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L'ultimo festival: il calcio come Sanremo...


di G. FioritoCi spero ogni volta. Che sia l'ultimo festival. Lo chiamano ancora della canzone italiana. Io non lo guardo da anni. E le ultime edizioni mi piaceva seguirle alla radio. In macchina, davanti al mare della costa che scende sotto la Timpa di Acireale. Dove nel silenzio assorto della sera potevi ascoltare le canzoni. Sentire la musica, che non è un modo di dire, ma di capire con la mente e con l'anima i suoi arrangiamenti, le sue vibrazioni. Non era più la musica. E nemmeno la poesia dei versi. Dovevamo capirlo quando Tenco ha detto no. Invece ci siamo lanciati in un tourbillon di lustrini, di luci, di gossip, di interessi da casa discografica. Dentro un contenitore fatto di tutto e per questo di niente: la televisione. La stessa cosa è accaduta al calcio. Mi viene in mente che i primi festival la gente li ha potuti ascoltare soltanto alla radio. E anche il calcio per tanto tempo è stato soltanto alla radio. "Scusa Ameri"... E qualche spezzone di partita che valeva una settimana di attesa. E il mercoledì di coppa un evento. Lo spazio all'immaginazione, imparare il calcio fingendoselo nella mente. Adesso mi sembra che quel processo filtrato dalle mie stesse emozioni fosse tanto più vero di quaranta telecamere e una telecronaca finta.Il calcio della confusione. La confusione del calcio. Non vorrei ritrovarmi a sperare ogni anno che sia l'ultimo campionato. Un decadentismo agli sgoccioli ne sta esasperando la decadenza. Esauriti i momenti di gloria bianconeri e rossoneri, finalmente è toccato ai nerazzurri e bene si addice loro il festival dell'indecenza. Una specie di suicidio collettivo. Impersonato contro il Tottenham proprio dal Milan, la squadra che negli ultimi anni ha fatto del decadentismo la sua carta vincente. E non credo per la battuta facile dell'età media dei suoi giocatori. Quanto per una promessa di lussureggianti emozioni un poco disattesa. Nell'abbandono molle all'enfasi di un nome. Nel festino dei dribbling e delle notti brave. Nella languida promessa dello spettacolo. Mentre l'impresario diceva: bambole, non c'è una lira. E se qualcuno doveva vincere era soltanto una scommessa che era stata falsata. Il calcio come Sanremo. Pessotto come Tenco. Dovevamo capirlo quel giorno, nel gesto che Gianluca compì il 27 giugno 2006. Quando tornai a casa dal mare e accendendo la televisione i miei occhi si inondarono di lacrime, compresi che era giunto il momento di piangere per la Juventus. Non l’avevo mai fatto. Nemmeno dopo Atene. Mi ero accasciata come una pupa di pezza sulla poltrona. Ma lacrime no. Non era ancora il tempo. La Juventus era qualcosa da amare, da difendere nelle discussioni con gli amici di fede diversa, ma che non mi apparteneva. Piuttosto io appartenevo a Lei. I suoi destini erano in mani sicure. Sapevo solo che saremmo ritornati a vincere. Quel gesto di Gianluca invece apparteneva a tutti noi ed era un gesto composto e disperato, di rifiuto di ciò che stava accadendo. Una presa di posizione netta contro l’ingiustizia che si stava preparando. Certo, nessuno arriverebbe a tanto senza avere dentro un malessere profondo e che viene da lontano. Ma dentro quel malessere c’era un malessere più grande. E le persone sensibili non sanno ribellarsi se non a se stesse. Il non avverarsi della logica conseguenza, l’aver sfuggito la morte, mi appare ancora adesso una metafora eccellente del futuro, che ancora non potevamo comprendere.Già si parlava di squadre indebitate, di calcio insostenibile, di fair play finanziario che coinvolgeva tutti, anche fuori dall'Italia. Mi sembrò un pensiero disperato. Un'illusione per tenersi attaccati alla macchina del tempo. Per avere la forza di un respiro bianconero. Vidi lo stadio nuovo, quello che ho sempre detestato, coi miei interrogativi tesi a comprendere se valeva la pena di farlo per Poulsen e Andrade. Sapevo che un poco ci eravamo uccisi e un poco ci avevano assassinati. Oggi di quel crimine non vorrebbe più sentire parlare nessuno. Nemmeno i ministri, troppo impegnati ad assumere una parte nella farsa che dal calcio si sta espandendo a macchia d’olio su tutto il paese. Forse perché alcuni protagonisti sono addirittura gli stessi. A noi Juventini piace ripetere che la storia siamo noi. Oggi forse anche il futuro siamo noi. Un passo avanti. Un passo dopo l'altro. Non smettere di crederci. Perché ce lo chiederanno un'altra volta il conto e sarà dimenticare. Lo stanno già facendo. Pretendono di essere salvati col prezzo della nostra storia. Di una storia che un prezzo non ce l’ha. http://www.giulemanidallajuve.com/newsite/...lio.asp?id=1416