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LA VOCE DI KAYFA

IL BLOG DI ENZO GIARRITIELLO

 

Messaggi di Agosto 2019

L’ENOLOGO ALESSIO BANDINELLI SI RACCONTA

Post n°2031 pubblicato il 26 Agosto 2019 da kayfakayfa
 

 

ALESSIO

Alessio da quanto tempo svolgi l'attività di enologo?

Da vent'anni. Ho iniziato lavorando in piccole aziende vitivinicole. Poi, agli inizi del duemila, non appena laureato, ho intrapreso  l'attività a pieno regime.

Cosa ti ha spinto a scegliere questa professione?

Per quanto riguarda il lavoro, non ho mai avuto il sogno nel cassetto. Però mi sono sempre piaciuti i lavori attinenti all'agricoltura. Papà negli anni novanta era consigliere nazionale dell'ASI, associazione italiana sommelier, e andavamo in viaggio a visitare le cantine e le aziende vitivinicole. Di conseguenza a casa si sviluppava l'interesse per tutto ciò che riguardava il vino cui si abbinava un consumo intelligente che ti portava a fare un vero e proprio viaggio in un bicchiere. Degustando un buon bicchiere di vino, socchiudendo gli occhi mentre lo bevevi, riscoprivi gli odori e i sapori della terra da cui il vino proveniva. Attraverso quel viaggio degustativo ti veniva raccontata la storia del vino che bevevi e la storia di chi lo produceva.

Sì, ma esattamente la tua propensione a fare l'enologo da dove nasce?

Forse proprio da questa esperienza adolescenziale. Anche se non escludo che potesse esserci già qualcosa in me che si era messa inconsciamente in moto. Ad esempio dopo le medie scelsi di iscrivermi all'istituto agrario di Firenze in quanto sentivo che dovevo fare qualcosa che fosse attinente alla terra. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato un lavoro tangibile, vero. Un lavoro attraverso cui l'uomo producesse davvero con le proprie mani. E a ciò ho sempre associato l'agricoltura!

Tu oggi sei un libero professionista, ma in passato hai lavorato come dipendente presso grosse aziende. Ci spieghi come avviene questo passaggio?

È stato un percorso: ho prima studiato a Firenze poi ho avuto l'opportunità e la fortuna di formarmi in un'importante azienda trentina che produce milioni di bottiglie all'anno dove ho fatto  tutto la trafila dalla gavetta fino alla direzione tecnica. A quel punto mi son chiesto, "che si fa?". È scattato un meccanismo per cui da otto anni  mi sono rimesso in discussione per vedere se fossi capace di fare qualcosa da solo. Penso sia la mia indole che mi porta a volermi rimettere periodicamente in gioco un po' in tutte le cose che faccio. Oggi lavoro in quattro regioni d'Italia, seguo progetti interessanti e ambiziosi, ho presentato una domanda di brevetto sulla tecnica di vinificazione con i raspi, che spero verrà accettata. Tutto ciò mi gratifica, ma soprattutto mi stimola ad andare sempre avanti.

Tu sei molto legato a Raggiolo, ciò non ti ha mai portato a dar vita a un prodotto vinicolo che avesse come richiamo il paese?

Filosoficamente sarebbe una bella scommessa... Volendo essere realisti, qui a Raggiolo non sarebbe semplice impiantare una vite da cui poi trarre vino locale. Considera che siamo sull'Appennino, un territorio dove ci sono grossi magnati del vino: Biondi Santi per il Brunello, tanto per citarne uno. Persone che hanno investito tanto sul territorio. Non escludo che lo stesso un giorno non possa accadere anche a Raggiolo. Ma sarebbe un progetto molto ambizioso che richiederebbe un tale investimento di risorse e mezzi che, al momento, reputo impossibile da realizzarsi in quanto nella zona  non mi risulta ci  siano imprenditori  disposti a investire nella realizzazione di un'idea simile.

A proposito di ambizioni, quali sono le tua ambizioni come enologo?

Io vivo molto di soddisfazione. La riuscita di un progetto mi gratifica, mi soddisfa! L'ambizione sicuramente potrebbe essere quella di riuscire a realizzare il vino ideale. Ma fortunatamente non arriva mai, per cui sei sempre alla ricerca di nuovi orizzonti per crescere professionalmente e di riflesso anche come uomo.

