al ponte di Tiberio è rimasto una pia intenzione.
Abbiamo quei parcheggi sotterranei, promessi, garantiti sulla carta, previsti dall'oggi al domani? In compenso, tassiamo anche la sosta al mare. Le amministrazioni comunali hanno fame di soldi. Governare i Comuni costa. Lapalissiano. Ma è possibile che si debbano introdurre nuovi balzelli tipo «gratta e sosta»? Può ancora definirsi «aperta» questa città che accoglie il turista, allungando la mano, richiedendo una forma nuova e legalizzata di elemosina (per non parlare delle multe vigilesche)? Una città simile è ancora «intelligente»?
Cara Rimini (a differenza dei tuoi amministratori, vecchie conoscenze personali, che dopo aver io scritto qui sopra certi articoli di critica verso di loro, quando m'incontrano fingono di non vedermi per non aver il piacere di salutarmi), non te la prendere per la mia sincerità. «Amor mi mosse, che mi fa parlare».
Post-scriptum. «Ma c'è chi non capisce/ e preferisce il mondo/ così com'è: immerso in un pattume» (E. Montale).
Antonio Montanari

 
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Barbara Spinelli sul Colle

Post n°1169 pubblicato il 03 Aprile 2013 da monari

Barbara Spinelli sul Colle, scrivevo sul web nel 2006, riproducendo una lettera mia censurata dalla "Stampa" di Torino. La ripropongo qui (data: 30/04/2006).

 

Barbara Spinelli sul Colle

E adesso dobbiamo pensare seriamente alla Politica. L’elezione di Franco Marini al Senato lascia un’ombra d’inquietudine. Per arrivare alla conclusione, hanno dovuto escogitare il sistema delle schede «segnate». Violato il segreto dell’urna. L’elezione potrebbe essere invalidata. Testuale citazione dai giornali di oggi 30 aprile 2006 (ad esempio, vedi «Repubblica» pagina 10): i senatori di Ds e Rifondazione hanno scritto «Franco Marini», quelli della Margherita «Senatore Franco Marini», quelli dell’Udr  «Franco senatore Marini», e l’Italia dei valori aveva da indicare l’ultima formula «Marini Franco».
Clemente Mastella  ha dichiarato al «Corriere della Sera»: la congiura delle schede con «Francesco Marini» è stata una mia idea, ma poi a tradire sono stati quelli della Margherita, non la facciano lunga altrimenti dico i nomi.
Sulla «Stampa» il fondo consueto domenicale di Barbara Spinelli ammonisce, a proposito di tutto ciò: «I miasmi delle ultime ore converrà tenerseli accanto come ammonimenti», ricordando il contributo di Giulio Andreotti all’inquinamento del clima politico in questi giorni.
Pensando al Quirinale, e leggendo il suo articolo, ci passa per la mente l’idea di proporre Barbara Spinelli come candidata dell’Unione al Quirinale. Lontana da quei giochi nascosti e dai miasmi politici che denuncia ed analizza impietosamente (non soltanto oggi, ma da sempre), lei pare l’unica persona credibile per l’altissima carica da cui si dovrà offrire la Paese la garanzia di una trasparente indipendenza, di una solida autonomia di giudizio, di una correttezza di analisi che sono fondamentali in un momento confuso come quello che stiamo attraversando. Quindi candidiamo Barbara Spinelli al Quirinale.

 

Successivamente (18/11/2006) nel blog politico che allora gestivo sulla Stampa-Web scrivevo quanto segue.

 

Donne e politica

Perché vedrei ben volentieri una donna a palazzo Chigi:
1. La popolazione è composta di maschi e femmine, e finora soltanto i maschi in grandissima percentuale hanno gestito la vita politica.
2. Sarebbe ora che, senza quote rosa e senza recinti protetti, l'elemento femminile fosse accolto in proporzione non dico alla popolazione (dove le donne sono la maggioranza), ma in parte eguale rispetto a quello maschile.
3. I politici italiani non hanno grande stima dell'elemento femminile (vedi i discorsi berlusconiani di recente memoria).
4. I politici italiani maschi sono vecchi e stanchi. Occorre rigenerare la nostra vita pubblica. Cambiare molte cose. Una di queste cose da mutare riguarda appunto la presenza femminile, da incrementare, valorizzare sino al punto di riconoscerle pari dignità anche nell'esercizio delle «supreme cariche».
5. Ecco perché avevo proposto Barbara Spinelli per il Quirinale.
Il post pubblicato qui sopra il 30 aprile 2006 l'avevo inviato anche alla Stampa/lettere dei lettori: non è stato pubblicato...
6. Perché la Spinelli. Avevo scritto che lei offriva «al Paese la garanzia di una trasparente indipendenza, di una solida autonomia di giudizio, di una correttezza di analisi che sono fondamentali in un momento confuso come quello che stiamo attraversando».
Mi ritrovo anche oggi in quelle parole. Aggiungo: la Spinelli era una garanzia anche per la laicità del nostro Stato.
Post scriptum. Circa la mancata pubblicazione della lettera pro-B. Spinelli sul giornale di carta, riprendo dalla Stampa di stamani un passo di Tito Boeri: «Un altro effetto di Internet è stato quello di aver moltiplicato il potere delle idee. Chi ne ha, può diffonderle a costi molto bassi ad un'elite sempre più numerosa, senza dover necessariamente passare dai giornali».

 
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