INFINITO

L'ATTESA


Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall'immagine tesa sta sulla soglia della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi.Le prime osservazioni importanti si possono fare sul titolo seguendo il ragionamento proposto da Oreste Macrì. L’immagine porta con se il significato platonico dell’idea che giunge alla mente umana ormai indebolita, una copia scaduta insomma che mantiene a stento il suo legame con l’assoluto. L’immagine però in un senso più cristiano rappresenta la tensione (essa è infatti tesa) dell’uomo verso l’idea che ha perduto l’assoluto o Dio, dunque l’immagine ha in sé la possibilità della trascendenza.L’attesa è una delle chiavi di lettura fondamentali per la comprensione dei Canti anonimi (che sono nove “tanti quanti i mesi in cui l’uomo si prepara a nascere) ma essa trova in dall’immagine tesa un culmine di significazione.La poesia evoca la lacerazione interiore dell’attesa, che divide l’animo fra la speranza dell’arrivo e l’oggettività di un’assenza che genera un’inappagabile incertezza.Fondamentale è il “non aspetto nessuno” ripetuto per tre volte, espressione di un’ossessione interiore, quasi una paura. È il conflitto che prende forma fra l’anima che già presenta l’assoluto e la razionalità che non può che ripetersi stupefatta la vanità dell’attesa. Siamo a nove anni dalla conversione di Rebora ma sembrano già presenti gli elementi della futura religiosità del poeta. Apparentemente, ad un livello primo di significazione, possiamo parlare di un amate che aspetta trepidante la sua donna, eppure sembra impossibile non avvertire la presenza di un significato altro ben più profondo. Forse l’autore stesso ci da un segnale in questo senso, infatti quella triplice negazione “e non aspetto nessuno” assomiglia a un’altra triplice negazione, la più famosa della storia “Non lo conosco nemmeno quell'uomo” pronunciata da Pietro di fronte al popolo che lo accusava di conoscere Gesù Cristo. In quel caso, come nella poesia, è la negazione della razionalità incapace, per intrinseco limite umano, di rapportarsi all’amore supremo del figlio di Dio che muore perdonando i suoi carnefici; dunque quel triplice “e non aspetto nessuno” sembra l’ultima difesa di una ragione che sta per rimanere travolta dallo sbocciare interiore del polline di suono che schiude al bisbiglio divino. L’immagine, felicissima, del polline di suono è carica di significato, per darne un’interpretazione si più ricorrere alle parole usate dallo stesso Rebora  per testimoniare la propria fede ad Eugenio Montale  “La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto”. L’immagine ha però anche una valenza percettiva, uditiva, il polline di suono è quello stesso evocato dalla musicalità della poesia. Il componimento emana una musica armonica, che testimonia una ricerca di assoluto, manifestata dalla verticalità musicale dell’armonia. L’armonia e la verticalità però, non saranno mai in Rebora un approdo sicuro di altezza celeste, infatti la verticalità presuppone anche il rischio dell’abisso, è proprio questa la tensione dell’immagine del componimento, quella verticale sul filo dell’innalzamento e della caduta. L’immagine viene ripresa poi nella seconda parte del componimento in quel “Sbocciare non visto” in questo caso l’immagine non è ossimorica, “non visto” testimonia uno sbocciare tutto interiore, dallo sbocciare interiore si irradia il polline di suono che è ronzio divino. In questa seconda parte il tempo verbale passa dal presente al futuro, ma è un futuro incombente, sottolineato dall’insistita anafora di “verrà” che si carica di tutto il patos dell’attesa e diviene in fine presente “forse già viene”.L’attesa è divenuta ormai appagante in sé stessa, perché illuminata dalla fede (smorzata ancora da un “forse” che separa il poeta dalla definitiva conversione) il concetto è espresso con il climax del verbo venire: deve venire, verrà, forse già viene. La poesia si conclude poi con il “bisbiglio” che richiama ancora l’immagine del polline di suono e dunque al ronzio dalla voce di Dio che ormai avvertita dal poeta.