Questa tua visione è comune agli artisti: ogni artista sa che la propria opera non sarà mai perfetta ma perfettibile, ossia migliorabile. In virtù di ciò, ti definiresti un artista?

Non lo so. Da tecnico della natura cerco di leggere i segnali della materia prima, di fare un'analisi della qualità delle uve prodotte nel corso degli anni e l'analisi del territorio. Tutti aspetti che mi consentono di vivere un legame profondo con la terra pur essendo appunto un tecnico.

Come sarà il vino del 2019?

È presto per dirlo. Almeno in toscana abbiamo ancora un buon mese e mezzo di attesa per fare il Sangiovese. Allo stato attuale i segnali indicano che quest'annata dovrebbe essere buona. Ma, come dico sempre, "finché non c'ho l'uva in cantina, non te lo dico!"

 
 
 

PAOLO SCHIATTI, CUSTODE DELLE TRADIZIONI

Post n°2030 pubblicato il 24 Agosto 2019 da kayfakayfa
 

 

foto paolo schiatti

Intervista a Paolo Schiatti presidente della Brigata di Raggiolo la cui funzione è recuperare e salvaguardare le tradizioni di Raggiolo, perla del Casentino Toscano in provincia di Arezzo, arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, inserito nella ristretta lista dei Borghi più Belli d'Italia.

 

Dottor Schiatti da quanto è presidente della Brigata di Raggiolo?

Da quattro anni

Quando nasce la Brigata?

Venticinque anni fa, da un idea di un gruppo di amici. Quattro amici al bar, letteralmente. L'intenzione era quella di dar vita a qualcosa che valorizzasse Raggiolo, arrestando la deriva culturale che era stata intrapresa.

Vi proponete tipo pro loco o il vostro compito principale è quello di serbare le tradizioni del luogo?

Assolutamente serbare le tradizioni del luogo! Tant'è vero che abbiamo deciso di non essere una pro loco e di non avere questa identificazione neanche nel nome.

Quando nasce Raggiolo?

La prima notizia storicamente accertata è del 967, prima del mille, in epoca ottoniana. Da un documento del regesto di Camaldoli risulta una donazione dell'imperatore Ottone a un cavaliere, Goffredo di Ildebrando, di alcuni territori tra cui "villa raggiola".

Il termine raggiolo evoca alla mente il raggio di sole. E' questa l'origine del nome?

No, è solo un'assonanza! L'analisi linguistica della cattedra di glottologia dell'università di Firenze conduce in un'altra direzione. La definizione raggiolo, per tutta una questione complessa di lemmi, indicherebbe "il luogo degli spini", ossia un sito di non facile accesso all'interno del bosco.

La sala in cui ci troviamo si chiama "sala dei corsi" in riferimento agli abitanti della corsica. Qual è il legame tra Raggiolo e i corsi?

Dopo il 400 a Raggiolo si insediò una comunità di corsi che ripopolò l'antico castello che era andato completamente distrutto. I corsi sono gli antenati dei raggiolatti, una discendenza di cui qui a Raggiolo si va molto fieri e diversi vocaboli tipici di Raggiolo sono di origine corsa.

Per secoli l'economia di Raggiolo si è mantenuta grazie alla raccolta delle castagne e dei prodotti che vi si  ricavavano. Voi ogni anno, tra fine ottobre e inizi di novembre, in piazza organizzate la festa della castagna...

La castagnatura, è un termine tecnico del casentino.

Questa tradizione inerente la castagna esiste tuttora, o sta scomparendo e voi vi proponete di recuperarla?

Esiste tuttora, ma in maniera minima rispetto al passato. Raggiolo è stata davvero la patria della castagna fino alla seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra. I documenti ritrovati all'università attestano che fin dal duecento i conti Guidi, ai quali apparteneva Guido Novello signore di Raggiolo tra il 1301 e il 1322, avevano selezionato una castagna tuttora esistente derivante da un tipo di castagno detto raggiolano: la castagna raggiolana. Consideri che il castagno non è un albero autoctono, ma fu importato dall'Asia dai romani. La sua estensione territoriale a livello nazionale è dovuta al fatto che è un albero da frutto. Ma soprattutto è un albero del pane: dalla farina di castagne si ottiene la polenta di castagne che rispetto a quella di mais ha la caratteristica fondamentale di essere proteica. Per generazioni a Raggiolo si è vissuto grazie alla farina di castagne.

