imagomentis

al bar del vino e dintorni


   c’è stato il tempo in cui, al bar del vino, dopo un buon piatto di formaggi e salumi e una bottiglia di rosso docile al palato, lei mi portava un trittico di grappe che sceglieva solo guardandomi il viso e mi diceva pure in quale ordine bisognava sorseggiarle ed io, stranamente docile, ubbidivo, forse per gioco oppure perché mi fidavo del suo gusto e della sua intelligenza, accompagnata da un corpo niente male e da uno sguardo di popolo sapiente, che alla battaglia è sempre in prima linea, col disincanto nella giusta dose e, nel suo caso, con l’ideologia, simile alla mia, tradita dalla gente e dal tempouna era fruttata, l’altra pastosa e forte, la terza secca i nomi non li ricordo, ne ho bevute tante e poi, per i liquori e i libri, ho poca memoria probabilmente in questo modo mi difendo dall’eccesso, e lo attutisco sarà perché li ho frequentati troppo? lei indovinava sempre il mio stato d’animose ero inquieto, la composizione alcolica era accostata in forte secca fruttata, per darmi il tempo di abituarmi al dolce, e rappacificarmi con il mondo e con gli uominise invece ero irritato, fruttato secco forte, ed il torpore vigile arrivava me ne stavo seduto al mio tavolo di legno, proprio sotto una raffigurazione africana, a bere i miei bicchieri, gettando lo sguardo su cose e persone, in silenzio, cercando di attutire la lontananza con il mio amore in india, e non ricordarmi della sua reale malattia mortale, assurda, ingiusta, disumana, e nello stesso tempo tenerla viva almeno col pensiero, evocando demoni, divinità, e tutto il possibile del non umano, per toglierle quel suo male intollerabile e prenderlo in me, fare un cambio di vita, io che avevo già vissuto abbastanza   e qualche volta lei si sedeva di fronte per scambiare due chiacchiere di tanto in tanto la sua espressione era simile alla mia, combaciava in intenti, in accordi semantici, di sinonimi muti, e le parole si accostavano quiete e remissive e allora la vicinanza temperava l’istinto e mi venivano fuori frasi divertite o pensose  altre volte erano lontane, sorde, esuli nel loro altrove simbolico, figurativo ma ci piaceva sentirle lo stesso, nel loro mitigare la nostra solitudine diversa, io nel mio mondo  immaginato e infitto nel reale, lei nel suo mondo  reale spinto all'interno dell’immaginario e insieme, separati,  accolti a tratti nell’assurdo insistere ai sogni, disincantati e pronti ad incantarci ancora   più di una volta ho immaginato di sfiorarle la mano, il viso, ma era piacevole vederla lì, a poca distanza, a dire e a sorseggiare anche lei qualcosa di buono, fumando la sua sigaretta accesa col mio accendino rosso, e tra i sorsi perdere un po’ di sé stessa, a raccontarsi  perché allora sciupare, per inseguire un gesto probabilmente inutile alla sua narrazione, quel sortilegio in forma di visione? quando voleva starsene da sola, rispondeva al saluto da dietro il bancone, seduta su uno sgabello di legno, sotto bottiglie allineate e calici sospesi, con il volto pensoso e rarefatto  a leggere i suoi libri, e in quel momento avrei potuto persino innamorarmi della sua indifferenza imperfetta agli avventori, e soprattutto a me una sera o una notte, con qualche bicchiere di troppo, incominciai a parlare a ruota libera, non so di cosa, forse del tempo che ci hanno rubato, dei sogni rapitati e delle idee che resistono ancora nella mente, ma non si raccontano più, se non dopo molti boccali  ma lo si fa con ironia, perché non è il momento della rabbia, quella è una cosa per intelletti giovani e corpi acerbi che si cercano l’anima, alla mia età sarebbe una cosa buffa e grottesca, meglio riderci sopra, un bel po’ ebbri, da gente libera e divertita ancora, a sfottere le persone serie in quella notte con parole a valanga, lei non disse nulla, forse si limitò ad ascoltarmi, non ricordo  ricordo però il barbaglio rarefatto di un lampioncino lontano, il fondo sgombro dei bicchieri vuoti che emanavano un bagliore turchese, un vecchio olivo un po’ spaccato, scavato dal tempo, privo di frutti, con poche foglie povere e rami discostati, uno sguardo estraneo cadermi addosso pieno di stupore e di vergogna, e il mio occhio che scrive che sentiva sempre di più la mancanza di una tastiera, per riversare a fiotti “lu sangu pacciu”  sul mondo truffatore, contrabbandiere, per renderlo, perlomeno in scrittura, forse più umano, meno posticcio e artefatto quando incomincio a dire, a raccontare a voce, non è facile tenermi a morso, mettermi la cavezza, rabbonirmi, farmi tacere è molto più semplice dirmi vaffanculo e andarsene, e forse è quello che davvero cerco, restare solo, a far marcire l’anima  ma non si può, perché c’è sempre una femmina che ostinata vuole rintracciarmi nel mio io suddiviso, a grappoli, ad ammassi,  sparso ovunque, in frammenti che lascio ammonticchiati in giro, fino a scordarli altrove forse perché prima o poi fa il confronto tra il suo bel mondo di cartapesta  e porcellana e il mio piccolo spazio brusco di pietra lavica e terraglia, e sente urgenza irrequieta di affascinare le frasi e di sedurle, senza smanceria alcuna, senza adulazione io nel mio kaos sto bene e quando torno a casa, tra le mie mura stinte dagli intervalli incerti della ragione, spengo il cervello e gioco con la memoria a togliere l’immaginario al reale, per mescolarli tra i fogli, troppo vicini ai bicchieri, alla musica  in una di quelle notti m’invitò a casa sua, ma questa è ancora un’altra storia