L'ingegneressa

Malinconia


Intanto i miei studi proseguivano, stavo terminando di frequentare il terzo anno e mi stavo preparando per gli esami.Quell’anno non ne avevo fatti molti, e la colpa era soltanto mia; inseguendo il miraggio di voti più alti, mi ero ritrovata a rifiutare quelli che mi erano stati proposti e a ritornare dopo alcune settimane, se non mesi, per sostenerli di nuovo. Però l’anno stava volgendo al termine, e non volevo partire per le vacanze con poche firme nel libretto. Fu per questo, e anche perché ero stanca di studiare sempre le stesse cose, che in una torrida mattina di giugno accettai un 25 in scienza dei materiali. Meritavo di più, ne ero consapevole, ma proprio non ne potevo più di vedere acciai e ghise, nomenclature e materie plastiche. Il professore, poi, era stato poco accomodante, per tutto il tempo che avevo trascorso nel suo ufficio non aveva fatto altro che sbuffare e lamentarsi per il caldo, dicendomi che era venuto a Padova soltanto per il mio esame, e che per lui, ormai sessantenne, era stato un sacrificio. Così, quando uscii, non mi sentivo affatto soddisfatta, anzi. Andai al “pollaio”, l’aula studio di fisica, a portare gli appunti del corso a Francesco, un mio compagno. Parlammo un po’ del più e del meno, di esami e professori, poi ci salutammo. Quel senso di malinconia non mi aveva ancora abbandonata, e prima di andare in stazione a prendere il treno passai per la facoltà. Non so dire se fosse per lo stato in cui mi trovavo, ma quasi senza accorgermene mi stavo dirigendo verso la biblioteca. Passai il primo portico, non c’era nessuno. Le lezioni erano finite, per cui non si vedevano molti studenti riempire il chiostro e il cortile. Una volta arrivata in biblioteca, lo cercai. Camminavo nella sala, lentamente, guardando se lo vedevo attraverso le file di scaffali, ma niente. Chissà dov’era. Tornai a casa e non ci pensai più.