L'ingegneressa

La prima volta che gli ho parlato


La prima volta che gli parlai fu verso la fine di maggio, in un pomeriggio in cui stavo cercando nuovi posti dove studiare. Nell’aula studio dove andavo di solito ormai conoscevo tutti, ed era diventato impossibile concentrarsi senza che venisse qualcuno ogni cinque minuti a chiedermi di uscire per una pausa, per questo avevo deciso di andare nella biblioteca centrale di facoltà. Ricordo che faceva molto caldo, e quando, dopo essere passata per le scalette che collegavano il cortile interno al dipartimento di costruzioni e trasporti, giunsi nell’atrio, provai una sensazione di sollievo nel sentire il fresco che emanavano il pavimento e la scalinata di marmo. Mi stavo accingendo a salirla, quando lo vidi entrare dal portone principale. Mi guardò, lo guardai, e continuai a camminare. Lui era pochi passi dietro di me, lo sentivo salire le scale. Quando arrivai alla porta in ferro battuto e vetro che dà ai piani superiori, dopo averla oltrepassata la tenni un po’ aperta per lui. Un “grazie” detto in un soffio e già stavamo arginando le macchinette per il caffè e gli snack, percorrendo l’ultima rampa. Una volta arrivata su, non sapevo da quale parte dovessi andare. Era la prima volta che mi recavo in biblioteca, e così ero un po’ spaesata. C’erano poi degli armadietti metallici, e non sapevo se fosse obbligatorio lasciare lì la borsa o se la si potesse portare dentro. Fu per questo motivo, e anche per curiosità, che mi rivolsi a lui. “Scusa, devo lasciare giù lo zaino o posso portarlo con me?”“Dipende, se vuoi andare in sala Sarpi” e indicò una porta in legno dietro di lui, dalla stessa parte degli armadietti “puoi portare dentro tutto. Se invece vai in biblioteca devi mettere le tue cose in un armadietto. Per aprirlo serve una moneta da 500 lire o da due euro, è lo stesso”. Mentre parlava, lo ascoltavo e notai come si stesse dilungando nel rispondermi, mi stava fornendo anche informazioni che non avevo chiesto. A quel punto, il bibliotecario, che fino a quel momento era stato seduto in un tavolino posto a lato dell’ingresso alle scale, si rivolse a lui e gli chiese: “Scusa, tu ti chiami Michele?” “Si”, rispose con un sorriso. Sapevo il suo nome.