INFINITO

La Luna e i falò - Pavese


Il grande romanzo di Pavese ci porta negli stessi luoghi nei quali si era svolta la strenua resistenza del partigiano Johnny, le Langhe. I nomi delle città sono gli stessi, il periodo storico di poco posteriore; tutto però sembra mutato: la Resistenza, la lotta partigiana sono già miti sfioriti su cui pesa il duro giudizio dei reazionari e degli opportunisti politici. Nel mondo di Pavese non c’è spazio per i nuovi miti consegnati alla storia alla fine della guerra, essi anzi paiono sempre frutto di letture posteriori offerte dal vincitore. Partigiani e fascisti, come tutti i personaggi del romanzo, sembrano sottostare a leggi più antiche e ferree di ogni ideologia: le colline, la Luna, il fuoco, sono divinità dispotiche che chiedono e giustificano il sangue che scorre nelle Langhe. La guerra è finita, ma dagli acquitrini, dal fango, dalla terra, continuano ad affiorare corpi in decomposizione, la morte non ha lasciato quelle terre e non le lascerà mai, le persone continuano a morire come in risposta a necessari rituali ancestrali.Le terre vissute dal personaggio diventano immediatamente mitiche, cariche di segni e simbologie, sottraendosi alla storia per approdare ad un a dimensione eterna che ricorda quella delle peregrinazioni di Ulisse nel Mediterraneo.Il protagonista, Anguilla, apre al mito già con l'essere stato abbandonato alla nascita come spesso accade nelle leggende (Romolo e Remo, Edipo e Mosè per fare alcuni esempi noti), le sue origini lo rendono inoltre, almeno in parte, immune agli incanti che avvincono gli abitanti delle Langhe, permettendogli di allontanarsi, di girare per il mondo in cerca di fortuna e giungere addirittura nella lontana America. Viaggiare però lo riconduce al punto di partenza, con la consapevolezza che ogni viaggio ha in fondo  l’obbiettivo impossibile di allontanarsi da sé stessi.La guerra è finita, i tempi sono cambiati, riconosce pochi di quelli che aveva lasciato; molti sono morti. Il passato però torna, si ripropone nel presente immutato:Valino, il dispotico e disperato padre-padrone, brucia la sua proprietà offrendola in sacrificio alla dea terribile della miseria, così come ogni anno i falò servono a propiziare il raccolto. L'odore che riempie l’aria nella notte tragica è lo stesso che si sentiva ai tempi della guerra, quando i nazifascisti bruciavano le case dei partigiani, tutte le morti e i roghi si innestano nel circuito sacrificale e ritualistico. Addirittura Valino mima blasfemo il sacrificio di Abramo impedito solo dall’abilità del figlio Cinto, che riesce a sfuggirgli, mentre il cielo orfano di Dio resta a guardare. Infine la morte di Santa, di cui Nuto racconta la controversa storia ad Anguilla, è il sigillo di questo immutabile meccanismo rituale. La piccola Santa, la più bella ed innocente delle ragazze della Mora, tutte accomunate da un triste destino, era diventata la donna della casa del fascio, poi doppiogiochista, contesa e desiderata da entrambe le fazioni  e infine prescelta come capro espiatorio, vittima sacrificale, simbolo di tutte le atrocità della guerra e della espiazione richiesta dalle Langhe. Il suo corpo senza vita non perde il suo oscuro valore e la sua bellezza, è ancora capace di muovere gli oscuri demoni che albergano nell’animo dell’uomo e allora anch’esso dev’essere offerto, come il cibo nelle antiche libazioni, bruciarlo è il modo dell’offerta, la cenere rimane a rendere fertile la terra come i falò la sera di San Giovanni.