La vostra ambizione è salvaguardare la storia e le tradizioni di Raggiolo. Turisticamente il paese sta avendo un grosso boom, non a caso è stato inserito nella lista dei borghi più belli d'Italia, e questo è sicuramente anche merito vostro. Come Brigata quali altri obiettivi vi siete proposti per portare avanti questa crescita?

Il discorso sarebbe lungo. Volendo essere sintetici, credo che alla base vi sarebbe l'esigenza di creare un'unità territoriale tra tutti i comuni edificati sul massiccio del Pratomagno. Una montagna straordinaria, con una bellezza paesaggistica unica, sulla cui cima si estende un'immensa prateria che per secoli è stata, unitamente alla Maremma, luogo di pascolo per le greggi all'epoca della transumanza; divide il Casentino dal Val d'Arno ed è circondato nel suo percorso dall'Arno. Ecco, reputo che questa sia la prima cosa da farsi, dare unità a questo mondo che ha una sua omogeneità territoriale culturale e urbanistica.

Quindi, se non ho frainteso,  tutto ciò richiederebbe non solo un impegno culturale ma anche politico!?

Sì,implica che i comuni collaborino insieme a un progetto territoriale che facesse emergere il Pratomagno in quanto tale. E dentro questo progetto fare in modo che le tradizioni dei singoli paesi venissero recuperate e salvaguardate. 

Di raggiolatti in paese ve ne siano sempre meno, mentre vi è un aumento esponenziale di turisti. Alla lunga ciò non potrebbe far cadere nel dimenticatoio la storia e le tradizioni di Raggiolo?

Certo, il rischio è reale! Ed è proprio per evitare che avvenga che come brigata ci siamo posti l'ambizioso compito di recuperare e tenere vive le antiche tradizioni del luogo e organizzare escursioni in posti dove si possono ammirare le meraviglie della natura che ci circonda. È giusto che il paese si incrementi turisticamente, ne beneficia tutta l'economia locale. L'importante è che tutto ciò non oscuri le origini e le tradizioni di Raggiolo! Finché potrò, mi impegnerò con tutte le mie forze perché la radici storico-culturali del paese non cadano nel dimenticatoio. Ovviamente con la collaborazione dei volontari della brigata, donne e uomini straordinari senza i quali tutto quel che abbiamo finora fatto sarebbe stato impossibile.

 
 
 

ESCURSIONE NELL’ALVEO DEL TEGGINA, SULLE ORME DEL FIUME

Post n°2029 pubblicato il 22 Agosto 2019 da kayfakayfa
 

Da sinistra: Adelio Gambini, Franco Franceschini, Bruno Luddi, Paolo Schiatti, Lorenzo Venturini, Arturo Gambini

Alcuni giorni dopo l'escursione in notturna sul Pratomagno, passeggiando per Raggiolo incontrai Paolo Schiatti, una delle guide di quella salita. Dopo avermi chiesto come mi sentissi, mi comunicò che stavano organizzando un'escursione fin su la Pozza del Berluzzi, a circa 900 mt di altezza, per poi ridiscendere l'alveo del Teggina fino al Ponte della Prata, un chilometro e mezzo a valle; magari camminando nell'acqua come facevano da ragazzini.

Da come me la descrisse sembrò dovesse trattarsi di un'escursione priva di difficoltà, una passeggiata o poco meno.

 

L'appuntamento è alle 8,30 di mattina in piazza. Oltre a me ci sono Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti, Adelio e Arturo Gambini, Franco Franceschini e Bruno Luddi. Tutti abbiamo superato da tempo  i cinquant'anni. Il più giovane sono io che ho completato i cinquantacinque da poco.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, albero, pianta, cielo, erba, spazio all'aperto e natura

Contrariamente a quanto mi era stato prospettato, che non si trattasse di una semplice passeggiata lo intuisco quando, arrivati alla pozza del Berluzzi, un'ampia vasca naturale in cui il fiume si raccoglie per poi riversarsi a valle in uno scenario da canyon, luogo prediletto dai pescatori di trote, Bruno ci fa sapere che lui e Franco ritorneranno indietro ché non se la sentono di seguirci.

