Creato da lovechimica il 30/10/2006
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Solo un ciao...

Post n°13 pubblicato il 13 Novembre 2006 da lovechimica
Foto di lovechimica

Una mattina di ottobre andai in biblioteca a studiare. Le materie erano ostiche, io ero già indietro con la preparazione e quindi dovevo approfittare di ogni momento disponibile, però quel giorno proprio non riuscivo a concentrarmi, ero persa in mille pensieri. Guardai l’orologio: segnava le dieci e un quarto. “Farei meglio ad andare”, pensai tra me e me. La lezione di siderurgia sarebbe cominciata di lì ad un quarto d’ora. Mi alzai, riposi le matite nell’astuccio e il libro nella borsa a tracolla. Uscendo dalla sala, mi soffermai ad osservare l’alone dorato che i raggi di sole infondevano nel corridoio attraverso le antiche finestre di legno. Chissà se anche gli altri avrebbero notato la bellezza della luce mattutina… “Ciao”. Mi voltai e vidi Michele. Si trovava all’uscita dalla biblioteca con un paio di amici ed era bellissimo, aveva tagliato i suoi lunghi riccioli scuri ed ora aveva i capelli più corti; il suo viso aveva acquistato carattere ma gli occhi, i suoi dolcissimi occhi marroni che mi avevano colpita fin dal primo incontro, erano rimasti gli stessi. Ricambiai il saluto ed imboccai le scale.

Lo incrociai spesso dopo quel giorno. Lo vedevo nel cortile della facoltà, mentre aspettavo mia cugina e lui correva a lezione con addosso una camicia di pile a scacchi, in stazione sotto il tabellone degli orari, per strada fermo al mio stesso semaforo, sopra un treno che partiva in un pomeriggio di pioggia…ed ogni volta ci salutavamo solo con un semplice “ciao”, un sorriso e tre secondi di occhi persi negli occhi…

 
 
 

L'ultimo bacio

Post n°12 pubblicato il 11 Novembre 2006 da lovechimica

Martedì 8 ottobre era il giorno del mio compleanno. Quella mattina, trovai Matteo fuori dall’aula, era venuto per farmi gli auguri e per chiedermi se avremmo pranzato insieme. A lezione, passai il tempo a guardare le foglie dorate degli alberi fuori dalla finestra e Jacopo, seduto qualche fila davanti alla mia. Osservavo la sua camicia azzurra, la forma della sua testa, i suoi capelli scuri e il suo profilo, i suoi occhiali, il modo in cui teneva la penna…cercavo di memorizzare tutto quanto, di fare una fotografia mentale da richiamare ogni volta che avessi voluto. Mezz’ora più tardi, mentre ci stavamo infilando le giacche per uscire, mi chiese se conoscevo una certa Alessia che frequentava i miei stessi corsi, ma a me, lì per lì, quel nome non diceva nulla; no, proprio non me la ricordavo. “E’ mia sorella”, disse. Uscimmo insieme dal dipartimento e rimanemmo a parlare per una ventina di minuti. Mi raccontò del viaggio che avrebbe voluto fare una volta laureato, gli mancavano cinque esami, e si stupì del fatto che io ne avessi superati tredici. “Ma allora sei bravissima!”. Io gli parlavo e sorridevo, lui guardava i miei riccioli biondi tenuti indietro da due mollettine per capelli, il sole gli illuminava gli occhi, che colore strano avevano…una via di mezzo tra il verde e il marrone, e quelle pagliuzze dorate…dovevo smetterla di sorridere e fissarlo, chissà se stavo facendo la figura della stupida, ma lui era così perfetto, sentii che mi stava rapendo, non avevo più difese… “Devo andare, mi aspettano”, così lo salutai e me ne andai. Mentre percorrevo il vialetto in direzione della mensa, mi ricordai improvvisamente di Alessia. Ma certo, ecco chi era! La ragazza con i capelli lunghissimi che avevo conosciuto due anni prima all’uscita dall’esame di Analisi Matematica, la stessa con la quale avevo poi frequentato il corso di Disegno Tecnico Industriale, era lei!

