LA VOCE DI KAYFA

COLTO DA SINDROME DI PICASSO


Grazie alla passione di mio padre per l’arte - la pittura in particolare che praticava con risultati più che discreti - fin da ragazzino di musei, pinacoteche e luoghi simili ne ho visitati tanti. Vedendo cose bellissime che, grazie alle spiegazioni di papà, mi sembravano ulteriormente belle. Crescendo, sia con gli amici che  con mia moglie, prima da fidanzati e poi da sposati senza e con figli, quando mi ritrovavo a viaggiare, per lo più durante le vacanze estive, seppure soggiornassi in una località balneare, cercavo sempre di informarmi se nel paese dove ci trovavamo o nei suoi pressi vi fosse qualcosa di interessante da visitare: un museo, un castello, degli scavi archeologici o quant’altro.Così facendo ho avuto il privilegio di ammirare opere di artisti famosi e di conoscere quelle di emeriti sconosciuti o poco meno che, a mio avviso, meriterebbero maggiore visibilità. Tuttavia mai m’era successo, contemplando un’opera d’arte, di emozionarmi al punto da sentire l’esigenza di dovermi sedere, restandola a guardare rapito con commosso stupore.So che ci sono persone che, trovandosi al cospetto di opera d’arte, sono colte da un vortice emozionale al punto da svenire – questa patologia è denominata sindrome di Stendhal . Personalmente mai m’è successo qualcosa del genere.Mai, fino a questa mattina quando, insieme a mia moglie, sono stato al museo di Capodimonte per visitare la mostra di Picasso Parade a Napoli.Parade è un balletto di Leonide Massine, tratto da un poema di Jean Cocteau, musicato da Erik Satie, di cui Picasso curò la scenografia e i costumi.Lo stesso Picasso dipinse il sipario che è la sua opera più imponente: una tempera su tela di 10,50 x16,40, ribattezzata Parade.Entrando nella sala del museo dove è  esposto l’enorme dipinto, levando gli occhi su quella tela che sembrava non finisse mai, sono stato colto da uno senso di smarrimento mai provato fino a quel momento.Istintivamente mi sono seduto su uno dei sgabelli posti al suo cospetto. Mentre l'ammiravo, aumentava in me il senso di smarrimento che mi aveva colto entrando nella sala. Fissando Parade percepivo con sempre maggiore chiarezza la mia pochezza di uomo rispetto alla grandezza di Picasso.Tuttora mentre con la mente ritorno a quei momenti, ripensando al dipinto, fatico a trattenere la commozione che la sua immagine mentale mi suscita.Cosa può aver scatenato in me quella reazione emotiva, non lo saprò mai. Magari essa è frutto del gioco di luci creato dagli allestitori nel salone dove è esposto per dargli maggior risalto, riproponendo con quelle luci suffuse l’atmosfera che si accompagna in teatro allorché le luci in sala lentamente si spengono prima dell’apertura del sipario.Di sicuro, osservando la maestosità del capolavoro, nella mia anima s’è aperto uno spiraglio, ma forse sarebbe più corretto dire “s’è levato il sipario”, consentendomi di percepire tutta la grandezza dell’artista e, contestualmente, la mia vacuità di uomo rispetto all’universo.E probabilmente questa deve essere la funzione di un vero artista: comunicare all’umanità, attraverso la grandezza del proprio genio riflessa nella plasticità della sua arte, quanto effimera sia l’esistenza umana, rapportata alla maestosità del creato, se non viene accompagna dall’espressione artistica, qualunque essa sia, unica condizione capace di elevare l’uomo, ossia l’artista, al rango divino.In Parade riecheggia maestosa la voce di Picasso e, per suo tramite, quella di Dio. Il suo tono stentoreo, espresso dalla bellezza e potenza simbolica delle immagini si è imposto all’orecchio della mia anima; comunicandole un messaggio codificato che sicuramente essa ha recepito e decodificato a mia insaputa. Per questo l’emozione m’ha colto mentre lo osservavo incredulo.L’inconscio ha compreso quello che comunica Parade.Chissà quando la coscienza intenderà a sua volta l’essenza ermetica del quadro.