Torno ad urlare

Ispirato dallo studio...


 L’etnocentrismo, ovvero il sentirsi parte di una determinata cultura, è un tratto comune a tutte le società. L’inculturazione, l’immergersi cioè nella propria cultura, l'apprenderne i valori per poi farla propria, è un meccanismo che dura tutta la vita. Attraverso l'inculturazione si acquisisce cioè l’idea di cosa sia l’uomo, o, ancor meglio, s’interiorizza la concezione di umanità tipica di quella cultura. Possiamo quindi tranquillamente affermare che accanto al processo particolaristico di culturalizzazione, si sviluppa quello universalistico di umanizzazione. Tutto ciò che appare diverso, che non rispetta quei canoni, viene automaticamente etichettato come “alterità”. La prima classificazione (noi/altri) viene compiuta già a partire dalle preferenze in fatto di cibo. Ad esempio: gli induisti non mangiano carne, i cinesi mangiano cani, i popoli islamici non mangiano maiale. Queste usanze, a noi occidentali, appaiono incomprensibili, dannose o disgustose, così come potrebbero apparire incomprensibili, dannose o disgustose le nostre ai loro occhi. L’etnocentrismo consiste quindi in un atteggiamento giudicante nei confronti dell’alterità, il che blocca la comprensione degli altri e scatena, nei loro confronti, diffidenza, conflittualità, scontro, ecc. Su questo gli antropologi hanno riflettuto a lungo. Se lo scopo del sapere antropologico è quello di pervenire ad una conoscenza della differenza, dell’alterità, allora è necessario procedere ad una sospensione del giudizio, applicando al contempo un certo relativismo culturale. Quest’ultimo concetto può essere così sintetizzato: ciò che è giusto per un gruppo, non necessariamente lo è per l’altro. Questo consente di riconoscere una pluralità di culture e di comprendere che la molteplicità di direzioni prese dallo sviluppo storico ha portato, in epoche e luoghi diversi, a forme di vita sociale e ad elaborazioni culturali sostanzialmente diverse tra loro. In poche parole, così facendo, si abbandona il proprio etnocentrismo.