LA DESTRA CALOLZIO

A PROPOSITO DI TIBET


Ritengo sia giunto il momento di spendere qualche parola per chiarire e cercare di capire insieme alcune cose della storia di questo paese, di 1,2 milioni di kmq., abitato da circa 6 milioni di abitanti, rimanendo estranei a questioni prettamente politiche o religiose, attenendoci possibilmente ai dati di fatto. So come sia difficile affrontare un discorso in merito al Tibet; una questione davvero delicata, proprio in un momento in cui l’attenzione nei suoi confronti è all’apice, grazie alla vetrina della XXIX Olimpiadi di Pechino. Certamente una questione spinosa, con la protesta Pro Tibet, Free Tibet,etc., fra l’altro ad opera di qualche sparuto gruppo di agguerriti contestatori, pronta a catturare l’attenzione dei media, giornali, televisioni, internet (dove viene comunque posta in termini più oggettivi), destinata, tuttavia, a ritornare nell’oblio, con il finire della manifestazione olimpica, visto anche lo scatenarsi della crisi fra Georgia ed Ossezia. Noto altresì come si siano stranamente persi di vista i problemi della Birmania, delle Farc del Venezuela, dopo la liberazione della Betancourt (e gli altri rimasti in ostaggio?), o del Darfour, tanto per citare le tematiche che ci hanno angosciato negli ultimi mesi; e ce ne sarebbero a bizzeffe. Ma adesso, per i media, è il momento del Tibet! Mi sembra di notare, tuttavia, come molti tendano a parlare o dissertare sulla questione tibetana, senza un minimo di cognizione di causa, senza una minima cultura storica di base, che sarebbero importanti per capire qualcosa di più di quel lontano paese. E sì che non ci vorrebbe molto per documentarsi, e non soltanto in merito agli ultimi 60 anni ma, soprattutto, per quelli dei periodi precedenti.       È anche vero che l’opinione pubblica tende sempre a considerare la storia per quello che potrebbe essere e non per quello che è stata; per quello che c’è e non per quello che c’era; a come si sta e non a come si stava. Se da una parte è anche giusto guardare avanti e non accontentarsi mai, perché, come ebbe a dire qualcuno “se l’uomo si accontentava era ancora all’età della pietra”, è anche giusto, però, fare il raffronto fra le epoche passate e il presente, avendo in mano dati oggettivi, presi da fonti attendibili, e non tendenziosi o distorti o falsati, utili soltanto per distrarre l’opinione pubblica verso interessi di parte.Conclusione: dati oggettivi = giudizi obbiettivi. Questo è comunque un’equazione che sfugge sempre e da sempre al cittadino medio e, diciamolo pure, un po’ ignorantello. Come il tedioso problema del confronto fra passato e presente, che ha coinvolto anche il nostro paese con la questione del fascismo, giudicato a posteriori una catastrofe, senza peritarsi di cosa ci fosse prima in Italia, di come si vivesse prima e che tipo di società ci fosse prima, quando il livello sociale, industriale  era ancora di tipo feudale. Il fascismo condusse il nostro paese fra gli stati moderni dell’epoca, riuscendo spesso a sopravvanzarli nella scienza, tecnologia, sviluppo industriale e altro ancora. È anche vero che poi vanificò tutto con la II guerra mondiale. Errore imperdonabile, certamente, ma questo è un altro discorso. Ormai le basi di una Nazione moderna erano tracciate e l’Italia, grazie a molti aiuti, nel dopoguerra potè risorgere meglio di prima (fino ad un certo periodo ndr). Per giudicare il fascismo, come ebbe a ricordare Montanelli, bisognava quindi rifarsi a quello che l’Italia era prima della sua venuta, e quello che sarebbe diventata in mano ai comunisti, non rifarsi a posteriori dopo la sua caduta. Stesso discorso per Cuba. La giovane popolazione non può capire quello che succedeva sotto la dominazione del dittatore Battista, prima della rivoluzione castrista, che soltanto dopo instaurò un nefasto regime comunista, come mi confidarono molti anziani, in un mio viaggio socio-culturale sull’isola di un paio di mesi, intrapreso ormai alcuni anni fa.Le giovani generazioni guardano all’esterno, si nutrono del futile e del voluttuario, vogliono dare sfogo al puro materialismo e non gliene frega niente di quello che c’è stato prima e di chi fosse la causa di tutto il disastro che c’era. Le cose avrebbero comunque dovuto migliorare anche laggiù, ma sono passati dieci anni, e non è cambiato granché, anche se rimane pur sempre un comunismo da Carabi. Per ciò che riguarda il Tibet, è tendenza comune  quella di cadere nello stesso errore. Ci si rivolge all’attenzione, di che cosa? Qual è il problema del popolo tibetano coi cinesi? Quello che ci è dato a vedere è una continua protesta da parte dei monaci buddisti con in testa il Dalai Lama, e neppure sempre. Nelle piazze, nelle strade si vedono soltanto monaci. Per quel che mi risulta, dalle notizie di prima mano (ho un parente, amante delle montagne dell’Himalya, fra cui l’Everest, che vive parte della sua vita da quelle parti) la popolazione tibetana non sembra ferocemente contraria al governo cinese; ma non lo è neppure appassionatamente: si fanno gli affari loro e non appaiono così insoddisfatti, come vogliono far credere i monaci. Si tratta di pareri personali e di sensazioni raccolte nel vivere quotidiano. Può darsi che non sia così. Cito da un rapporto di fcasari:    Fino al 1959, quando il Dalai Lama andò in esilio, le leggi e l’economia tibetana erano nelle mani dell’oligarchia religiosa e delle autorità militari, tutti gli altri dovevano mettersi al loro servizio. La classe media era composta da non più di diecimila persone, quasi tutti commercianti. Altri 800.000 - su una popolazione totale di 1.250.000 - per la maggior parte erano vincolati alla terra e ricevevano una piccola parcella fondiaria che permetteva loro di sopravvivere ma non potevano spostarsi da un luogo all’altro senza il permesso delle autorità militari. Qualsiasi attività intraprendessero a parte il lavoro, sposarsi, avere figli, organizzare feste, ecc. richiedeva il pagamento di una tassa. Anche i mendicanti erano soggetti a tassazione. Chi non aveva denaro per pagare le tasse ne chiedeva in prestito ai monasteri che pretendevano però un interesse del 50%.  