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Partite iva

Post n°69 pubblicato il 12 Aprile 2013 da ocsurte

 

 

 

La strada che dal villaggio dei tecnici conduce al sito nucleare è una lamina lunga due chilometri e mezzo di asfalto sintetico. Vi si accede da una sbarra, posta alla fine del corso di quel piccolo e ordinato agglomerato di abitazioni tutte uguali, previa esibizione delle credenziali ad un terminale PLC che registra gli accessi. Oltre la sbarra, la strada corre dritta senza la minima inflessione che ogni altra via di comunicazione ha, per adattarsi all'orografia del terreno. Niente, senza la pur minima curva o salita o dosso, la strada attraversa quella unica soluzione di grano corto e robusto che ondeggia al vento e porta dritta al cancello del sito nucleare, dove il PLC ti aspetta e ti farà entrare, se il tuo tempo di percorrenza in auto risulterà consono con i dati impostati nelle sue memorie. Roberto ha fatto colazione con Marcella e il piccolo Luca, prima che quest'ultimo fosse preso in consegna dallo scuolabus che carica i bambini in piazza.  Una tavola con poche parole di contorno, la loro. Le uniche che Roberto e Marcella si sforzino di pronunciare sono tese al fine che il loro bambino non avverta il disagio della esistenza senza gioia che si dipana in quella casa.  Poi, un tenero bacio sulla soglia, due corpi che si sfiorano e l'amarezza di non trovare più il brivido del desiderio che li assaliva senza preavviso ad ogni occasionale sfiorarsi, quando vivevano tempi sereni. Ora Marcello è in strada, viaggia a 70 km/h e tiene i finestrini chiusi e l'aria condizionata accesa. Non incontrerà nessuno, durante il tragitto fino al sito nucleare, il PLC che gestisce gli accessi gli fornisce tempi certi di percorrenza. Varcato il cancello, si introduce sotto il tunnel per il lavaggio dell'auto. Troppo cesio 137 nei campi che circondano il sito, le vetture vengono lavate ad ogni accesso e poi a fine turno alla stazione distaccata attraverso la quale fanno ritorno  al villaggio. Lasciata l'auto nel posto assegnato, Marcello si dirige verso gli spogliatoi caldi e varca il portale di accesso. Avvolto dalla nube di argon metanato emanata dal portale, attende il via libera del PLC. Ci vorranno diversi minuti, prima che possa indossare gli indumenti da lavoro ed entrare in zona controllata. E' solo, in quella stanzetta asettica completamente dipinta da resine epossidiche dai colori tenui, la gestione degli accessi fa si che i tecnici di turno entrino uno per volta e si riuniscano solo da ultimo, a ridosso della parete di piombo oltre la quale ci sono le barre del combustibile. Ognuno ha con se il dosimetro personale, lo hanno ritirato negli spogliatoi, previa digitazione del codice personale. Il micro chip che vi è contenuto comunica i dati al PLC che registra gli accessi dei tecnici e i tempi di permanenza in zona controllata. Marcello stringe in mano il suo dosimetro, quel pezzo di plastica di pochi centimetri termosaldato in una busta di polietilene a lui non può dire niente. E' uno strumento a lettura indiretta, che trasmette i suoi dati direttamente al PLC. Comunque lui lo sa, che non gli sarà consentito di lavorare ancora per molto esposto ai cinquanta microsieverth. Quando questo accadrà, i fantasmi che turbano la serenità sua e della sua compagna, acquisiranno una fisionomia concreta. Sarà destinato al lavoro di ufficio, perderà le indennità derivanti dalla mansione per un periodo di almeno nove mesi. Un taglio di stipendio insopportabile, dati i tempi che corrono e gli impegni presi, con il mutuo da pagare e un figlio piccolo da crescere. Roberto sa che non ce la potranno fare, bene che vada dovrà separarsi da Marcella, che tornerà dai genitori nella casa tra i vigneti della Linguadoca, portandosi appresso il piccolo Luca. Questo lui non può accettarlo, separarsi dalla sua famiglia lo vive come la certificazione di un fallimento, il non essere stato capace di tenersi i suoi affetti. La fine di tutto quello che conta, per lui. Sente che se si separerà da loro, anche per solo un periodo, non li riavrà mai più.  Squilla l'interfono appeso alla parete, i tecnici in sala vasche hanno estratto una barra di combustibile dalla piscina, il pesante portone di piombo si apre. Compaiono quattro uomini fasciati nelle tute di tyvek giallo, le maschere sul viso. Sono i tecnici con la partita iva, quelli che lavorano alla centrale su chiamata e pensano in proprio alla dosimetria avvalendosi di professionisti privati. Il colonnello Ferrettì dell'Armee Francaise assiste alla scena da un monitor della sala controllo.(continua)

 
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Tagliatori di teste

Post n°67 pubblicato il 22 Marzo 2013 da ocsurte

                                                                                                                                                                        

Il Colonnello Ferrettì dell'Armee Francaise è persona distinta ed affabile. Suscita, in chi ha occasione di frequentarlo, sia per questioni di lavoro o anche semplicemente nella normale vita quotidiana e per un qualsiasi motivo, sensazioni di umana simpatia.  I suoi modi squisitamente cordiali e confidenziali forse in qualcuno possono suscitare il sospetto di una indole manierata, artefatta, ma solo chi ha avuto la sfortuna di essere oggetto del suo interessamento professionale, alla fine e quando ormai è troppo tardi, si accorge di quale sia il ruolo che egli ricopre e con quanta padronanza di mezzi e titoli lo svolga, all'interno del système de défense.  Ferrettì è il più efficace, spietato, subdolo tètes de coupe abbia mai operato nella administration publique. All'interno del sito nucleare di Marcoule, Ferrettì ricopre un ruolo che in molti casi travalica quello dei direttori e degli amministratori delegati, lui è l'uomo di fiducia del gouvernement, messo li per sovraintendere alle questioni strategiche. Marcoule pullula di reattori nucleari ad uso militare, tutti obsoleti e fatiscenti. Sono quelli che hanno consentito la progettazione e lo sviluppo dell'atomica Francese, ora sono mostri pericolosi in grado di nuocere ad ogni cambio di vento. I tecnici del distretto di Marcoule, per lo più dipendenti civili di Acea, si occupano tra mille difficoltà di neutralizzarli, Ferrettì si occupa dei tecnici. I lavoratori del distretto nucleare di Marcoule, hanno figure professionali complesse. Il fatto che essi siano esposti alle radiazioni ionizzanti fa si che, a termini di legge, debbano essere sotto costante monitoraggio radioprotezionistico e quando questi abbiano raggiunto la dose massima ammissibile per questo tipo di lavoratori, non saranno più idonei al lavoro in zona controllata. Il problema che Ferrettì  si incarica di risolvere è che non ci sia un numero troppo elevato di lavoratori impiegabili solo per il lavoro di ufficio al fronte dei tecnici operativi. Da quando la Francia ha aderito entusiasticamente alla privatizzazione dei contratti di lavoro del pubblico impiego, la soluzione ideale per i dirigenti dei siti nucleari è stata la possibilità di avere un ricambio continuo dei tecnici, da impiegare per tre quattro mesi alle dismissioni e poi indurli a licenziarsi. Il meglio di se Ferrettì lo offre quando interviene per via gerarchica presso la commissione medica. Costringe l'ufficiale medico ad alterare i risultati delle analisi del sangue dei famigliari del tecnico che si vuole allontanare, la moglie o un figlio piccolo, in genere. Questi, messo di fronte all'orribile sospetto che vivere nei pressi del sito nucleare nuocia ai suoi cari, abbandona il lavoro e l'alloggio di servizio. Ferrettì, magnanimamente, gli offre una buona uscita e  la promessa di riassunzione in tempi migliori. Questo è il colonnello Ferrettì del distretto di Marcoule, la persona più garbata e gentile del système de défense francaise. Qualcuno dei colleghi o dei dipendenti tra quelli che ogni giorno lo incontrano in ufficio, nei corridoi o sulle scale della sala mensa, giura che dal suo corpo emani un sottile, quasi impercettibile odore di assenzio. Nessuno si spiega il motivo di questa percezione, come dipendesse dall'uso di un particolare balsamo per la pelle o una lozione per la rasatura. E' un segreto che Ferrettì custodisce con la sua bottiglia di Pernod. (continua)

