imagomentis

sento la tua voce e vedo il tuo corpo, o sono santo o pazzo


    Tu dici che, percorrendo a ritroso il nostro corpo in una diagonale diradata di consapevolezza, si possa giungere al discorrere primordiale dell’anima, luogo fugace di figura simbolica disseminata in capillari diacronie, mistico rancore sparso nel remoto viatico scomposto del sovrapporre l’organo del gusto alle parole, fino a farle diventare immaginifiche oleografie di resina e di aria.(Ti immagino raccolta in fasci profumati di piccoli segni e suoni, appena spigolati da quel nulla docile che ti sfiora i capezzoli. Raccogli un foglio sparso e guardi il soffitto per annodare i nomi. Credo sia Telemann quel soffio di suoni che senti complice di eternità. Potrebbe essere anche una cantata di Bach. Immaginarti mi confonde persino la musica.) Io credo invece che sia un’occasione suddivisa da pannelli architettonici dimenticati, riverniciati da un ramo scheletrico, per farne poi scrittura condivisa nell’alcova dall’uscio mimetizzato sul muro che alleva le mani, tra la polverosa decadenza delle dita e io ti seguo, mentre raschio un’arancia per mangiarne la buccia, nel calpestio spellato del linguaggio senza l’estensione credibile della nostra corrispondenza, non necessaria eppure insufficiente, fine a se stessa nel diaframma accostato della perifrasi e unica concessione possibile esposta, in punta di diadema triangolare, allo smembrarsi sbriciolato di cose per tinteggiarsi le spoglie, introduzione carsica sovrapposta ad una civetteria adorabile delegata allo specchio.(Sì, è una bottiglia vuota quell’oggetto sfocato che vedi sul pavimento. L’etichetta è stracciata e non so dirti che liquore sia. Lo so che ti piacerebbe indossare la mia camicia sbattuta sulla parte vuota del mio letto. Facciamo uno scambio? La mia camicia per il tuo passo leggero nel tuo guardare di lato, quel tuo sorprendermi tra le cianfrusaglie del ricordo, e le mie ciglia umide sul tuo ginocchio nudo.)Tu insisti e proponi un irresponsabile mecenatismo sentimentale, in quella lastra sottile di cristallo che mantiene l’anima rarefatta e corrosa nella sua luminosità evanescente, nella sua distanza assimilabile ad un sogno interrotto, macchia solare pronta per offuscare l’età critica di una ragione abusata, non conforme ai dogmi fittizi di lampioni accesi in linea scorretta con la luna e disposta, quest’anima ludica e grave, a sublimarsi nel suo manifestarsi in verbo, che si assottiglia come un idolo di ghiaccio apparso, in questo filo di fumo e di tabacco, per difendere con olio caldo e fuoco, ostinata e leggera fino alla devastazione dal sorriso ironico, quella manciata ultima di percezioni assediate, nel bastione della scrittura, da sensi di colpa antichissimi, che le parole a volte riescono solo a trasfigurare.(In fondo si tratta solo di non farsi cogliere impreparati, quando qualcuno si avvicina per commerciare pensieri. Chiudere gli occhi e ascoltare, come se fossimo ciechi, tapparsi le orecchie e vedere, come se fossimo sordi, chiudere la bocca premendo forte il palmo della mano sulle labbra e tacere, come se fossimo muti, (non resterebbe che il tatto, il toccarsi, lo sfiorarsi a vicenda per capire che a volte non è necessaria la ragione) poi mettere insieme la scomposta rappresaglia della percezione e illudersi di creare, per non farsi fregare quelle quattro parole che puntellano ciò che ci ostiniamo a chiamare scrittura.)Se c’è un mito imperfetto che non ha mai cinto la mia psiche poco ortodossa, è quello d’Edipo, ti dico quasi intimorito dalle tue frasi che mi scompigliano, se raggiunte da un fiato tiepido, i capelli con pause interminabili dal sapore dolce. Eppure mia madre è una donna con occhi azzurri e pelle chiara di normanna frettolosa, e libertà di mistica con i piedi per terra, senza timore di sporcarsi le mani, nel male sincopato dell’esistere provvisorio. Da piccolo mi diceva: “Il più intelligente, nel parapiglia del sentimento, cede, mentre stirava, dopo la scuola, al suono circolare della sinfonia “dal nuovo mondo” e mi raccontava di gente nera con le mani bianche di cotone e di gente slava sciolta tra i cavalli nella steppa. (Io leggevo, con i miei occhi chiari, probabilmente Salgari o Stevenson seduto sul pavimento con le gambe incrociate e  quello sguardo, stupito e vorace sul mondo, dei bambini che vedono e leggono e tengono il naso per aria. Ora non leggo più Stevenson, su quella tabula rasa dell’infanzia, e mia madre non mi racconta più di negri e slavi, eppure talvolta, nei sogni che non ricordo o nel guardare gli occhi di una sconosciuta, rivedo quel viso chiaro e quello sguardo sospeso, di quattro occhi complici che si assomigliano.)Siamo stati viziati, ti diciamo, ridendo, la mia anima appesa e la quantità imprecisa di materia che la raffigura, dalla bellezza concreta che ci ha cullato come bambù ai margini di un fiume collinare e ora, stufi della sua deviazione senza confini, che richiederebbe il silenzio (riesci ad immaginare il mio silenzio?), lasciamo fare al caso. Così mi raccolgo spesso tra le mie cose e resto in santa pace, finalmente, a guardare quadri sui muri attaccati al contrario da mani proditoriamente distratte, a leggere libri guardati al rovescio, saltando le pagine con gli occhi che fissano solo i numeri in alto a destra per farne cabala di numismatica, e immagino una memoria crepuscolare che vacilla tra le pennellate credibili di pittori piegati dietro l’ardesia e le frasi equipaggiate di scrittori inclinati all’orizzonte di una narrazione senza tempo né spazio, per espiare le colpe inavvertite dall’arroganza dell’andare oltre, del tracimare improbabile dentro o fuori di sé, sempre, e in ogni modo, strafottendosene del dio inventato rassicurante e ricattatorio, che irretisce la mente con promesse da mantenuti o del demone che titilla la pelle, per fregarsi gli orgasmi tattili.(Sì. Ora stai con la testa appoggiata sul cuscino. Sei sola e guardi il palmo della tua mano. Accendi una sigaretta e pensi a quello che hai visto e che non ti è piaciuto. Hai voglia di scrivere perché se non lo fai ti svuoti. Accendi il p.c. e sul monitor le tue parole diventano pesciolini e squali che si inseguono in vortici pieni di acqua salata e di acqua dolce, alla foce di un fiume sotterraneo che sembra una polla sorgiva esplosa sulla fertile insenatura del tuo immaginare. Forse ti sfiori il sesso per spruzzare le frasi.)Il disastro, ora lo so, arriva a gocce uncinate con la scrittura e viene senza avvisare.Perché rendergli più semplice il suo sporco lavoro di verifica, ti chiedo ebbro di cose, provando affanno nel vano tentativo di allontanarne l’epicentro nell’immaginario, che è sempre e solo indubbiamente atteso nel crocevia del vivere soprasensibile tra il desiderio e l’atto, tra la parola e il gesto, tra l’indefinito gioco del reale e del nulla?