Diario dal Kosovo

Quarto articolo sul "Nostro Giornale"


La visita alla scuola di Kabash   Nelle ultime due settimane ho avuto varie esperienze interessanti, ma, questa volta, vorrei concentrarmi solo su una in particolare. In questo modo spero di riuscire a dare un quadro scarno ma chiaro della situazione in cui si trovano a vivere e a studiare moltissimi bambini e giovani kosovari. Lo scopo di questo articolo non è quello di creare mera compassione e commiserazione per le persone meno fortunate di noi; è piuttosto un invito a riflettere sulle disuguaglianze che esistono, per cercare di capirne le cause e le possibili soluzioni.   Io lavoro al Centro Don Bosco di Pristina, una scuola professionale che, grazie alle donazioni di diverse organizzazioni italiane e straniere, sta crescendo come un centro moderno e al passo coi tempi: abbiamo a disposizione tre aule computer, televisori, registratori, proiettori, ecc. Questo consente di offrire un’educazione tecnica che dovrebbe permettere ai nostri allievi di trovare un lavoro nel più breve tempo possibile. Ci sono, è vero, ancora varie difficoltà legate al completamento dell’edificio della scuola, all’attivazione di nuovi corsi e ai finanziamenti futuri, però siamo sicuramente una realtà in ascesa.    Nel resto del Kosovo, a parte pochi casi isolati, la situazione del sistema educativo è ben diversa e ne ho avuta una prova evidente qualche giorno fa, visitando la scuola di Kabash, un paesino di 3000 abitanti a sud di Pristina. Insieme a Riccardo, a Marco (un altro volontario italiano) e a Margareta (la traduttrice della scuola) ho osservato un mondo distante anni luce dal Don Bosco, a partire dalle strutture a disposizione degli studenti. L’edificio della scuola è vecchio e sporco; al primo piano mancano due finestre. Anche l’interno non è dei più accoglienti; i corridoi sono gelidi, i mobili hanno un aspetto antico. Veniamo accolti dal Direttore della scuola, un signore sui 60 anni dall’aria gentile, che ci fa fare una visita. Entriamo nelle classi e rimango veramente sorpreso: per terra, vicino all’ingresso, ci sono tre o quattro ceppi che servono ad alimentare la stufa a legna che scalda la classe. I termosifoni semplicemente non esistono. Dato che la temperatura esterna è sicuramente sotto lo zero, in classe non si superano i 12-14 gradi. I sorrisi dei bambini, che ci accolgono festosi, riscaldano ben più della stufa e quando faccio loro una foto si mettono in posa tutti contenti.   Più tardi, nell’ufficio del direttore (poco più caldo delle aule), parliamo con calma: il direttore ci spiega che gli alunni delle nove classi (in Kosovo si ha una divisione diversa degli anni scolastici: la scuola elementare e quella media sono fuse insieme in un ciclo di 9 anni) sono molti e le aule troppo poche. Per questo motivo sono costretti a fare un doppio turno: nove classi al mattino e nove al pomeriggio. Il Ministero per l’Educazione non ha soldi e dà alla scuola solo 150 € all’anno per coprire le spese, cifra che non permette certo spese folli.   La scuola di Kabash è gemellata da circa un anno con una scuola elementare di Roma. Questo gemellaggio, coordinato dalla mia organizzazione (il VIS), prevede uno scambio di lettere, foto, musica tra i bambini delle due classi. Per aiutare la scuola kosovara, sono stati raccolti dei fondi da parte dei bambini romani, e noi li consegniamo al direttore. Lui ci ringrazia calorosamente e ci offre un rachi (una tipo di grappa kosovara) per brindare al gemellaggio. Dopo pochi minuti si replica con un secondo rachi per brindare al mio ruolo di nuovo coordinatore locale del gemellaggio. Mi brucia la gola, ma sono contento di avere questo incarico, perché spero di riuscire a far sviluppare ancora di più questo rapporto – anche se solo a distanza – tra le due scuole. Infatti, è bello sapere che bambini di due stati diversi con due standard di vita completamente differenti possono comunicare tra loro ad uno livello egualitario, prendendo coscienza delle evidenti differenze, ma superandole in un dialogo possibile. In questo modo i “ricchi” bambini italiani e i “poveri” kosovari sono semplicemente bambini, che scambiano le loro esperienze e si aiutano con i mezzi a disposizione. Non serve l’elemosina per superare la povertà e per fare del bene; serve la volontà seria di capire il “diverso”, di confrontarsi e di aiutare con sincerità. Sono infatti convinto che i soldi da soli, senza questo tipo di impegno duraturo che completa i benefici materiali a breve termine, sicuramente non bastano, e, forse, non servono neanche…