 

 

 

 
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La centrale

Post n°65 pubblicato il 06 Marzo 2013 da ocsurte

 

 

 

Affacciandosi al distretto nucleare di Marcoule, l'orografia tipica del territorio di Linguadoca cambia bruscamente. Non più filari di viti ad attraversare le colline, nessun vignaiolo intento al lavoro nei campi. Tre villaggi fatti di palazzine a tre piani, tutte uguali, tagliate tra loro da strade che si incrociano ad angolo retto, una piazza dove si affacciano alcuni negozi di generi alimentari e un supermarket. I villaggi si succedono a pochi chilometri uno dall'altro sulla circonvallazione che delimita il distretto, ognuno con il suo ufficio postale, la banca e un poliambulatorio. Molte delle case sono vuote da anni, anche se non presentano segni di usura ed abbandono. Questi villaggi hanno svolto un ruolo quando il distretto era in espansione, in quel trentennio in cui le centrali nucleari venivano costruite. Adesso vi abitano i gli addetti alla sorveglianza, tecnici e operai che devono curare la manutenzione di impianti ormai spenti e le squadre dei liquidatori, ditte private che si sono aggiudicati gli appalti miliardari per la dismissione dei siti obsoleti. Villaggi sonnolenti dove le madri accompagnano i figli agli scuolabus al mattino, dato che nessuno ha giustamente mai pensato di rivendicare, per quei luoghi, la costruzione di asili nido o scuole. Difficile, che tra queste madri ce ne sia qualcuna che ha un impiego alla centrale o nelle vicinanze. Sono qui per i loro figli e i loro mariti, spesso per periodi limitati di tempo. Nessuno, tra i dipendenti di Areva si trattiene per tutto l'anno presso queste centrali. Dopo tre, quattro mesi vengono trasferiti al nord, dove le centrali sono più moderne e possono contare su ancora diversi anni di attività di esercizio. Le donne si sentono precarie, isolate. Non è posto che ti possa entrare nel cuore, il distretto. Le donne si ritrovano nei negozi o al supermarket, una volta lasciati i figli. Si incontreranno per una tazza di tè, parleranno dei turni del marito, poi si perderanno di vista per sei mesi, forse per sempre.   Tra i villaggi e le centrali poste all'interno del raccordo anulare che delimita il distretto, i campi sono coltivati a frumento. Una sola grande azienda agricola detiene l'appalto ventennale con il Governo centrale, che è il proprietario dei terreni. Ovunque viene seminata una particolare specie di grano geneticamente modificato che presenta spighe basse e robuste, molto simili al grano duro del meridione d'Italia. Nella prima quindicina di luglio, quando le messi sono ben secche, i villaggi vengono evacuati per alcuni giorni e i campi dati alle fiamme. Si tratta della procedura individuata da Areva e che si ripete ogni anno, per abbassare i valori di cesio 137 presenti nel terreno attorno alle centrali. Al primo piano della palazzina 126, Roberto e Marcella attendono che il piccolo Luca si addormenti nella sua cameretta, poi si abbracciano teneramente sotto le lenzuola. Quella non è la loro casa, sono li per il lavoro di lui alla centrale. Il villaggio di origine è  tra i vigneti della Linguadoca,  dove hanno acceso un mutuo alla banca per comprarsi la casa. Vi si stabiliranno presto e anche Marcella potrà trovarsi un lavoro. Luca finalmente potrà frequentare le scuole vicino a casa.  Adesso però Luca  è uno della  centrale, lavora alla rimozione delle barre di combustibile dalla piscina del reattore. Un lavoro ben retribuito che gli ha consentito di realizzare i suoi progetti, almeno fino a quel momento. Fino al momento in cui non sarà accertato che non è più idoneo a svolgere quel lavoro.  Alla fine di ogni mese alla centrale vengono analizzati i dosimetri personali. Lui sa già che  dalla relazione dell'esperto qualificato risulterà che ha raggiunto la quota di radiazioni ammesse dalla normativa vigente nell'arco di un intero anno. Il primo ed unico provvedimento che la commissione medica prenderà sarà quello di destinarlo temporaneamente al lavoro di ufficio. Perderà alcune indennità sulla busta paga e la possibilità di fare straordinari. Nel migliore dei casi non riuscirà a guadagnare più di 1500 euro al mese. La rata del mutuo e la retta per la scuola di Luca saranno problemi difficili da affrontare. Il loro amore, la serena esistenza che con entusiasmo avevano intrapreso insieme, ora è turbata da nubi che si addensano all'orizzonte. Le volute di vapore acqueo che si alzano dalle torri delle centrali e che al mattino presto portano una irreale, sottile pioggia sul villaggio dei tecnici, adesso fanno anche più paura.  Roberto e Marcella si abbracciano sotto le lenzuola. E' da tanto che non fanno più l'amore. (continua)

 

 

 
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Radioactivitè

Post n°61 pubblicato il 10 Febbraio 2013 da ocsurte

 