Arrivata in mensa, trovai Matteo ad aspettarmi, entrammo e ci mettemmo in coda per la cassa insieme agli altri studenti. Stavamo parlando, quando lui ad un tratto vide alcuni suoi amici e li invitò a mangiare con noi. Da quel momento, dialogò quasi esclusivamente con loro ed io mi sentii, come purtroppo spesso accadeva, messa da parte. Anche il giorno del mio compleanno. No, in questo modo proprio non si poteva continuare. Passai tutto il pranzo a rimuginare tra me e me, e quando alla fine ci alzammo tutti insieme dal tavolo gli dissi che gli dovevo parlare. Ci rifugiammo in un’aula del dipartimento di Ingegneria Meccanica per avere tranquillità e per stare al caldo. L’aula in questione era molto grande e disposta a “scalini”, poteva contenere più di duecento persone. Noi entrammo da una delle porte sul retro e ci sedemmo sui tavoli, con i piedi appoggiati alle sedie. Eravamo in una leggera penombra. Gli dissi che non aveva senso continuare la nostra relazione, ammesso che ci fosse stata veramente una storia tra di noi; lui non c’era mai e io volevo altro per me. Lui mi ascoltò senza quasi parlare, e quando ebbi finito mi chiese se ero sicura di quello che stavo facendo. “Sto passando un brutto periodo, con te ho sbagliato molte cose, me ne sono reso conto solo adesso. Non sono perfetto, ma ti prego di avere pazienza e di aspettare. Ci vorrà del tempo, quanto non lo so, però quando tornerò da te avrai tutto quello che vuoi, un ragazzo presente e che ti vuole bene.” “No, io non ci sarò più, ho aspettato troppo.” “Io tornerò lo stesso, te lo prometto.” “Matteo, è finita.” Lui mi guardò negli occhi e mi disse: “Oggi ci siamo aperti e confidati, siamo qui, seduti uno di fianco all’altra in un’aula vuota, e penso che forse sarà l’ultima volta che ci parliamo in questo modo. Ci allontaneremo sempre di più e arriveremo a salutarci a malapena…non è triste vedere come finisce il nostro rapporto? Vieni con me.” Mi prese per mano e uscimmo dall’aula. “Dammi un ultimo bacio” E così, nascosti dietro l’angolo di un corridoio, ci unimmo per l’ultima volta in un bacio pieno della passione di chi sa che quel momento non potrà più tornare.

 
 
 

Il ragazzo ideale

Post n°11 pubblicato il 09 Novembre 2006 da lovechimica
Foto di lovechimica

La mattina dopo, quando entrai in aula, Jacopo non era ancora arrivato. Il posto di fianco al mio venne occupato da un altro ragazzo, un certo Gianluca, con il quale feci conoscenza prima dell’arrivo del professore. Jacopo arrivò all’ultimo momento e si sedette nella fila dietro; quando mi girai per salutarlo, vidi che mi stava guardando e sorridendo.

Al termine della lezione, mentre gli altri studenti stavano uscendo dall’aula, lo vidi in piedi davanti alla fila di attaccapanni appesa ad una parete, mi stava aspettando. E…mi faceva piacere, davvero.

Dovete sapere che io, come tante altre ragazze della mia età, aspettavo il ragazzo perfetto per me. Nel tempo avevo affinato questo ideale, l’avevo disegnato nei minimi particolari, dentro e fuori. Come uno scultore che si appresta a trasformare una massa informe di pietra in un’opera, così avevo fatto io, più o meno inconsciamente, dentro di me. Ogni volta che avevo messo la parola “fine” ad una storia, ogni problema che avevo avuto con l’altro sesso, ogni momento bello passato insieme, ogni qualità che mi aveva fatto sognare e ogni difetto che mi aveva fatto soffrire, ogni cosa aveva lasciato una scalpellata, un segno. A poco a poco, il blocco di marmo aveva cominciato a delinearsi, ad assumere una forma sempre più precisa e, scalpellata dopo scalpellata, l’immagine dentro di me era diventata talmente definita da dare l’impressione che avrebbe potuto prendere vita da un momento all’altro.

Quando vidi Jacopo per la prima volta, quando gli parlai, mi sentii come se avessi finalmente trovato qualcosa che avevo cercato per tanto tempo. Lui era lì, proprio davanti a me, che mi parlava di tante cose, e io ascoltavo quella sua voce fresca, da ragazzino, anche se aveva 25 anni (quattro più di me); era bello parlare con lui, mi riusciva naturale, ed era lo stesso anche per lui; ci eravamo persi nei nostri discorsi, fermi in piedi tra le due file di porte a vetri che si trovavano all’ingresso del dipartimento, gli altri studenti ci passavano di fianco ma non li vedevamo…

 
 
 