 

L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto, acqua e natura

Istintivamente punto lo sguardo sull'enorme parete di roccia che si innalza davanti a noi e sugli enormi massi che invadono il letto del fiume, ostruendone in parte il cammino. Ci toccherà camminarci sopra e saltare dall'uno all'altro per arrivare al Ponte della Prata. Uno sforzo e un rischio notevoli che forse non si addicono a un gruppo di sessantenni come noi, seppure tutti ancora in una condizione fisica più che dignitosa.

L'immagine può contenere: pianta, spazio all'aperto, natura e acqua

Dopo aver salutato Franco e Bruno, ci incamminiamo in quello scenario cinematografico che mi ricorda tanto il Signore Degli Anelli, con pareti rocciose che si elevano maestose al cielo nella perpetua penombra della fitta boscaglia e alberi che si piegano su di noi come se si inchinassero in segno di riverenza al fiume.

L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto, natura e acqua

Di tanto in tanto il grido di un uccello rompe il silenzio: non mi stupirei se all'improvviso tra i cespugli  apparisse uno gnomo, un elfo o una fata...

Molte rocce affioranti dall'acqua sono schizzate di bianco come se si trattasse di pittura: "Sono gli escrementi dei rapaci che vengono qui ad abbeverarsi dopo il pasto", mi spiega Lorenzo. A confermarlo è la carogna di una talpa riversa sulla sponda poco sopra di noi.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

 

Man mano che scendiamo verso valle, il percorso diventa sempre più impegnativo, obbligandoci a veri e propri equilibrismi tra alberi e rocce per passare da una sponda all'altra. Il fiume sfila veloce sotto di noi incuneandosi in ogni spiraglio, intonando una straordinaria melodia amplificata dal silenzio in cui siamo immersi .

L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto, natura e acqua

Mentre balziamo sulle rocce, Paolo indica le ampie chiazze  rosse che si riflettono da sotto l'acqua facendola sembra sangue: "E' ferro", spiega, spostando lo sguardo su delle pietre asciutte ricoperte da un manto rossastro. Mi racconta che all'epoca dei longobardi a Raggiolo c'erano tante miniere di ferro, alcune rimaste in vita fino a molti anni fa, di cui tuttora si serba il ricordo nel nome del luogo ove sorgevano.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, acqua e cibo

Notando la mia incertezza nel muovermi sull'acciottolato umido, mi ammonisce a non mettere i piedi sulle pietre bagnate o ricoperte di muschio perché rischierei di scivolare. In effetti basta poggiare il piede su un masso umido e l'equilibrio diventa subito precario. Avendo calzato le scarpe da running, la suola di gomma aumenta notevolmente il rischio di scivolare. Divarico le gambe per cercare di non perdere l'equilibrio e vado avanti.

Tra di noi il più agile è Adelio, che è anche il più anziano: salta da una roccia all'altra come un capriolo. Guardarlo muoversi con tale facilità su quel mosaico sconnesso di rocce non penseresti che abbia settant'uno anni... Va avanti e indietro come un ragazzino per individuare la strada migliore da seguire.

L'immagine può contenere: albero, pianta, spazio all'aperto, natura e acquaAdelio Gambini

Strada è un eufemismo! L'unica "strada" che converrebbe prendere per non rischiare di farsi male sarebbe quella del fiume: immergersi nell'acqua e proseguire tra i flutti fino a quando la "strada" non diventi percorribile. Pare che da ragazzi facessero così...

Per quanto mi riguarda provo a stare dietro ad Adelio, gli altri si attardano per scattare foto o ammirare il panorama circostante.

Osservando un enorme masso riverso nell'acqua, Adelio mi spiega che, come tanti altri, fu trascinato lì dall'alluvione del 58. All'epoca lui aveva nove anni: "per giorni venne giù tanta acqua da far temere che Dio avesse inviato in terra un nuovo diluvio!"

L'immagine può contenere: una o più persone, spazio all'aperto e natura

 

Riprendiamo il cammino. Impreco contro me stesso per essermi portato il bastone. La sua presenza, rivelatasi fondamentale durante l'ascensione al Pratomagno, ora risulta un impedimento. Più volte faccio il pensiero di liberarmene. Mi trattengo, non sapendo cosa mi aspetta più avanti.