I vigneti che si estendono dai dintorni di Nîmes e del Pont du Gard fino a oltre Narbonne e Carcassonne, presentano, in questo fine aprile 2019, una inconsueta, florida vegetazione. Questo improvviso, quanto inusitato anticipo vegetativo, determinato da trenta giorni ormai di un caldo sole interrotto solo da poche, brevi piogge serali , fa si che i vignaioli siano tutti impegnati in una insolita e prematura "vendemmia verde". A mezze maniche, con le camiciole sudate fuori dai calzoni, percorrono i filari di Fitou e Cabardes dalle pendici dei colli fino ai rii alberati che li delimitano in basso e poi risalgono, domando con le forbici il rigoglio naturale delle viti.  La Linguadoca è la regione dove si è storicamente iniziata la coltivazione della vite, tanto che ne fu ai vertici della produzione mondiale fino agli inizi degli anni 80, quando il fenomeno della sovrapproduzione ne determinò il declino caratterizzato da un forte abbassamento della qualità dei vini e un susseguente crollo del prezzo di vendita, mettendo sul lastrico migliaia di agricoltori. Questa è storia passata, adesso sapienti vignaioli imbrigliano la naturale esuberanza delle viti e più che stimolare una produzione abbondante, fanno una cernita dei grappoli ancora verdi e ottengono vini di gran pregio.  Sempre in Linguadoca, ma all'interno del distretto di Marcoule, agli uomini con le camiciole a quadri fuori dei calzoni intenti alla cura dei vigneti, si succedono altri uomini che subiscono il disagio di questo caldo anticipato, fasciati nelle loro tute di tyvek. Sono i dipendenti di Areva, impegnati nella dismissione delle centrali nucleari e dei reattori di riprocessamento del combustibile irraggiato, costruiti per usi militari negli anni 50, allo scopo di ottenere la bomba atomica Francese. Sono anni, ormai, che il governo Francese, irritato dal comportamento dei governi di sinistra Italiani, ha deciso di porre un freno alla sovrapproduzione di energia elettrica. Cosi come negli anni 80 la Linguadoca si trovò ad avere un eccesso di produzione di vino che ne fece crollare qualità e prezzo, dal 2013 in poi la Francia è costretta a cedere a prezzi irrisori l'energia elettrica all'Italia che la acquista solo di notte, quando c'è sovrapproduzione perché i reattori non si possono spegnere. Deleteria, per la grandeur Francese, l'intuizione dei cugini Italiani che la miglior forma di energia è il risparmio energetico e che si può ottenere benessere e sviluppo badando a fare tesoro delle risorse disponibili, senza rincorrere a tutti i costi una crescita che porta a spreco delle risorse e distruzione dell'ambiente. Adesso, i cugini transalpini l'energia elettrica te la tirano dietro, costretti come sono dalle loro cinquanta e più centrali che non riescono a fermare e in Italia si vive, non si fanno progetti faraonici o voli pindarici ma si vive, badando che ci sia lavoro per tutti e che nessuno resti indietro.  Le ricchezze oscene, in Italia, sono state superate con una tassazione oculata e progressiva, l'evasione fiscale è solo un ricordo. Ognuno da il suo contributo al bene pubblico secondo le sue possibilità.  Scuola , sanità  e giustizia sono portate ad esempio. (continua).

 

 

 
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La pompa di benzina

Post n°59 pubblicato il 04 Febbraio 2013 da ocsurte

 

