Essere se stessi

La festa dei morti


I cimiteri, normalmente deserti, silenziosi, a volte dimenticati, in questi giorni si animano. Profumano di fiori freschi, le voci rimbombano fra i filari di tombe, tante persone vanno a trovare i cari che non ci sono più. Ma non in tutti i luoghi e per tutte le comunità il rapporto con la morte è la stesso. «Quanto la morte sia protagonista del pensare dei siciliani, o meglio, quanto i siciliani pensino a partire dal sentimento di morte che li abita, nessuno l'ha espresso meglio di Gesualdo Bufalino in una delle pagine più dense del suo libro La luce e il lutto: "Così noi continuiamo ad opporre alle abbaglianti vociferazioni del sole la certezza immemorabile che su ogni cosa trionfa il niente. E che nei nostri occhi, finché non li chiudiamo, sono destinati a combattersi e ad amarsi per sempre la luce e il lutto"».Così in Sicilia, la Commemorazione dei defunti è "la Festa dei morti". Il giorno di Ognissanti «per noi bambini - racconta l'etno-antropologo Ignazio E. Buttitta - era giorno di impaziente attesa. Agognavamo che il tempo si affrettasse verso l'ombra e cercavamo nel cielo i segni del declino. Poiché era la morte del giorno che inaugurava il tempo della festa. Mio padre , appena rientrato dal lavoro, ci chiamava: forza andiamo alla Fiera! Non era la certezza dei doni che egli avrebbe acquistato a nostro diletto che ci aveva fatto fremere. Quelli, lo sapevamo bene, sarebbero comunque arrivati, i morti ci avrebbero donato, così ogni anno doveva accadere, i balocchi e i pupi di zucchero. Era piuttosto la brama di riempirci di colori, di suoni, di odori e di sapori straordinari, di introdurci con nostro padre in una dimensione altra, quella mitica del tempo senza tempo».
 Tradizioni che resistono e altre che si spengono. Ma non dovremmo mai perdere la consapevolezza - sottolinea ancora Buttitta - che «dimenticare i morti, il loro insegnamento, i riti antichi che ne rammemoravano l'esistenza e il ruolo presentificandoli per simboli, ciclicamente, ai vivi, significa disperdere la propria storia culturale, consegnarsi al nulla, essere nulla. Questo non sapevamo né avremmo potuto comprendere noi bambini. Lo sapeva certo mio padre, che, immancabilmente, anno dopo anno ci accompagnava alla Fiera dei Morti, lo sapeva mia madre che imbandiva la tavola serale con pupe di zucchero, oss'i muortu e frutta martorana. Lo sapevano i morti che ogni anno tornavano a carezzare i loro figli e nipoti».