Matteo

Post n°10 pubblicato il 07 Novembre 2006 da lovechimica

Arrivò con altri sei nostri compagni di corso che conoscevo poco, e durante il pranzo non avemmo modo di parlarci molto. A dirla tutta, neanche dopo: sembrava quasi che mi ignorasse, lo ascoltavo chiacchierare con gli altri e mi sentivo di troppo, quasi un peso, tanto che quando arrivarono le 14.30, ora in cui le lezioni ricominciavano, mi sentii sollevata. Le successive quattro ore, però, furono di una pesantezza indescrivibile: il professore parlò ininterrottamente di scambiatori di calore e più di una volta io rischiai di addormentarmi. Alla fine, giunsero le 18 e riconquistai la libertà. Ero rimasta d’accordo con Matteo che ci saremmo trovati nel cortile della facoltà per stare un po’ insieme, e invece lui non c’era, non c’era…mi aveva mandato un messaggio al cellulare in cui mi scriveva che era stanco, sarei dovuta andare io a casa sua. Arrivata, però, trovai l’appartamento sottosopra, lui e i suoi compagni di appartamento stavano facendo le grandi pulizie; lui si sedette in una poltrona senza il cuscino, io in un divano capovolto e parlammo un po’. Dopo cinque minuti arrivò il suo nuovo coinquilino e tutta la sua attenzione fu rivolta a lui. Io dovevo andare in stazione, non potevo stare ancora lì, così li salutai e dissi che dovevo andare. Lui accompagnò per le scale fino al portone. “Cosa c’è? Ti vedo strana” “No, è che…niente, lascia stare. Sono solo un po’ stanca per la lunga giornata. Ci vediamo domani” “Ma non puoi rimanere ancora un po’?” “No, Matteo, altrimenti perdo il treno. Speravo che saresti venuto a prendermi a lezione e invece non c’eri, sono venuta fino a casa tua e hai passato il poco tempo a parlare con il tuo coinquilino…lascia perdere, dai.” “Ma…va bene. A domani”. Ci scambiammo un bacio e partii a piedi.

Per la prima volta in quella giornata, mi ritrovai sola con me stessa. E i pensieri che avevo ricacciato per tutto il pomeriggio vennero prepotentemente a galla. Che delusione era stata Matteo. Uscivamo insieme da un mese, ma lui non era mai stato veramente presente, non lo avevo mai sentito vicino a me. La sera prima gli avevo fatto un discorso in proposito, non era possibile continuare una storia in quel modo. Lui mi aveva chiesto di essere paziente e aspettare un po’, perché con l’inizio dei corsi le cose sarebbero cambiate e ci saremmo visti più spesso, però quel giorno le cose non erano andate come mi aveva promesso. Mentre facevo questi pensieri, sentivo crescere in me una sensazione di malinconia. No, proprio non si poteva continuare così, non era il tipo di storia che sognavo per me.

Quella sera, seduta sul letto con la radio in sottofondo, piansi. Buttai fuori la tristezza del pomeriggio. Piangevo per la delusione, non perché soffrissi, quello no. L’entusiasmo che mi aveva spinta ad accettare i suoi inviti ad uscire si era spento quasi subito e aveva lasciato spazio all’attesa. A poco a poco mi sentii più tranquilla e rimasi seduta in silenzio. Chiudendo gli occhi, vidi Jacopo.

 
 
 

Primo giorno di corsi all'università

Post n°9 pubblicato il 06 Novembre 2006 da lovechimica

Il primo ottobre 2002 ricominciarono i corsi all'università. Quel giorno avrei dovuto seguire otto ore di lezione, suddivise tra mattina e pomeriggio. Arrivai in forte anticipo davanti all’aula, che trovai chiusa, e salutai i miei vecchi compagni. Era bello ritrovarsi tutti lì, dopo un’estate. Mentre aspettavamo che venisse qualcuno ad aprire, ci raccontammo le nostre esperienze e ciò che avevamo fatto in quei mesi. Io aspettavo Matteo, il ragazzo con cui uscivo da un mese, sapendo già che sarebbe arrivato tardi, come sempre. Il numero degli studenti aumentava nel corridoio, finché venne una bidella. Non ci fece entrare subito in aula, in quanto prima doveva lavare il pavimento, ma appena fu asciutto ci precipitammo a prendere i posti. Dato l’alto numero di persone, non potei tenerne uno per Matteo, e così, quando lui arrivò, si sedette in un altro banco. Il professore di macchine era sulla sessantina, e per spiegare proiettava sulla lavagna luminosa le pagine del libro. Le veneziane erano tirate, cosicché la luce era bassa. Io avevo sonno, lo sapevo che non avrei dovuto fare tardi la sera prima con lui. Al termine della lezione ci salutammo e ci mettemmo d’accordo per pranzare insieme due ore più tardi. Poi me ne andai, la lezione delle dieci e mezza era in un altro dipartimento, quello di ingegneria meccanica. Avevo fretta di arrivare in aula, e il motivo è presto spiegato. Il corso era quello di Siderurgia, ed era presente nel piano di studi solo per l’indirizzo Materiali del mio corso di laurea. Dato che ero l’unica di quell’indirizzo, pensavo che non ci sarebbe stato nessun altro a seguire il corso con me. Invece, quando entrai nell’aula M5, vidi che c’era una ventina di ragazzi all’interno. Credendo di aver sbagliato aula, uscii per controllare il numero sulla porta, e con mio immenso stupore mi resi conto che ero nel posto giusto. Ma chi erano gli altri ragazzi?