Questa volta neppure io ce la posso fare.  Ma si,  signore e signori,  l'uomo invincibile piega la testa, esce di scena, si arrende.  Abituato ad affrontare la vita con il coltello tra i denti,  adesso mi sono messo paura.  Si,  perché quando lotti ogni giorno per galleggiare e ti accorgi che terra ferma all'orizzonte non ne vedi,  ad un certo punto ti stanchi,  vorresti riposare.  Niente,  nessun atollo su cui poggiare i piedi.  Solo dura lotta,  ogni giorno di più.  Ci sarà mai una fine, a questa folle corsa a rincorrere le situazioni,   a questo obbligo di parare colpo su colpo i fendenti che la vita ti riserva?  Eppure sono diventato esperto, nella lotta per la sopravvivenza.  Nel mio campo, sono un'autorità, un'eccellenza. Mi è venuto il callo sul cuore, a forza di prendere colpi e resistere.  Ma ora mi sento vecchio, avrei voglia di lasciarmi andare. Soccombere ad uno di quei flagelli che si portano via tante delle persone migliori. Qualcosa tipo alcool, droga, suicidio. Ci sono tanti esempi illustri, a cui non oso neppure accostarmi, di vittime del male di vivere.  No, non è cosi che me ne andrò,  sarebbe troppo facile ed anche da presuntuosi.  Non sono una povera anima in balia della vita, mi sono sempre fatto valere e la vita l'ho vissuta ed apprezzata. Diciamo che ho sempre avuto un punto di vista particolare, amando quello che altri disdegnavano, ricercando quello da cui altri fuggivano.  Diciamo che ad un certo punto te ne fai un vanto, di questo tuo esser misantropo. Perdi il senso della misura e finisce che l'isolamento te lo vai a cercare. Non ho saputo dar niente, alle donne che ho avuto. Perlomeno non ho saputo dar loro quello che si aspettavano. Si, perché questo mio ricercare il rapporto perfetto, la condivisione assoluta di momenti essenziali, puri, forti, forse le ha spaventate. Si sono rifugiate nella loro mentalità da ragionieri, amori tiepidi, un brodino di pollo da sorbire alla sera. Io no. Non ho apprezzato altro che i sapori forti, i contrasti stridenti. Ho amato l'odore della pelle e il sudore delle mani,  la rabbia cieca della femmina offesa,  leccato e adorato lacrime di gioia e di dolore.  E' ora di ammettere che nessuno sfugge al suo destino, se ho scelto di vivere in un certo modo, vuol dire che cosi doveva essere e non potevo fare altrimenti. Per me è stato un continuo rasentare i bordi,  mezzo dentro e mezzo fuori.  Una vita trascorsa sul filo, subendo il magnetismo dei personaggi più discutibili,  quelli che camminano sempre al limite di  ogni categoria umana,  senza lo slancio di abbracciarli completamente ma senza mai allontanarli dalla mia vita.  Porto il nome del più "fesso" degli Apostoli, quello che si è fatto uccidere per primo,  lapidato sulla pubblica piazza.  Forse anche questo è un segno, che non potevo avere una vita da furbo,  da opportunista.  Mi sono sempre curato di altro, che non avere una posizione e una vita tranquilla.  Non rinnego niente, comunque.  Parlando con quelli la fuori mi sono reso conto di quanto loro sfuggano gioie minime di dettagli e situazioni che per me sono essenza. In questo senso mi ritengo ricco e fortunato. Anche solo per la lotta che mi è costata ogni mio più piccolo traguardo,  che mi ha fatto apprezzare la conquista, ha dato un valore inestimabile a quello che ho avuto.  Comunque adesso sto invecchiando, diventa sempre più difficile vivere alla giornata.  Cambiare cento mestieri rubando la perizia dalle mani degli artigiani,  lanciarsi nelle sfide più improbabili e vincerle puntualmente. Non averne mai un riscontro economico,  non curarsi mai delle convenienze,  far scappare le donne che provano un misto di ammirazione e sgomento ma poi scelgono.  Molto prosaicamente, finirò a scaldare il letto di Kosima,  la tedesca che passa le vacanze all'Isola D'Elba.  Certo!  Il mio destino  prossimo adesso si chiama emigrazione, a lavare le auto nel Tankstelle che Kosima possiede a Colonia,  in Germania. Conobbi  Kosima sul motopesca di Milza. Il Lithium terzo è uno dei tanti pescherecci che nell'arcipelago toscano e non solo, durante la stagione estiva si convertono al pescaturismo.  Imbarcazioni da pesca che si attrezzano per ospitare turisti e condurli in visita nelle isole limitrofe. Nel caso del Lithium, le escursioni più frequenti erano verso la Capraia e la Gorgona, ma non era inconsueto che villeggianti danarosi affittassero la barca e l'equipaggio per essere condotti in Corsica o in Sardegna, dove l'escursione durava anche quattro o cinque giorni, trovando pernotti nei meno noti villaggi di pescatori. Gruppi di Tedeschi, soprattutto, prediligevano essere condotti su rotte sconosciute ai grandi flussi del turismo organizzato.  Milza era la persona che faceva al caso loro, riusciva a scovare alloggiamenti presso saline in disuso, presso pescatori che fittavano le case che si costruivano da mano a mano che avevano un po di soldi. Il volto solcato dalle rughe di una vita logorata, la pelle bruciata dal sole e dalla salsedine e quella cicatrice da cui prendeva il suo nome, tra l'addome e il torace, ricordo di quando affrontò a mani nude un marinaio Marocchino armato di coltello, Milza è una persona a cui non sapresti neppure attribuire un'età. Vecchio, forse, per la barba e i  lunghi capelli in gran parte bianchi,  per il suo essere sempre da solo con la sua barca ed il mare, senza che di lui si abbia notizia di una famiglia o di una casa. Giovane, forse, per la straordinaria forza fisica e perizia, per il carattere indomito e il carisma che lo impone ai suoi equipaggi, che lo fa il condottiero a cui i Tedeschi si affidano. Se ti imbarchi sul Lithium, tu sia equipaggio o turista, farai quello che dice Milza e non ti lagnerai. Ne riceverai una lezione di vita, da quel marinaio scalzo e perennemente a torso nudo, finchè il grecale non si farà troppo forte.  Lui ti mostrerà come ci si muove in mezzo agli elementi, ti insegnerà il rispetto del mare e del vento, ti nutrirà con il cibo offerto dal mare e attraverserai con gli occhi e con lo spirito una vita che ti sarebbe del tutto rimasta ignota, se non lo avessi incontrato. Certo, potrai anche essere convinto di avere una buona vita, se passi le tue giornate tra l' ufficio e la casa e poi per le vacanze ti affidi ad un villaggio turistico. Il confort non ti mancherà. Trovare l'alba sulla poppa del lithium mentre salpi le reti e i Tedeschi che sventrano i pesci che saranno il tuo pranzo, è un'altra dimensione. Respiri la vita che è sale e fatica. Gioia per gli occhi e puzza di sudore e di pesce.  Milza mi prendeva volentieri con se, quando mi presentavo e chiedevo di essere imbarcato. Non ero sicuramente un marinaio esperto, ma ci mettevo l'anima, in quello che facevo. Credo che il burbero comandante lo apprezzasse e mi dispensava di consigli, mi insegnava a condurre la barca, affrontare le onde nel giusto verso, calare le reti col migliore mestiere.  Affrontare il mare come si affronta la vita, con lealtà e rispetto.  