L'immagine può contenere: pianta, spazio all'aperto, natura e acqua

Anche Paolo e Lorenzo mostrano un'agilità non comune nel saltare sulle pietre. Entrambi coltivano la passione per il tracking, quindi sono abituati a gestire simili situazioni.

Arriviamo in un punto dove è praticamente impossibile proseguire nell'alveo. L'unica soluzione è salire sul fianco sterrato del bosco, facendo attenzione a non scivolare cadendo di sotto.

Ci arrampichiamo per poi ridiscendere. Adelio scivola di traverso sul terreno sfaldato con un'agilità da fare invidia, lo imito. Arrivo su uno spuntone di roccia. La naturalezza con cui balza sulla roccia sottostante testimonia quanto sia abituato a cose del genere. Mi guardo intorno alla ricerca di un appiglio. Davanti a me un grosso ramo si protende nel vuoto. Penso di afferrarlo per appendermi in modo da calarmi sulla roccia sottostante. Non appena lo agguanto, cede. Casco sul fondo senza alcuna conseguenze. Mi rialzo, rassicurando gli altri che va tutto bene.

Proseguiamo il nostro cammino, se si può chiamare cammino quell'inferno di pietre e massi...

L'immagine può contenere: albero, pianta, spazio all'aperto, natura e acqua

Risalendo tra gli alberi, mi benedico per aver tenuto il bastone: quell'appoggio si sta rivelando fondamentale ora che siamo costretti ad avanzare nella vegetazione sovrastante il fiume in quanto nell'alveo è impossibile procedere per via degli enormi massi che lo occupano.

È proprio vero, ogni impedimento è giovamento!

Seppure al Ponte della Prata non manchi molto, la fatica incomincia a farsi sentire.

Quando arriviamo al ponte, Lorenzo è scuro in viso: risalendo verso il ponte è scivolato in acqua.

Paolo ci chiede se volessimo proseguire fin giù al paese. Né Lorenzo né io ce la sentiamo. Anche Arturo preferisce seguirci sul sentiero che conduce a Raggiolo.

Manco a dirlo, Adelio gli farà compagnia!

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, natura e acqua

Mentre rientriamo, ripensando alla mia caduta, non posso fare a meno di riandare con la mente allo sventurato escursionista francese che ha perso la vita poche settimane fa nel parco del Pollino. Quando è caduto nel burrone, era da solo. Chissà, probabilmente se fosse stato in compagnia si sarebbe salvato!

A parte lo spavento per la caduta e un leggero risentimento alla gamba, non rimpiango di aver partecipato all'escursione.

Era quello l'unico modo per vedere posti che diversamente mai avrei potuto ammirare.

Certo la caduta poteva rivelarsi ben più grave, ma, quando si decide di intraprendere un'avventura, bisogna mettere in conto l'imprevisto e cercare di fare di tutto per prevenirlo o limitarne i danni ponendo la massima attenzione a quel che si fa.

Non sapremo mai se il povero escursionista francese l'avesse messo a sua volta in conto. Al di là delle tante, ipotetiche sbavature nei soccorsi, forse intraprendere da solo un'escursione come la sua è stata un'imprudenza...

Per quanto riguarda noi credo di poter affermare, senza rischio di smentita, di aver dimostrato che l'incoscienza non è un elemento puramente anagrafico. Anche a sessant'anni si può essere incoscienti come dei ragazzini. Ma solo così puoi vivere qualcosa di unico, di irripetibile.

L'importante è poterlo poi raccontare con il sorriso sulle labbra. Significa che all'incoscienza hai saputo dosare la giusta dose di buonsenso!

 

 

 
 
 

IL LIBRO: “RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA”

Post n°2028 pubblicato il 16 Agosto 2019 da kayfakayfa
 

raggiolocopertina

In vendita su Amazon

"Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d'arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l'estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all'aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell'adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell'amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l'impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l'assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all'epoca in cui loro erano piccoli."