Trovai un posto libero in prima fila, e mi sedetti lì. Dato che non conoscevo nessuno, cominciai a riguardare gli appunti presi nella lezione precedente. Ad un certo punto sentii una voce alla mia destra: “Scusa, è libero?”. Era un ragazzo. “Si, certo.” E ritornai ai miei fogli. Poi mi girai verso di lui. “Scusa, ma tu che ingegneria fai?” “Meccanica” “Perché pensavo di essere l’unica a seguire questo corso, e invece mi accorgo che ci sono anche altre persone” “Sono ingegneri meccanici e materialisti, per noi è un corso del quinto anno. Tu sei chimica?” “Si”. Per quello mi ero sbagliata! Avevo guardato gli esami del quarto anno, non quelli del quinto. Così, ero la più piccola. “Io sono Jacopo”. Allungò una mano verso la mia, per stringermela. “Micol, piacere”. Poi entrò il professore, un omino piccolo con le orecchie un po’ a sventola, e introdusse il corso.

“Buongiorno a tutti. Non mi presenterò:chi ha seguito in precedenza altri corsi con me mi conosce già,e chi invece mi vede oggi per la prima volta, beh, mi conoscerà”. Io guardavo la sua figura contro la lavagna scura, lavata da poco, poi spostai lo sguardo verso la finestra; da lì si vedevano gli alberi, con le loro foglie tinte di colori autunnali. Era il primo giorno di corso e stavo bene, pensavo. Sentivo la presenza di Jacopo di fianco a me, mentre prendevo appunti, e in poco tempo mi accorsi di essere attratta da lui. Era una strana sensazione, come se lui avesse un qualcosa in più rispetto agli altri, un qualcosa che mi piaceva e che avrei voluto trovare nel ragazzo giusto per me.

Nel frattempo avevo perso l’ultima parola del professore. “Scusa, come ha detto che si chiamano i lingottini di acciaio?” “billette”.

Al termine della lezione, mentre gli altri ragazzi si preparavano ad uscire dall’aula, ci salutammo e cominciai a riporre le penne nell’astuccio, il quaderno in ordine nello zainetto, il tutto con una precisione quasi maniacale. L’ordine è sempre stata una mia prerogativa, fin da quando ero piccola, e tutt’ora sono tra gli ultimi a lasciare l’aula. Quando ebbi  finito, alzai gli occhi e mi accorsi che lui era in piedi vicino alla porta, mi stava aspettando. Il fatto mi sorprese piacevolmente, in quanto, di solito, quando si scambiano due parole con il vicino di posto in aula la cosa finisce lì, nel senso che le volte successive che ci si incontra ci si saluta,magari si approfondisce la conoscenza, ma non subito, il primo giorno. Lui invece mi aveva aspettata, non sapevo se fosse per gentilezza o altro, e mentre scendevamo le scale mi stava vicino e mi parlò del corso che avevamo appena iniziato a seguire. Il programma piaceva ad entrambi, eravamo molto interessati nei materiali in genere, soprattutto nell’acciaio, e la prima lezione ci aveva lasciati soddisfatti. Parlavamo di cricche e di rotture a fatica come se fosse l’argomento più esaltante del mondo, e forse in quel momento per noi, aspiranti ingegneri, lo era. Giunti alle porte del piano terra ci salutammo, e io mi diressi verso la mensa Piovego dove mi aspettava Matteo, o, per meglio dire, dove io lo aspettai un quarto d’ora.

 
 
 
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