Kosima mi mise gli occhi addosso fin dal primo anno che mi imbarcai sul Lithium. Lei possedeva una piccola villetta a Portoferraio e nell'isola trascorreva un mese di ferie estive e non era rado che tornasse per periodi più brevi anche in inverno. Non perse tempo, a farmi capire cosa voleva da me, ne io tergiversai prima di assecondarla. Ne nacque una storia strana, che non saprei ben definire. Sono passati quattro anni da quel primo imbarco e da questa storia non mi sono mai  affrancato. Ogni anno, dalle trenta alle quarantacinque notti dormiamo assieme. Non riesco a capire cosa mi spinge a ritenere questa donna che non si aspetta niente da me e che non ha niente da offrirmi, come quella da cui ho avuto di più. Eppure io ho attraversato un matrimonio e poi ancora una lunga convivenza, dunque perché è lei che sento più vicina? Non abbiamo mai parlato di sentimenti, anche non si può neanche dire che sia stata una storia di letto. Conosco poco di lei, anche perché la lingua non aiuta, dato che parla male l'italiano. Facciamo l'amore e io cerco sempre di capire se lei prova veramente piacere, questo è il mio pensiero fisso. Sia chiaro, non prenderei mai soldi da una donna, se qualcuno ha pensato  questo è fuori strada  e offende lei e me. Detto questo, resta il fatto che tra le sue braccia non ho mai conosciuto l'abbandono, troppo teso a cercare di capire la sua risposta, ad interpretare le sue sensazioni, tanto che il più delle volte il mio piacere sfuma e io mi fermo, quando credo di intuire che lei sia venuta. Ora lei mi chiede di andare a lavorare nel suo tankstelle ed io ci sto pensando. Qui non ho molte prospettive perché vivere alla giornata diventa sempre più duro. Potrei veramente trasferirmi a Colonia e lavorare insieme al suo personale Turco, non è escluso che uno come me si possa trovare bene. D'estate, poi, avrei comunque un posto sul motopesca, potrei scendere prima e poi Kosima mi raggiungerebbe.  Non lo so, mi sembrano progetti minimi, di piccolo cabotaggio. Ci vedo comunque più vita e verità che in questi giorni grigi. Oggi la vita corre in autostrada. Attraversiamo i nostri giorni lanciati sopra autovetture, incuranti di quello che sta attorno, unico obiettivo e la meta da raggiungere, il più presto possibile. Occupiamo la nostra casella, all'interno di questa società e lo facciamo con diligenza, ben attenti ad assolvere i compiti che altri hanno scelto per noi. Facciamo quello che altri si aspettano da noi. Siamo in coda al casello, provando invidia per quelli che hanno un telepass,  paghiamo la nostra quota e continuiamo la corsa, neppure ci chiediamo il perché. I bagni sono puliti, all'autogrill, consumiamo Camogli e il biglietto della lotteria, beviamo caffè ristretti. Riprendiamo la corsa, il navigatore aiuta nel rispetto delle regole, avverte della presenza del tutor, suggerisce  pause nella guida. Percorriamo giorni grigi che sono divenuti orizzonte, il riscaldamento è acceso, non si sta male. Le curve sono ampie e ben segnalate, solo un pazzo potrebbe avere problemi nella guida.  Se tutti rispettano le regole non ci saranno incidenti. La stagione estiva è finita da un pezzo e sono ancora sul motopesca di Milza. Faccio il turno al timone, mentre il comandante e i marinai rumeni riposano sotto coperta. Il grecale alza onde pericolose e rende insidiosa la navigazione, mentre conduco la barca a ridosso della Capraia. Se Milza sta riposando e non si è precipitato in plancia, vuol dire che ce la posso fare, all'alba caleremo le reti.  Adoro le vecchie camionabili che si snodano tra colline coltivate a grano e si inerpicano tra vigne ed oliveti.  Rallentare ad ogni curva, decidere quale sarà l'approccio migliore per non perdere il controllo.  Ad ogni bivio ricalcolare il percorso e decidere quale sarà la strada migliore da percorrere. Sbagliare e perdersi, non sarà un problema. Forse la meta si trova proprio oltre quella collina, tagliata fuori dagli itinerari. Meglio attraversarli, quei borghi da cui l'autostrada ti terrebbe lontano. Fermarsi in una trattoria nota solo ai camionisti locali, fare tardi agli appuntamenti. Dispiace essere motivo di delusione, ma Kosima e il tankstelle possono aspettare. Io sono me stesso. Il vecchio entrobordo da duecentocinquanta cavalli non si scompone più di tanto, quando abbasso la leva dell'invertitore e contemporaneamente agisco generosamente sull'acceleratore. Si accorge della  mano inesperta, ma non lo dà a vedere.  Sale su di giri ma non troppo, come si conviene a chi ha una personalità forte, che gli consente sempre di avere il controllo della situazione. Il Lithium terzo scivola di bolina e le eliche intorbidano le acque del porto, sollevando volute di sabbia dal fondo. Si appresta ad un accostaggio non proprio ortodosso alla banchina, le gomme dei respingenti e i parabordi gemono. Portoferraio ci accoglie alle quattro del mattino dopo quattro giorni di navigazione, gli ormeggiatori commentano.   Si vede che la barca non è tua, qualcuno dice, sicuro che io possa sentirlo.  Anche il pilota del porto, dalla plancia del traghetto che sta conducendo all'attracco, pare voglia dire su questa mia manovra e lancia un paio di fischi con la sirena di bordo. Il Lithium è fermo in banchina, l'equipaggio scarica le cassette del pesce che i furgoni della cooperativa trasporteranno al mercato. Non credo che Milza avrebbe avuto da ridire. Mi sono assunto la responsabilità di condurre la barca perché sentivo di poterlo fare.  Adesso è in banchina,  la chiglia non ha riportato alcun danno.  Ho superato l'esame e l'ho fatto a modo mio,  affrontando la situazione,  accettando la sfida. Del resto, non ho fatto altro,  nella vita.  Ho sempre inseguito orizzonti di cui subivo il fascino, non sono riuscito mai a battermi per quello che mi avrebbe consentito magari di farmi una posizione, per ciò che mi avrebbe consentito un'esistenza tranquilla.  Non è stato possibile,  per me. Troppo gusto, ho provato nel navigare ai margini del senso comune, nell'avere sempre e comunque un'opinione diversa e discordante. Ho sbagliato, non so neppure dire quante volte. Ho pagato di persona puntualmente e generosamente senza cercare sconti, senza sottrarmi alle responsabilità.  Non mi pento di quello che ho fatto e di quello che ho avuto. Non mi pento anche se adesso potessi iscrivere a bilancio solo l'aver fatto questa manovra con la barca o le giornate trascorse a lavorare nei boschi e nei campi.  Dal traghetto che poco fa è attraccato in banchina, tra uno sparuto gruppo di frontalieri, si fa avanti Kosima che mi sorride scuotendo la testa bionda. Era a Livorno da alcuni giorni, al capezzale di Milza che muore in ospedale. Ora mi sorride dalla banchina e scuote la testa bionda.  Forse l'ho malgiudicata, questa tedesca.  Forse non l'ho mai capita. Sono arrivati i giorni della pioggia. Monotoni. Si somigliano l'uno con l'altro e nessuno di loro pare possa promettere altre visioni se non questa cortina biancastra che si alza sul mare. Non so cosa mi aspetta oltre quella nebbia che rende ancora più incerta la poca luce di queste mattine invernali. Potrei essere sereno, perché nessun ostacolo si profila all'orizzonte e la navigazione è fin troppo tranquilla. Il mare non potrebbe essere più calmo, appena increspato dalla termica che soffia gelida dal continente. Mi stringo nella giacca tecnica con il cappello da pioggia ben calzato in testa e socchiudo gli occhi come a voler cercare altre diotrie che mi permettano di vedere meglio.  