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell'esclusiva lista dei borghi più belli d'Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell'animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all'uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un'oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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ESCURSIONE IN NOTTURNA DA RAGGIOLO AL PRATOMAGNO: LA VOCE DELLE EMOZIONI

Post n°2027 pubblicato il 12 Agosto 2019 da kayfakayfa
 

 

Di seguito la versione integrale dell'articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

 

Fino e l'altro ieri la prima e unica volta che da Raggiolo ero salito al Pratomagno a piedi fu nel 2001. Allora l'appuntamento in piazza fu alle 7 del mattino.

Se non ricordo male impiegammo più di tre ore per raggiungere la Croce posta in cima a 1570 m di altezza. Un'ascesa di mille metri che culminò con una gustosa grigliata di carni e salsicce sui barbecue del rifugio. Mia moglie e i miei figli mi raggiunsero in auto insieme ai familiari degli altri escursionisti.

Per anni mi ero ripromesso di ripetere quell'esperienza. Tuttavia una serie di eventi, pigrizia inclusa, mi avevano sempre indotto a rimandarla.

Quest'anno, pochi giorni dopo esserci stabiliti a Raggiolo, con mia moglie decidemmo di fare un picnic al Pratomagno. Una volta arrivati con l'auto nei pressi del rifugio, ci incamminammo a piedi sul sentiero che per un chilometro taglia i campi fino alla Croce.

Convinta di non farcela, a metà percorso mia moglie disse di avviarmi, che mi avrebbe aspettato sul prato. Conoscendola, non obiettai. Giunto in cima, dopo circa una ventina di minuti, la sentii chiamarmi chiedendo da dove si salisse.

È indescrivibile la gioia che le si dipinse in viso quando, affacciandosi dalla ringhiera che cinge la Croce, ammirò l'immensità del panorama estendersi all'orizzonte.

"Che meraviglia..." sussurrò.

A seguito di quella piacevole esperienza, sapendo che da sette anni in paese organizzano una scalata in notturna al Pratomagno, mi ripromisi che quest'anno ci avrei partecipato.

Data fissata, 11 agosto!

Il raduno in piazza è alle 1.30 di notte. Decido di cenare presto per andare a letto alle nove in modo da dormire 2/3 ore. Per rischiare di non svegliarmi all'ora stabilita, attivo la sveglia. Mi alzerò in contemporaneo con il trillo.

In piazza davanti all'ingresso della chiesa si raduna un gruppo di venticinque persone senza distinzioni di età, si va dai ventenni ai sessantenni. A guidarci saranno Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti e Massimo Ristori. Alcuni di noi hanno sulla fronte una torcia elettrica per rischiarare la salita.

Prima di muoverci facciamo la foto di gruppo. Nonostante l'ammonimento di Paolo di non chiacchierare mentre attraversiamo il paese per non disturbare chi dorme, nelle nostre vene scorre tanta di quell'adrenalina che è impossibile non fare qualche battuta a voce alta. Come poi sapremo al rientro, le nostre voci sveglieranno più di un raggiolato.

Non appena ci lasciamo alle spalle le luci di Raggiolo e imbocchiamo la strada sterrata che conduce al bivio con il sentiero del CAI, accendiamo le torce. D'incanto le tenebre vengono trafitte da tanti fasci luminosi. Le guide si sono divise rispettivamente in testa, al centro e in coda al gruppo in maniera da assicurarsi che nessuno resti dietro.

Spediti ci inoltriamo nelle tenebre, scrutandoci intorno per individuare eventuali presenze animali tra i cespugli. Cammino affiancando Lorenzo, il capocordata, rischiarando con la torcia che ho sulla fronte la strada davanti a noi. Mentre avanziamo, intravedo in un cespuglio due piccoli riflessi che subito spariscono: gli occhi di un animale riverberati dalla torcia.

Mentre ci inerpichiamo, ogni tanto mi volto dietro per controllare che gli altri ci seguano. Ho la sensazione che il gruppo si stia sfilacciando. La conferma arriva dai messaggi via radio tra Lorenzo e Massimo che lo esorta a rallentare.

Dopo due ore di cammino, giungiamo davanti a un cumulo di pietre sormontato da una croce con su scritto "AL PORO MONDO". Lorenzo ci invita a raccogliere un sasso e gettarlo sul mucchio. Paolo ci spiega che quella sorta di lapide fu apposta lì molto tempo fa in ricordo di un poveraccio detto Mondo, probabilmente il diminutivo di Sigismondo, morto a causa di un fulmine.

