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Natale


Libero s’era svegliato col respiro mozzato, trafelato, spaventato. La sveglia sul comodino segnava con cifre rosse divise da due punti intermittenti le 05:45 a.m. Decisamente troppo presto. Le finestre erano ancora appoggiate ad un muro impenetrabile di buio e i vetri riflettevano la sua faccia sconvolta illuminata dalla abatjour e i ciuffi elettrizzati dei suoi capelli che andavano un po’ per fatti loro. Aveva un peso sul petto. Un peso che gli impediva il respiro e che l’aveva tirato fuori dalle coperte a quell’ora antelucana. Forse era stato “u’ munacidd”. Ma che ci faceva quel dispettoso folletto gravinese vestito da monaco, tutto nero, col volto nascosto sotto un cappuccio a punta? Forse era emigrato anche lui? Forse non c’erano più bambini da spaventare, cavalli a cui intrecciare le cole e il crine, giù nel suo profondo sud? Libero andava ponendosi questi frivoli interrogativi tipici di una mente ancora mezza assopita, mentre pian piano riaffiorava alla memoria il sogno della notte appena conclusa. Era sulla giostrina girevole del bosco Difesa Grande. Era con suo nonno e altri suoi amichetti d’infanzia e giravano a velocità sempre crescente sulla giostra, uno di fronte all’altro, spingendosi con le braccia e ridendo come pazzi. Tutto il bosco roteava così forte che le immagini andavano sempre più diventando in discriminabili e tutt’intorno divenne presto un cilindro di un verde con varie sfumature e gradazioni. La giostrina si staccò dal prato e, sempre roteando vorticosamente, prese il volo. I suoi amichetti e lui stesso furono scaraventati in direzioni diverse mentre il nonno, dal basso guardava a bocca aperta la scena. Libero cadde in un posto lontano lontano, una radura del bosco probabilmente e, assunta la posizione del quattro di bastoni, cominciò a sentire un peso sul petto che gli impediva di chiamare suo nonno per chiedere aiuto. Poi si svegliò. “Che cazzo mi sono fumato ieri sera?!”, Libero si chiese con una faccia interrogativa e perplessa, si passò la mano sul viso per schiarire la vista e si tirò giù dal letto. Era sabato e doveva andare a comprare qualcosa per la festa di fine anno della sua azienda. L’anno precedente l’aveva aggirata fingendosi malato ma quest’anno non poteva saltarla di nuovo. Già tutti in ufficio lo guardavano strano perché non aveva rapporti amichevoli con nessuno, stava sempre sulle sue e andava a mangiare quasi sempre da solo. Da quando Marianna era uscita dalla sua vita i colleghi avevano notato comportamenti molto più strani del solito. Libero per un po’ aveva finto portando la sua fedina per mesi, aveva glissato l’argomento coi pochi che la conoscevano e a Natale si era dato per malato perché avrebbe dovuto portarla con se alla festa. Libero non sapeva perché aveva fatto quella cosa. Aveva finto di essere ancora con la sua compagna, si era tenuto tutto dentro compresso e aveva mantenuto una finta e apparente calma mentre in realtà scivolava piano piano in una stretta e scura strada laterale senza uscita. Forse non voleva impazzire, forse aveva paura di ritrovarsi solo, scaraventato in quella fredda Milano chissà in qual punto, con la il cuore schiacciato nel petto e nemmeno la forza di chiedere aiuto. Era un pomeriggio d’ottobre quando iniziò la fine, l’aria era ancora molto mite, il sole caldo e gli alberi ancora tutti verdi… Si sciacquò la faccia dopo aver pisciato, mise a fuoco al sua faccia nello specchio dello specchiò appoggiandosi con una mano alle piastrelle fredde, assunse una espressione un po’ schifata e s’andò a preparare un caffé mentre ripeteva tra se “Il Natale viene ogni anno per ricordarmi che sono solo…bleah!” Quel gusto amaro in bocca che sa di sconfitta gli impastava la lingua. Due passi nel freddo e un po’ di shopping in corso Buenos Aires l’avrebbero tirato su. “Farò un figurone alla festa…devo essere elegantissimo….” E queste parole nella testa di Libero suonavano come un miracolo.