Nel 1951, quando arrivarono i cinesi, l’aspettativa di vita di un tibetano non superava i 35 anni di età, non esistevano né ospedali né acquedotti e i bambini non avevano diritto all’istruzione. Anna Strong, giornalista americana e buona conoscitrice del Tibet, aveva avuto modo di osservare durante i suoi soggiorni che la conoscenza era da sempre una prerogativa dei monaci, che la consideravano un fine per aumentare la loro influenza e ricchezza. Furono i cinesi a rompere il monopolio dei monasteri estendendo l’educazione a tutto il popolo tibetano oltre che a costruire ospedali ed acquedotti.  Perso il monopolio della conoscenza, le autorità religiose temevano che le politiche ugualitarie di Mao Tse Tung avrebbero prima o poi compromesso anche tutti gli altri privilegi di cui avevano sempre goduto prima dell’arrivo dei cinesi. Per tentare di bloccare la loro avanzata, il Dalai Lama accettò l’aiuto della CIA e prima di fuggire diede il suo appoggio incondizionato al programma di addestramento di gruppi di guerriglieri che avrebbero avuto il compito di rendere la vita difficile ai maoisti. Pare che al dipartimento della Difesa americana non siano rimasti molto soddisfatti dei risultati, ma abbiano deciso di concedere ugualmente un vitalizio di due milioni di dollari l’anno ai tibetani in esilio. Con il trascorrere degli anni, il rapporto tra il Dalai Lama e Washington si è intensificato. George W. Bush non ha mai fatto mancare il suo aiuto agli esiliati. I monaci fuggiti dal Tibet che hanno chiesto asilo politico in California ricevono un vitalizio di 700 dollari al mese dal governo americano, hanno diritto a cure mediche gratuite e ad un appartamento arredato di tutto punto. Non pagano luce e telefono, hanno libero accesso alla rete e possono protestare contro il consumismo senza paura di incorrere in sanzioni. I molti occidentali che in questi giorni si dicono indignati per la repressione in atto in Tibet dovrebbero però ricordare che esiste pur sempre un popolo tibetano che non ha nulla a che fare con la classe religiosa e non si sente rappresentato dal Dalai Lama.  Un popolo composto soprattutto da lavoratori privi di tutela, da persone che oggi si trovano a combattere con malattie respiratorie dovute all’inquinamento, disoccupati che non riescono a trovare una nuova occupazione, ecc. Una situazione, ahinoi, assai preoccupante per un paese che i media continuano a descrivere come unico depositario della trascendenza spirituale. A tutto ciò bisogna aggiungere la minaccia di una privatizzazione della sanità che toglierebbe agli indigenti, compresi quelli di etnia cinese, l’accesso ai farmaci e alle terapie.  Fino ad un recente passato, fra gli abitanti del Tibet, il cui fondo culturale remoto è essenzialmente patriarcale era diffusa la diandria. Era costume corrente che le donne sposassero due uomini, di soliti fratelli o comunque parenti. Il Governo cinese, a partire dalla Rivoluzione Culturale ha cercato di distruggere i simboli tradizionali della cultura originale tibetana demolendo monasteri, incarcerando monaci e limitando o, addirittura, proibendo (per i funzionari pubblici, le guide turistiche ed altri mestieri) di professare la loro religione e operando vandalismi in alcuni posti sacri ai tibetani. Tuttavia sono stati preservati e parzialmente ristrutturati alcuni palazzi per incrementare il turismo, soprattutto interno. Ultimo ma non da ultimo, le lotte fra diverse fazioni buddiste rischiano di trasformarsi in guerra civile. La Cina ha sicuramente fatto molti errori e oggi non rappresenta più quel paradiso ugualitario in cui molti speravano, ma chi vuole veramente sostenere il Tibet dovrebbe forse smettere di immaginare la sua realtà come un film. A meno che non voglia fare un ulteriore affronto al popolo tibetano offrendogli come unica alternativa la scelta tra libero mercato e ritorno al feudalesimo.
 Questi sono i fatti, la storia e la realtà del Tibet. Le supposizioni e le suggestive trasposizioni della storia a proprio piacimento le lasciamo ai sognatori. Lungi da me l’idea di voler prendere le parti del “povero” governo socialista cinese, e non credo di poter essere tacciato di filo comunismo per questo, mi sono deciso a discutere del Tibet per onore di verità, in quanto leggo e vedo troppe inesattezze e distorsioni della realtà, che pungolano il mio spirito di giustizia.       In risposta ai media occidentali, è stato, comunque, creato il sito www.anti-cnn.com, che raccoglie un elenco di immagini di schermate della CNN qualificati come falsità: a sostegno di tale tesi sono evidenziati diversi elementi, soprattutto che le violenze mostrate sarebbero avvenute in Nepal o India (a giudicare dalle divise e dalla fisionomia dei poliziotti), ma verrebbero attribuite al Tibet dai giornalisti della CNN. Le stesse immagini sono diffuse da numerose televisioni occidentali e parimenti spacciate per autentiche.       Quello che devo ancora capire è che interesse abbiano gli americani in Tibet? A parte la posizione strategica a vantaggio della la Cina…e scusate se è poco!