Terminato il racconto, riprendiamo il cammino, fermandoci poco più avanti per rifocillarci. Apro lo zaino e prendo il panino che mi ero portato da casa insieme a un tramezzino e a delle barrette di cioccolata di cui una l'ho condivisa con qualche escursionista mentre salivamo. Anche gli altri ne approfittano per ristorarsi.

Non pensavo che alle tre e mezza di notte si potesse avere così tanta fame. Chiaro sintomo della fatica che stiamo affrontando nel salire.

La pausa dura un quarto d'ora. La voce di Paolo ci esorta a rimetterci in cammino. Prima di infilarmi lo zaino in spalla, traggo il giubbino e lo indosso: seppure sono sudato, il fresco si fa sentire.

Riprendiamo la scalata con l'obiettivo di giungere alla Pozza Nera prima delle cinque in modo da riposarci sui prati per poi affrontare gli ultimi tre chilometri che conducono alla Croce.

Mentre proseguiamo, la strada incomincia a dissolversi nel buio: devo cambiare le pile alla torcia.

Il silenzio che ci avvolge è surreale. A romperlo è il volo di un uccello che si libra dai rami spaventato dal nostro sopravvenire.

Dal walkie talkie di Lorenzo sopraggiunge la voce metallica di Massimo: chiede di fermarci ad aspettarli, una signora è in difficoltà. Lorenzo gli risponde che siamo quasi giunti alla Pozza Nera, li aspetteremo lì.

All'improvviso il sentiero si biforca in un bivio. Dopo un attimo di indecisione, Lorenzo svolta a sinistra. Lasciamo lo sterrato e iniziamo ad avanzare su un manto di foglie secche. Il silenzio della notte è rotto dal calpestio dei nostri passi su quel tappeto naturale.

Pochi metri e Lorenzo capisce di aver sbagliato strada. Non è preoccupato, siamo in prossimità della meta. Poco dopo ci troviamo al cospetto della staccionata che delimita i Prati!

Mentre noi escursionisti ci sediamo sull'erba per riposarci e cambiarci le magliette, Lorenzo torna indietro per accertarsi che gli altri non abbiano problemi.

Dopo essermi cambiato, mi stendo sul prato e fisso il firmamento sopra di me. Con lo sguardo individuo la cintura di Orione. Lorenzo e gli altri ci raggiungono. Gli chiedo notizie della signora: ha avuto grosse difficoltà alle gambe, ma si è ripresa.

Dopo essersi cambiato si siede sull'erba, prende lo smartphone e attiva l'applicazione che gli consente di individuare la posizione delle stelle nel cielo.

Lo spettacolo di pois luminosi che bucano la notte è di una bellezza straordinaria che solo in montagna si può godere. Sembra di toccare il cielo con un dito. Allungo idealmente la mano verso le stelle e mi diverto a unirle l'una con l'altra con la punta del dito disegnando immaginarie figure, come si fa con i puntini numerati dei giochi enigmistici. Restiamo sdraiati a chiacchierare sul prato per una mezz'ora. Il sonno mi coglie all'improvviso. Faccio fatica a tenere gli occhi aperti. A ridestarmi dal torpore è la voce di Paolo: ci sollecita a muoverci per raggiungere la croce adorna di luci in lontananza se vogliamo vedere l'alba.

Rimettiamo gli zaini in spalla e ci incamminiamo sul sentiero che si distende in un continuo saliscendi disseminato da larghe chiazze di sterco delle bianche vacche dormienti sull'erba poco distanti da noi. Qualcuno gli si avvicina con l'intento di scattare una foto disturbandone il sonno. Infastidita, una mucca si alza in tutta la sua imponenza. Meglio allontanarci, non si sa mai...

Ancora qualche centinaio di metri e raggiungeremo la Croce. A est in lontananza il cielo colora di rosa la cresta dell'Appennino tosco/emiliano.

Affrettiamo il passo per raggiungere la Croce.

Quando arriviamo in prossimità della cima, i prati sono disseminati di gente che ha trascorso la notte in tenda o nei sacchi a pelo. Qualcuno si aggira tra la folla offrendo caffè caldo e dolci artigianali. Lorenzo e io ne approfittiamo per mangiare un pezzo di torta

Da un fuoristrada della comunità montana scendono i musicisti che suoneranno in onore della Croce: oggi è la sua festa. A dire il vero la si sarebbe dovuta festeggiare il 28 luglio, ma il maltempo costrinse gli organizzatori a posticipare la data.

