LI SURFARARA (i minatori)
Negli ultimi tempi, prima che le miniere fossero definitivamente chiuse, gli zolfatai andavano alla miniera in tre turni: il primo alle sei di mattina, il secondo alle due del pomeriggio e il terzo alle dieci di sera. Gli zolfatai giovani e da poco sposati si rodevano dalla gelosia al pensiero della moglie giovane e bella lasciata sola in casa per tutta la notte e nacque così la leggenda di "La sciorta di li curnuti". Ma qualche caso, anche se non molto spesso, capitava effettivamente, l’ultimo una trentina d’anni fa circa, e finiva sempre in sparatorie e omicidi. I Carusi, secondo la legge, dovevano andare a lavorare nelle miniere di zolfo a dodici anni, ma chi proveniva da famiglie molto povere era costretto ad andarci prima.
All'interno della miniera, nelle viscere della terra, i minatori scavavano incessantemente per tutto il giorno e a causa della temperatura elevata erano costretti a lavorare praticamente nudi, con soltanto un sottile panno a coprire le parti intime. In tempi remoti le miniere di zolfo furono anche il luogo dove si consumò il dramma dello sfruttamento minorile. A farne le spese furono i cosidetti carusi, bambini che ancora in tenera età venivano impiegati nei cantieri sotterranei e costretti a trasportare sulle loro tenere spalle pesantissime gerle riempite di minerale.
CHI ERANO I CARUSINel sud Italia, più precisamente in Sicilia, c’erano i Carusi, bambini che lavoravano nelle miniere di zolfo e che a causa della fatica e degli stenti avevano il corpo deformato .Si chiamavano così perché facevano lo stesso lavoro degli asini,cioè portavano la roba pesante sulle spalle,alcuni di loro erano addetti ad aprire e chiudere le porte che separavano i settori della miniera.Lavoravano circa dodici ore al giorno e la notte non tornavano a casa ma dormivano nella miniera in un piccolo buco buio con poca aria. Quando uscivano, dopo diversi, giorni non riuscivano nemmeno a sopportare la luce.Lavoravano in stanzoni con poca luce e sia per la scarsità di luce che per la stanchezza spesso succedeva che si rovinavano le mani.Avevano poco tempo per mangiare e certi non mangiavano affatto perché dovevano pulire le macchine. Quando tornavano a casa succedeva che i bambini più piccoli o più deboli si addormentavano per strada e i genitori dovevano andarli a cercare,altri riuscivano ad arrivare a casa anche se avevano le ossa rotte ma non potevano nemmeno mangiare per la stanchezza e si mettevano subito a dormire.Quando gli altri ragazzi viziativanno a scuola senza studiare,lui ricevendo calci e schiaffigià lavorava dentro la solfara.Buttato sotto terra poverettonon ebbe dal sole la carezzanon conobbe la parola amoree si è nutrito di pane e di amarezze.Rimase come un brigante condannatoper tanto tempo in quella vita amarafino a quando vecchio, stanco, già ammalatoi suoi padroni lo buttarono fuori.Oggi seduto sullo scalino,davanti ad una chiesa soffre ancora:stende la mano e chiede l'elemosina! Era faticosa la vita del contadino ma più dura e pericolosa la vita dello zolfataio. lì lunedì mattina andava a piedi in miniera (ed era più di un’ora di strada!) e ritornava il sabato pomeriggio; portava con sé il cibo della settimana: un paio di pani, qualche sarda salata, poche ulive e aglio e cipolla; appena fuori del paese si era levato le scarpe, se le era legate attorno al collo ed aveva fatto tutta la strada a piedi. In miniera gli incidenti di lavoro erano quotidiani e le disgrazie mortali frequentissime. Comprensibile quindi che il sabato pomeriggio lo zalfataio, appena rientrato in paese, cercasse i suoi amici e andasse a sbronzarsi in qualche bettola o in qualche casa privata. Mentre si recavano in miniera, a piccoli gruppi, gli zolfatai del terzo turno, che era quello notturno, spesso cantavano stornelli; ma erano pochi gli stornelli d’amore, erano quasi sempre stornelli di scherno e di rabbia.