Vedere oltre quella cortina lattiginosa ed impalpabile. Non sono musiche sinfoniche, quelle che mi giungono alle orecchie tra il picchiettare incessante di questa pioggia lacerante. Sono urla sgraziate di gabbiani che lasciano il mare per recarsi alle discariche, sicura fonte di cibo. Forse dovrei fare come loro e trovare anch'io la mia discarica. Sono posti in cui con un certo spirito di adattamento e badando di turarsi il naso, ci puoi vivere bene. Non mi mancherebbe niente, né cibo né distrazioni. Neppure la compagnia mancherebbe, il genere umano pare abbia deciso di trasferirvisi, emulando gabbiani e corvidi.  Questi sono i pensieri che mi  affiorano alla mente, come insidiosi relitti alla deriva. Non certo buoni compagni di viaggio, in questa navigazione a vista. Però poi la pioggia incessante che colpisce il ponte e la mia giacca in gore tex, che mi sferza il viso e l'orgoglio, torna ad essere la mia sinfonia. A dritta del Lithium dalla bruma lattiginosa appare lo scoglio della Meloria. Sapevo che doveva essere vicino, che la mia rotta non poteva essere sbagliata di troppo. Sono io il comandante e, vivaddio, anche oggi caleremo le reti. Viro di babordo e la barca si inclina e si immerge di prua. Pare rassegnarsi, il vecchio peschereccio, alle mie manovre ruvide, forse avventate. Credo che ormai obbedisca di buon grado ai miei comandi. Maledico l'equipaggio Rumeno che indugia sotto coperta e lo trascino sul ponte. Alle reti, uomini, non siamo qui per rinunciare ma per fare il nostro lavoro.  Macchina pari avanti adagio e il basso fondale delle "secche" scivola sotto la chiglia. Ognuno deve decidere cosa vuol fare della propria vita, se ripiegare verso cosa appare più opportuno e conveniente oppure uscire per mare e assumersi dei rischi. Non ultimo quello di essere da solo, su rotte ormai cancellate dalle mappe. Le reti scivolano nell'acqua dove staranno fino a sera. Mettiamo il Lithium alla fonda che docile si allinea con la corrente, ancorato di prua. Ora quegli uomini contro corrente avranno tempo per pensare, chiusi  sotto coperta. Forse quando domani sbarcheremo qualcuno di loro rinuncerà e farà ritorno verso la propria terra. Siedo a prua, accendendomi una sigaretta e immagino di scorgere kosima che mi sorride dalla banchina durante la manovra d'ormeggio. Lei non ci sarà, questo lo so.  Mi piace pensare che si ricordi di me con una punta di nostalgia. Stasera non smetterà di piovere. Con ogni probabilità continuerà cosi, ne forte ne piano,   senza interruzione per tutta la notte. Non me la voglio perdere, questa nottata, potrebbe essere quella giusta. Prima che al Bilancino i fiorentini aprano le prese di carico dell'invaso e la portata dell'Arno aumenti troppo. Le cee bisogna prenderle per il loro verso, non è facile insidiarle con successo. Se non è la notte giusta, rischi di stare al freddo e all'umido e non ne fai neanche cento grammi.  Bisogna che l'acqua dolce portata dalle piogge si insinui nel mare e allo stesso tempo che la corrente non sia troppo forte,  solo così risaliranno lungo la ripa, al margine dei cannellai.  La prossima marea  sarà quella giusta, le acque piene ci saranno alle ventitré e da allora e per sei ore, se tutto va bene, se ne potranno vedere fino a cento,  duecento,  per ogni cala breve della ripaiola. Il fatto che piova così,  senza alcuna misericordia, , mi fa ben sperare che le guardie desistano dal fare una sortita e che non ci sia il rischio di doversi nascondere nel cannellaio e affondare la ripaiola  salendoci sopra,  immersi nell'acqua fino al torace.  Sono tempi strani, questi, non mi aspetto neppure che qualcuno possa capirmi, ma la realtà,  per chi la vive dai margini, è questa. È la legge stessa, che genera illegalità. La società è in preda a delirio legiferante, si vuol cambiare la vita delle persone a forza di codici e regolamenti. Ovviamente poi, il tutto si risolve nel rendere la vita impossibile alle categorie più svantaggiate, non certo nel colpire gli interessi dei potenti e dei ben introdotti.  Forte coi deboli, cosi si dice.  Credete che stia esagerando? Osservate la realtà delle carceri, che è una cosa da terzo mondo. Le condizioni detentive, con il sovraffollamento, costituiscono di fatto pene aggiuntive a quelle stabilite dal codice e questa situazione disastrosa è indotta dal proibizionismo e dalla mancanza di pene alternative. Siamo in presenza di una giustizia di classe che tende a nascondere la polvere sotto il tappeto,  invece di fare pulizia. Il fatto grave è che questa polvere sono esseri umani.  Con tutto ciò, le guardie stasera non verranno, tantomeno quelle volontarie.  Ah, non lo sapevate? Esiste anche un tipo di guardie volontarie, che si incaricano senza fini di lucro di vigilare sul rispetto delle regole. Va da se che poi questi volontari avranno ampia discrezionalità nel decidere  quali comportamenti perseguire. L'agire disinteressato nei confronti della collettività  è una pulsione alta, nobile.  Non si dovrebbe permettere di attribuirne il significato a chi ha smanie da sceriffo.  Da questa parte dell'Arno i volontari non verranno.  Dietro ad ognuna di quelle lucette che si accendono alternativamente quando è il momento di alzare la ripaiola,  ci può essere qualcuno che la società ha già spinto oltre il margine e non ha più nulla da perdere.  Non contano leggi e regolamenti, per lui. Il suo salvacondotto è il piccone sul fondo del barchino.  Il Lithium è alla fonda nell'ultimo dei rimessaggi sulla sponda destra dell'Arno.  Oltre, il fiume non è navigabile se non per imbarcazioni più piccole.  Lo lascerò qui , dove il rimessaggio costa meno,  fino alla fine di febbraio.  In cuor mio spero di vedere Kosima, la prossima primavera all'isola d'Elba, anche se non c'è niente su cui questo mio desiderio possa fondare. Non ho fatto niente, per compiacerla.  Mi aveva chiesto di raggiungerla a Colonia e di lavorare da lei, ma non ho accettato. Adesso manco anche dall'arcipelago, non abito più la sua casa di Portoferraio. Vivo sul Lithium e mi muovo come una creatura della notte.  Ora che è tempo di cee, non conviene sprecare  gasolio per raggiungere le zone di pesca dell'arcipelago. Meglio assumersi qualche rischio e stare qui. La pioggia non accenna a smettere e tra poco le acque inizieranno a montare, nascondo la ripaiola sul fondo del barchino, avvio il motore e scivolo nell'oscurità. La notizia viaggiava sulle brezze salmastre, sui tramonti nascosti da nubi gonfie di pioggia, sui crepuscoli lunghi e umidi come baci di ragazze. La portavano i pescherecci che ritornavano a notte fonda dallo strascico, i piazzisti infreddoliti che sbarcavano dai traghetti deserti dell'alba, gli spazzini che giravano l'arcipelago con le bettoline. C'era di che tenerne conto, di questo vociare sommesso e persistente, di questo ripetere e ripetersi della notizia, della voce. Passava di bocca in bocca e permeava l'ambiente degli uomini che vivono sul mare e del mare, una comunità che ogni giorno ha bisogno di riconoscersi ed identificarsi,  per non essere spazzata via. La comunità delle voci scambiate tra le barche che si incrociano, uomini che si chiedono sempre se in mare c'è ancora qualcuno che può aver bisogno di aiuto. Sguardi che ti interrogano dalle bilance e dai pontili, quando rientri e urli che non sei l'ultimo, che c'è ancora qualcuno la fuori. Sguardi che non si distolgono dalla foce procellosa dell'Arno in piena,  fino a che l'ultimo legno non ha fatto ritorno. E poi alla sera sui tavolacci delle cene dei pescatori, imbandite di pasta fumante condita col sugo di pesce, nelle baracche poco illuminate del lungarno, sulle panche e al tepore delle stufe a legna e a carbone, ancora la comunità che parla, insinua e diffonde. La notizia che corre di bocca in bocca. Mi piace, indugiare a quelle tavole a sentire i discorsi dei pescatori. Tirare tardi con quelli che usciranno in mare prima dell'alba o con quelli che hanno fatto rientro alla sera. Sentirmi parte di una comunità che mi ha accolto, anche se io ero un'altra cosa.  