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ENTROPIA PER UN’ALTRA VOLTA (1)

Post n°92 pubblicato il 10 Ottobre 2013 da imagomentis

 

Ed è una ennesima storia quasi su commissione, anche e non solo da me a me stesso, che principio indolente a raccontare, tra memoria e reale, in borderline di compilazione, da io diviso e frantumato in cocci, da rappresaglia etica ed estetica,  con ridondanze varie da condom lessicale e calici svuotati e di parole dilapidate in fretta.

 

In descrizioni accennate e narrazioni vaghe, con scornici sbucciate da riverberi almanaccanti e impuri, inadeguati indecenti e soprattutto illogici, in un mélange  di eros e kaos, di logos e di nous, da fallo appeso al chiodo in comparsata apprendista, perché dal tropico milleriano in poi, gran timoniere compreso, confusione per me è solo parola usata per indicare un ordine che ancora non si capisce né è obbligatorio il farlo.

 

I simboli ci sono tutti, raggruppati in scompiglio, osceni e miscredenti nella loro apparenza che inganna ed indica. Come se fosse il cenno di un’aletheia sboccata un po’ baldracca.

 

Mancano ancora i segni.

 

E c’è persino uno scampolo bucherellato di memoria che circonda, come un velo mistico da boutade, quasi danzando al vertice della sostanza invisibile intorno all’occhio del mio reale impreciso, questa ennesima rappresentazione di segni corpo 11, dietro o davanti o dentro o fuori la luce bianca del foglio di falsa carta che illumina, come un’aureola empia e sacrilega.

 

Un calice di vino alle mandorle, denso giallino dolce da sorseggiare, la vecchia pipa accesa col suo fumo in rivolta che sale al ritmo scorticato del respiro, suono ampio barocco ridondante in cuffia a ritoccare gli estremi e un gotto sporco capovolto sul collo del j.d. a rammentare il tramonto sotto il tabacco in briciole.

 

Perché ciò che mi accade in oasi, malgré moi,  da circa un decennio, è traboccante di simboli ribelli e pregni, quasi da aborto più o meno irriflessivo,  di cose umane tra gli uomini e le femmine, in argot siculo nel pronunciare, e colmo fino all’orlo ondeggiante di rammemorazione sacra e profana, da chiostro o da bordello, da roghi in piazze anonime,  di tronchi a caso affastellati come l’essere scaraventati in questo mondo assurdo e pantomimico, da decifrare e intendere perciò senza più alcuna logica, come l’esistere, come il narrare eccetera.

 

E c’è pure chi dice che questo sia il comunicare. Il passaggio di cose ignote e note tra due corpi, coi cinque sensi ad accogliere percorsi e pungoli, ed il sesto, la mente stropicciata,  a radunare in codici, deciframenti, parafrasi o esegesi, a casaccio sempre e comunque e come geisha indocile una bianca pagina baldracca si raffigura, entraineuse persino in metafora o fuori.

 

Ma il ritornare in simboli e lessemi, non sempre accade.

 

E nel dirsi qualcosa, anche nel gesto vuoto, inefficace al primo sguardo forse, al primo tocco forse, ciò che rimane è l’identico ricomparire del già detto, del già fatto altrove, del già visto, nel qui e nell’ora o nel lì e nel dopo utopico e sperato, nel prima smemorato oppure ardente,  ad arruffare, a cogliere in distanza di mani e di pensieri, sminuzzato nel via vai espressivo ad libitum in ozio disarmonico del ritentare ancora un blando ricominciamento inaffidabile, al crocevia dell’incontro,  o dello scontro, nell’accennare in balbettii abboccanti un tao da condividere, magari in bianco e nero, virato seppia all’iride, che ci assomigli nel sogno e nel reale e che ci rappresenti almeno nelle intenzioni, nei tentativi, negli azzardi di silhouette di carne e sangue e seme a comprendere, di cui l’inferno ha i ciottoli ben lastricati.

 

E nello scrivere è peggio.

 

E tutto questo è memoria, è dissennata rammemorazione in dissonanza oscena, liquefatta in crogioli di pietra lavica o pomice, a fondo o a galla, che solo il segno grafico, nel mio contesto ripetitivo e ribelle di kaos libertario, raggruppa a caso ed incasella incauto ed accurato in un ordine che ancora non capisco e me ne fotto perché la logica all’esistere non mi è più utile né mi interessa all’essere, ovvero nello spazio che è ponte immaginario del mio io suddiviso,  poi del comprendere, del coesistere, del narrarsi e intendersi.

