Il VENTO e il LEONEIl guaio è che gli uomini hanno una particolare abilità nello scegliere proprio le cose peggiori per loro (J. K. Rowling) |
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IL CANTO DEL DERVISCIO
L'uomo è un flauto di canna, sospeso sugli abissi. E invoca la sua origine, cui vorrebbe tornare, tra i lamenti. Poiché è la strada di casa che ha smarrito, e la cerca. Udendolo, il mio cuore è mosso a pietà. E vorrebbe aiutarlo, ma non osa, perché sa che il compito è suo, di lui solo. E l'amore è una dolce follia, che riesce a guarirci dal peccato. Gli innamorati si incontrano, senza parlare, e ciascuno di essi dice proprio ciò che deve dire, ciò che l'altro s'aspetta. Mosè perse i sensi, alla vista del Divino. E così l'amante, che rincorre l'amato. E lo scorge dappertutto, avvolto in mille veli. Che gliene annunciano l'onnipresente esistenza. E quando l'incontro ha luogo, è una dolce ebbrezza, nel delirio, a imporsi. Queste storie si aprono al mondo. Esse sono rivolte agli amici, affinché imparino a guardare. E intraprendano il cammino, se già non si sono messi in viaggio.
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« La nascita dei desideri liquidi | Messaggio #90 » |
La vita ti impone delle scelte che non vorresti fare, ti porta lontano dai sogni di bambino snocciolati con gli amici al ritrovo quotidiano. Allora ricordi i muri sbrecciati sui quali immaginavi altre vite, storie fantastiche e inverosimili, legami suggellati dal sangue tiepido, ferite stillate nel coraggio incosciente dell’assurdo; ricordi i luoghi, che ad ogni passo sembrano sempre un po’ diversi, più piccoli di quanto ancora avessi in mente, e ti accorgi che i fantasmi che popolano i tuoi pensieri hanno perso i loro volti … cazzo … non li ricordi nemmeno spaccandoti il cervello, non ricordi i suoni delle voci, non il calore delle mani sulle spalle o le grida in lontananza. Ti passa accanto la sconosciuta indifferenza che il tempo ti accomoda sulla schiena e ti senti un mendicante in cerca di un sorriso, un estraneo che calpesta territori ostili di conquista. I colori si fanno vivi, ma continui a immaginare quelli perduti tra i ciottolati polverosi di campagna, la semplice realtà di cose che non ritrovi rincasando in solitudine. Ti viene voglia di chiudere gli occhi e pregare, pregare di riaprirli e trovare tutto com’era, solo per un istante, un maledetto istante per crogiolarti ancora una volta in quella sicurezza che desideri da tanto, in quel tepore che ti solleva e ti conforta. L’aria è pungente. Pochi vi badano, indifferenti ai piccoli movimenti che ancora riesci a scorgere nel cielo, ma le volute d’ali hanno quel fascino che immutato ti accarezza comprensivo, ristoro d’ansie perpetrate anno ad anno; forse mi sto perdendo o mi accorgo di volermi solo ritrovare: ecco quel che sono, un sasso smarrito fra la ghiaia, argine di insipienza o di dolcezza, chi lo sa. Forse non ho più nulla che mi appartenga veramente, nulla da aggiungere o da discutere, nulla che valga la pena di ricordare con affetto: togliere ogni spina dalla carne non è servito a guarire le ferite. Poi, quando non hai più parole a scardinarti le labbra, le senti: senti quelle vite che sognavi abbracciarti come farebbe tua madre, sussurrarti suoni dimenticati. Allora ti volti e le figure si contornano definite, smorfie e sorrisi, poi le voci, gli odori … la vita. Sono tutti lì, chi se n’è andato e chi non tornerà, tutti lì come apparsi all’improvviso. E crolli. Crolli perché non pensavi di piangere come un tempo, di essere così grande da portarti dentro quell’immensità. Crolli perché sono anni che non stai in ginocchio, sono anni che non senti quel senso di appartenenza a qualcosa che vada oltre ciò che ti è dato di vedere. Tutto questo tempo, vita dopo vita. Tutto questo amore, legame dopo legame. Ho dato veramente tutto. Ora puoi andare. Ti porto a casa. |
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