Anche se io,  prima di trovare rifugio su queste rive e in queste baracche, ho invano cercato la mia strada, correndo il rischio di trovarla tra quelli che la società ha messo fuori.  Eppure di questa voce, di questa notizia che pare catalizzare l'interesse dei pescatori e delle loro famiglie, di chi a più vario titolo vive e lavora su e di questo fiume e queste isole, io non riuscivo a sentirmi coinvolto, interessato.  Non avrei mai immaginato che quelle voci parlavano per me,  che ogni pescatore o piazzista o commerciante che si spostava nell'arcipelago,  riportasse e diffondesse la notizia sottendendo che io ne fossi parte in causa, che ne fossi l'oggetto e la causa scatenante.  L'idea non mi sfiorava, come quando qualcuno ti chiama e tu tiri dritto; a chi vuoi che importi di te. Senz'altro ci deve essere un'altra spiegazione.  Di giorno lavoravo al Lithium, l'avevo tirato in secco per lavori importanti di manutenzione. Il motore l'avevo smontato pezzo per pezzo, sostituito organi importanti, revisionato gli iniettori e la pompa. Quasi a volermi disobbligare dei miei comandi ruvidi, i fuori giri temerari, le manovre sempre al limite. Chiglia e carena tirate al lucido, una buona mano di anti vegetativo e interni ed esterni tutti a nuovo, in preparazione della stagione in cui i turisti si fanno accompagnare in giro per l'arcipelago. Di notte, col barchino ad insidiare le ceche, che le ripetute piene dell'Arno continuavano a tenere sulla foce, oppure alla bilancia, sfidando le correnti e i tronchi che queste trasportavano. Tutto fuor che pensare che la mia esistenza potesse interagire con altre vite e influire su scelte che altri assumono. Mi ero fatto la ferrea convinzione di essere un meccanismo che si potesse mettere o togliere da un macchinario senza che ci fossero conseguenze. Come parole racchiuse tra due virgole che a toglierle il senso della frase non cambia. Chissà perché, stamani il dubbio mi ha sfiorato. Ho preso il cellulare e dopo cinque mesi che non mi facevo sentire l'ho chiamata. Cristo, è vero. Kosima si è trasferita e ha aperto un trattoria a Portoferraio. Il fatto in se, non sarebbe sconcertante. Può succedere che qualcuno decida di imporre una svolta alla propria esistenza, ne so qualcosa anch'io che alle svolte e alle sfide ci sono abituato. Quello che mi ha sbalordito è l'apprendere dalla sua voce, in quel suo italiano stentato, che l'ha fatto per me, una volta persuasa che non mi sarei mai trasferito a Colonia. Questa notizia, che a lungo ho sfuggito, che ho pensato riguardasse tutti  meno che me, adesso mi fa pensare.  Accelero i lavori al Lithium. Accarezzo l'idea che forse questa primavera, sbarcando all'isola d'Elba, la possa trovare in banchina che mi sorride e scuote la testa bionda. Il carroponte solleva il Lithium con naturalezza. Le fasce passate sotto la chiglia,  abbracciano la barca e la accompagnano nel tragitto che dal cantiere la riporterà in acqua. Manovro il verricello del carroponte e con perizia appoggio il Lithium sulla superficie del bacino, ho la sensazione di essere artefice del suo e del mio destino.  Mi arrampico su tralicci del carroponte, sospeso sopra la barca sgancio le fasce e le recupero, facendole scivolare in acqua da sotto la chiglia. Beccheggia, il vecchio motopesca tirato a lucido, pare felice  di assaporare nuovamente il suo  elemento,  le acque  fangose di quel fiume che è già presagio di mare e di navigazione.  Nuove albe ci aspettano, nuove navigazioni solitarie, un manipolo di uomini ognuno accompagnato dalla sua solitudine, ognuno che insegue e che fugge dalla propria storia. Uomini che al mare non possono sottrarsi, pena la nostalgia degli scirocchi umidi o dei maestrali poderosi, uomini incantati dalla sinfonia degli elementi, dai tramonti che si fanno crepuscoli, dal buio stringente della notte che esalta il chiarore di stelle nocchiere. Il popolo della foce ci saluta dalle sponde dell'Arno, questa primavera ci troverà ancora sui banchi di pesca dell'arcipelago. Il Lithium affronta le onde di risacca della marea, la brezza marina ci porta sapore di salsedine sulla bocca e sulla pelle. Le isole aspre e dolci sono visibili, Gorgona e Capraia sono davanti alla prua. Richiamano scenari a cui questi uomini sentono di appartenere. Fatica e solitudine, affrontare eventi sempre diversi e mai prevedibili, vivere le soddisfazioni di una vita piena da scoprire e per cui lottare ogni giorno.  Altri pensieri mi accompagnano, in questa nuova navigazione, mentre dal timone del Lithium osservo l'orizzonte e ascolto il rombo regolare e possente della turbina.  Per la prima volta nella mia vita complicata sento di avere degli obblighi, che non siano quelli verso un equipaggio che ho ingaggiato. Ho sempre creduto di poter attraversare questa vita facendo conto sulle mie sole forze e che le mie azioni non avrebbero in alcun modo condizionato o determinato cambiamenti nella vita di altri. Forse ora devo ricredermi.  Anch'io comincio a sentirmi come la pagina di un libro, come un capitolo che non può essere tolto da un romanzo senza alterarne il senso. Se è vero, come il mare racconta, che Kosima ha lasciato la sua Germania mossa dal  desiderio di vivermi accanto, allora vuol dire che non è detto io debba morire da animale selvaggio e solitario come sono sempre stato. Se questa donna è riuscita a vedere l'orizzonte che si staglia dentro i miei occhi, allora io gli debbo ogni riguardo. Non si è più soli, se si seguono le stesse emozioni. Se cerchiamo lo stesso stupore e la meraviglia di una vita vista con occhi che hanno abbandonato ogni convenzione. La immagino nella sua nuova trattoria,  che cucina per la gente di questo mare, attorniata da cuochi e camerieri Turchi che s'è portata dalla Germania. Sarà stimolante provare a convincerla del nesso che passa tra la storia di un popolo e il suo cibo,  spiegarle che la cucina deve rispettare la cultura di questa gente, che niente si può inventare o esportare senza perdere radici, significati. Chissà se lo capirà che il pesce è giusto cuocerlo con le sue interiora, che tutto quello che in cucina si è fatto dal dopo guerra in poi è solo accademia e non c'è anima, dentro. Un po' come in edilizia, dove si continua  a costruire e deturpare, consumando e distruggendo suolo bellissimo e prezioso, mentre ci sarebbe molto da recuperare e valorizzare, di edifici, strade e piazze che hanno secoli di storia e ci parlano della vita vera. Farò capo a Portoferraio, nel mio girovagare nell'arcipelago tra battute di pesca e servizio di accompagnamento dei turisti.  Se Kosima lo vorrà, potrà avermi al suo fianco. (fine della storia)