Arrivati ai piedi della Croce, con Lorenzo ci facciamo un selfie. Quindi a nostra volta volgiamo lo sguardo all'orizzonte per ammirare l'incanto dell'alba.

Un vento leggero ravviva l'aria. Chi ce l'ha si alza il cappuccio sul capo.

Lo spettacolo di colori e luci che si offre ai nostri sguardi è pura magia. Il confine tra cielo e terra, tracciato all'orizzonte dal profilo dell'Appennino, è un esplosione di lucei arancione frammista all'azzurro del cielo che rischiara sempre più man mano che il sole si alza. Una macchia arancione si allarga oltre i monti quasi fosse il bagliore di un'esplosione atomica. Per fortuna è solo l'incedere prepotente della vita che torna a occupare il proprio trono regale, strappandolo alle tenebre. Rapiti restiamo a osservare i riverberi di luce saettare al di là dei monti, rischiarando lo scenario sottostante man mano che l'astro di luce si inerpica su nel cielo. La vita torna ad affacciarsi nel mondo in tutto il suo splendore!

Lorenzo dà un'occhiata all'orologio, mi fa cenno che s'è fatto tardi.

Ci avviamo sul sentiero che conduce al rifugio da dove imboccheremo la strada del ritorno. Dei nostri non c'è traccia. Lorenzo si mette in contatto telefonico con Paolo per sapere dove si trovano: sono alla Croce ad assistere al concerto. Ci diamo appuntamento lì al rifugio.

Nell'attesa ci stendiamo al sole su un quadrato d'erba. Mi distendo utilizzando lo zaino a mo' di cuscino. Se non fosse per Lorenzo che mi avverte dell'arrivo del gruppo, me ne resterei a dormire.

Fatta colazione dall'ambulante che vende caffè e brioche, ci incamminiamo verso casa.

Il gruppo s'è dimezzato. La metà tornerà a Raggiolo facendosi dare un passaggio da parenti e amici giunti in auto.

Prima di incamminarci nella boscaglia, Paolo spiega che all'andata abbiamo "seguito" il corso del Barbozzaia, ora invece scenderemo dal versante del Teggina, i due fiume che scorrono ai lati del paese. In seguito, riferendosi al periglioso sentiero cosparso di pietre e massi che ci obbligano a continui equilibrismi per non inciampare, Paolo ci spiegherà che anticamente i contadini nei loro spostamenti montani, per tracciare la via più comoda, si facevano precedere da un mulo, animale che per istinto è in grado di individuare il percorso meno disagiato. Ascoltandolo mi sovviene l'immagine degli alpini e dei loro muli durante la Prima guerra Mondiale.

Dopo circa un chilometro arriviamo a Casa Buite, un rifugio usato in passato dai pastori durante la transumanza. Tuttora è utilizzato da qualche boscaiolo o cacciatore, come svelano gli oggetti di epoca moderna posti sul mobiletto all'ingresso e i letti allestiti sul pavimento nell'altra stanza.

La discesa, lunga quasi dieci chilometri, mette a dura prova ginocchia e piedi. Le scarpe si inzaccherano guadando i rigagnoli che si frappongono al nostro incedere.

Lorenzo allunga il passo, deve rientrare a casa prima delle dieci.

Finalmente alle dieci in punto anche noi arriviamo in paese. Ci salutiamo orgogliosi, complimentandoci l'uno con l'altro per l'avventura condivisa.

Mentre attraverso il centro storico, più di un raggiolato mi saluta chiedendomi come è andata.

"E stata dura, ma ne è valsa la pena!" sorrido, stringendogli calorosamente la mano.

Avviandomi verso casa, non posso fare a meno di pensare che l'esperienza appena vissuta è l'ennesima metafora esistenziale attraverso cui la vita comunica all'uomo che per arrivare in alto occorrono sacrifici e perseveranza. E che più in alto si arriva, più probabile è il rischio di farsi male quando si scende!

La Croce è lassù, avvolta nel silenzio e nell'immensità del cielo. Sta a noi decidere se vale la pena raggiungerla!

 
 
 

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