 

Tu scrivi e dici luce sul mio corpo nudo e dormiente sul letto bianco a tre lati e stropicciato a proteggermi, io dico e scrivo i gesti del tuo corpo nudo e distante dietro gli anelli intrecciati di una tendina vecchia in controluce ad esprimersi.

 

Questo non è l’incipit: sta in mezzo.

 

Siamo in vacanza entrambi, ovvero vuoti. Io almeno. Ed il vuoto vacuo è qui l’irripetibile realtà replicata  che mi raffigura, il sinonimo simbolo dell’esistere nel mio tempo a cerchio, quasi spirale, vortice, spesso interrotto ai margini della sembianza.

 

La prima immagine, dopo un’attesa breve, è un viso regolare, cinto da occhiali ampi, come incauto apparire di un piglio da segretaria gattamorta che legge dentro, o decifra, professionista di apparenza loquace, da carambola in buca, che spiazza il giocoliere senza arroganza, in bilico d’appartenenza e sesso.

 

Mi incuriosiva il due di seno, a coppa intenditrice di champagne da ingollare in un sorso, con mano a conca sorniona a titillare per render irto il bocciolo di carne.

 

Taxi o bus? Fu il bus ed immersione tra la gente e la chiacchiera.

 

Due sole ore di sonno in vacanza mi friggevano il cervello. Due ore di volo non so cosa facessero al suo.

 

Un’ora dopo eravamo tra le mie quattro mura.

 

E per tre giorni ci restammo quasi sempre, salvo per visitare la città accaldata e vuota o per cercare in agosto i pochi luoghi decenti ancora aperti dopo il tramonto in cui mangiare e bere per una cena.

 

Non guido da vent’anni e non posseggo una mobile auto perciò ci siamo mossi a piedi e nei dintorni.

 

Ma so cucinare e per il pranzo non furono problemi.

 

Il bere subito è facile: vai, scegli, prendi, paghi e metti in frigo o su un ripiano bottiglie e bicchieri e bevi quanto e quando ti pare. È il durante e il dopo che t’imbroglia memoria e compattezza.

 

Prima sull’alibus di viaggiatori colmo fu agevole il ciarlare con quella gente dall’odore umano, rassicurante a tratti se provvisorio all’occhio e temporaneo al dire.

 

E lei parlava, senza barriera alcuna d’insofferenza al pronunciare di circostanza che se ne fotte dell’intelligenza, il dichiarare estraneo tra sconosciuti all’esistere, dove il noi siamo è davvero il qui ed è ora, l’adesso inconsistente, da sguardo svelto.

 

Ed io, tra le parole strafottenti al mio comunicare da straniero di lessico sciupato ad occhi sordi, sogguardavo il suo collo e il seno un po’ più giù che di numerazione era a suo dire il due, quella seconda che enunciano le femmine intristite, come per un torneo non vittorioso all’occhiata, all’apparenza, al modello.

 

Mora capezzolo rosa, aveva di sé scritto una gran bella femmina vent’anni fa, quasi in ossimoro di adescamento, di seduzione all’immagine.

 

Ma del suo seno nudo ancora non sapevo la nuance di carne.

 

La brasiliana col culo docile sulla sedia del bus non era niente male, anche se paffutella di contorni cercava allegra di attaccar bottone chiedendomi di strade o di percorsi ed io l’assecondavo pourparler.

 

Ed ogni tanto l’insolente mio sguardo cadeva sui capelli fatti a chignon, scuri, castani,  crespi acconciati ed il profilo, non della brasiliana ma di lei per scelta messa a mollo in questa storia breve che s’annunciava, sotto l’iride azzurra del mio scrivere a mente si dichiarava ellenico, il suo profilo, con bocca a taglio lusingatore, quasi impudico, all’occasione plausibilmente osceno e involontario.

 

Dal capolinea a casa furono passi immemori, di circostanza e indagine scambievole ed a metà fu il chiosco a dissetare e piacque.

 

Dal cortiletto semplice al portoncino in ferro nero e scrostato, furono invece attimi un po’ indecisi al fare.

E finalmente dentro, tra le mie vecchie mura dai soffitti bassi con poca luce, che non mi fanno parte di borghesia o potere e dove è sempre facile l’entrare ed è altrettanto facile l’uscire, col mio imprimatur di smemoratezza da sveltina.

 

 

9 ottobre 2013

 

 

 
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