 

 

 
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Odio gli indifferenti

Post n°58 pubblicato il 28 Gennaio 2013 da ocsurte
 

           

 

"Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'èin essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."

                                                                                               Antonio Gramsci 

 

 

 
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Brezze

Post n°57 pubblicato il 23 Gennaio 2013 da ocsurte
 

 

La notizia viaggiava sulle brezze salmastre, sui tramonti nascosti da nubi gonfie di pioggia, sui crepuscoli lunghi e umidi come baci di ragazze. La portavano i pescherecci che ritornavano a notte fonda dallo strascico, i piazzisti infreddoliti che sbarcavano dai traghetti deserti dell'alba, gli spazzini che giravano l'arcipelago con le bettoline. C'era di che tenerne conto, di questo vociare sommesso e persistente, di questo ripetere e ripetersi della notizia, della voce. Passava di bocca in bocca e permeava l'ambiente degli uomini che vivono sul mare e del mare, una comunità che ogni giorno ha bisogno di riconoscersi ed identificarsi,  per non essere spazzata via. La comunità delle voci scambiate tra le barche che si incrociano, uomini che si chiedono sempre se in mare c'è ancora qualcuno che può aver bisogno di aiuto. Sguardi che ti interrogano dalle bilance e dai pontili, quando rientri e urli che non sei l'ultimo, che c'è ancora qualcuno la fuori. Sguardi che non si distolgono dalla foce procellosa dell'Arno in piena,  fino a che l'ultimo legno non ha fatto ritorno. E poi alla sera sui tavolacci delle cene dei pescatori, imbandite di pasta fumante condita col sugo di pesce, nelle baracche poco illuminate del lungarno, sulle panche e al tepore delle stufe a legna e a carbone, ancora la comunità che parla, insinua e diffonde. La notizia che corre di bocca in bocca. Mi piace, indugiare a quelle tavole a sentire i discorsi dei pescatori. Tirare tardi con quelli che usciranno in mare prima dell'alba o con quelli che hanno fatto rientro alla sera. Sentirmi parte di una comunità che mi ha accolto, anche se io ero un'altra cosa.  Anche se io,  prima di trovare rifugio su queste rive e in queste baracche, ho invano cercato la mia strada, correndo il rischio di trovarla tra quelli che la società ha messo fuori.  Eppure di questa voce, di questa notizia che pare catalizzare l'interesse dei pescatori e delle loro famiglie, di chi a più vario titolo vive e lavora su e di questo fiume e queste isole, io non riuscivo a sentirmi coinvolto, interessato.  Non avrei mai immaginato che quelle voci parlavano per me,  che ogni pescatore o piazzista o commerciante che si spostava nell'arcipelago,  riportasse e diffondesse la notizia sottendendo che io ne fossi parte in causa, che ne fossi l'oggetto e la causa scatenante.  L'idea non mi sfiorava, come quando qualcuno ti chiama e tu tiri dritto; a chi vuoi che importi di te. Senz'altro ci deve essere un'altra spiegazione.  Di giorno lavoravo al Lithium, l'avevo tirato in secco per lavori importanti di manutenzione. Il motore l'avevo smontato pezzo per pezzo, sostituito organi importanti, revisionato gli iniettori e la pompa. Quasi a volermi disobbligare dei miei comandi ruvidi, i fuori giri temerari, le manovre sempre al limite. Chiglia e carena tirate al lucido, una buona mano di anti vegetativo e interni ed esterni tutti a nuovo, in preparazione della stagione in cui i turisti si fanno accompagnare in giro per l'arcipelago. Di notte, col barchino ad insidiare le ceche, che le ripetute piene dell'Arno continuavano a tenere sulla foce, oppure alla bilancia, sfidando le correnti e i tronchi che queste trasportavano. Tutto fuor che pensare che la mia esistenza potesse interagire con altre vite e influire su scelte che altri assumono. Mi ero fatto la ferrea convinzione di essere un meccanismo che si potesse mettere o togliere da un macchinario senza che ci fossero conseguenze. Come parole racchiuse tra due virgole che a toglierle il senso della frase non cambia. Chissà perché, stamani il dubbio mi ha sfiorato. Ho preso il cellulare e dopo cinque mesi che non mi facevo sentire l'ho chiamata. Cristo, è vero. Kosima si è trasferita e ha aperto un trattoria a Portoferraio. Il fatto in se, non sarebbe sconcertante. Può succedere che qualcuno decida di imporre una svolta alla propria esistenza, ne so qualcosa anch'io che alle svolte e alle sfide ci sono abituato. Quello che mi ha sbalordito è l'apprendere dalla sua voce, in quel suo italiano stentato, che l'ha fatto per me, una volta persuasa che non mi sarei mai trasferito a Colonia. Questa notizia, che a lungo ho sfuggito, che ho pensato riguardasse tutti  meno che me, adesso mi fa pensare.  Accelero i lavori al Lithium. Accarezzo l'idea che forse questa primavera, sbarcando all'isola d'Elba, la possa trovare in banchina che mi sorride e scuote la testa bionda. (continua)

 

 

 
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L'arno e Pisa

Post n°56 pubblicato il 21 Gennaio 2013 da ocsurte
 
Tag: arno, pisa

 

 

 

                                                                   

 

                                             

 
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Post n°55 pubblicato il 14 Gennaio 2013 da ocsurte

                                                     

 

 

 
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Tempo di ceche

Post n°54 pubblicato il 12 Gennaio 2013 da ocsurte
 

 

Stasera non smetterà di piovere. Con ogni probabilità continuerà cosi, ne forte ne piano,   senza interruzione per tutta la notte. Non me la voglio perdere, questa nottata, potrebbe essere quella giusta. Prima che al Bilancino i fiorentini aprano le prese di carico dell'invaso e la portata dell'Arno aumenti troppo. Le cee bisogna prenderle per il loro verso, non è facile insidiarle con successo. Se non è la notte giusta, rischi di stare al freddo e all'umido e non ne fai neanche cento grammi.  Bisogna che l'acqua dolce portata dalle piogge si insinui nel mare e allo stesso tempo che la corrente non sia troppo forte,  solo così risaliranno lungo la ripa, al margine dei cannellai.  La prossima marea  sarà quella giusta, le acque piene ci saranno alle ventitré e da allora e per sei ore, se tutto va bene, se ne potranno vedere fino a cento,  duecento,  per ogni cala breve della ripaiola. Il fatto che piova così,  senza alcuna misericordia, , mi fa ben sperare che le guardie desistano dal fare una sortita e che non ci sia il rischio di doversi nascondere nel cannellaio e affondare la ripaiola  salendoci sopra,  immersi nell'acqua fino al torace.  Sono tempi strani, questi, non mi aspetto neppure che qualcuno possa capirmi, ma la realtà,  per chi la vive dai margini, è questa. È la legge stessa, che genera illegalità. La società è in preda a delirio legiferante, si vuol cambiare la vita delle persone a forza di codici e regolamenti. Ovviamente poi, il tutto si risolve nel rendere la vita impossibile alle categorie più svantaggiate, non certo nel colpire gli interessi dei potenti e dei ben introdotti.  Forte coi deboli, cosi si dice.  Credete che stia esagerando? Osservate la realtà delle carceri, che è una cosa da terzo mondo. Le condizioni detentive, con il sovraffollamento, costituiscono di fatto pene aggiuntive a quelle stabilite dal codice e questa situazione disastrosa è indotta dal proibizionismo e dalla mancanza di pene alternative. Siamo in presenza di una giustizia di classe che tende a nascondere la polvere sotto il tappeto,  invece di fare pulizia. Il fatto grave è che questa polvere sono esseri umani.  Con tutto ciò, le guardie stasera non verranno, tantomeno quelle volontarie.  Ah, non lo sapevate? Esiste anche un tipo di guardie volontarie, che si incaricano senza fini di lucro di vigilare sul rispetto delle regole. Va da se che poi questi volontari avranno ampia discrezionalità nel decidere  quali comportamenti perseguire. L'agire disinteressato nei confronti della collettività  è una pulsione alta, nobile.  Non si dovrebbe permettere di attribuirne il significato a chi ha smanie da sceriffo.  Da questa parte dell'Arno i volontari non verranno.  Dietro ad ognuna di quelle lucette che si accendono alternativamente quando è il momento di alzare la ripaiola,  ci può essere qualcuno che la società ha già spinto oltre il margine e non ha più nulla da perdere.  Non contano leggi e regolamenti, per lui. Il suo salvacondotto è il piccone sul fondo del barchino.  Il Lithium è alla fonda nell'ultimo dei rimessaggi sulla sponda destra dell'Arno.  Oltre, il fiume non è navigabile se non per imbarcazioni più piccole.  Lo lascerò qui , dove il rimessaggio costa meno,  fino alla fine di febbraio.  In cuor mio spero di vedere Kosima, la prossima primavera all'isola d'Elba, anche se non c'è niente su cui questo mio desiderio possa fondare. Non ho fatto niente, per compiacerla.  Mi aveva chiesto di raggiungerla a Colonia e di lavorare da lei, ma non ho accettato. Adesso manco anche dall'arcipelago, non abito più la sua casa di Portoferraio. Vivo sul Lithium e mi muovo come una creatura della notte.  Ora che è tempo di cee, non conviene sprecare  gasolio per raggiungere le zone di pesca dell'arcipelago. Meglio assumersi qualche rischio e stare qui. La pioggia non accenna a smettere e tra poco le acque inizieranno a montare, nascondo la ripaiola sul fondo del barchino, avvio il motore e scivolo nell'oscurità. (continua)

 

 

 
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