LA DESTRA CALOLZIO

VIVA L'ITALIA!


Era l’imbrunire di un giorno d’autunno e il sole che tramontava dietro i ruderi del Palatino filtrava i suoi raggi lunghi attraverso i vetri coperti di polvere di una finestra davanti a cui c’eravamo seduti. La madre di quel compagno d’arme, una donna sui cinquant’anni, già vedova, era rimasta completamente sola, essendo stati i suoi due ragazzi uccisi nei giorni di sangue. Uno, fucilato nell’eccidio di Rovetta, l’altro impiccato con il filo spinato, come la sua voce atona mormorò, in una località delle Langhe. Quei miei giovani commilitoni, comandati da un sottotenente di ventidue anni, molti dei quali convalescenti da ferite e malattie, rimasti isolati di presidio al passo della Presolana, alla notizia della fine della RSI e della morte di Mussolini, su pressioni del parroco e di altri maggiorenti del paese, s’erano arresi al locale CLN e, ormai a guerra finita, avevano consegnato le armi, come disposto dai bandi affissi dalle nuove autorità.  Il giorno successivo, una formazione partigiana comunista era scesa in paese dai monti e, impostasi con la forza delle armi al CLN, aveva rotto i patti e deciso di fucilare tutti quei militi inermi. Furono portati davanti al muro del cimitero, fu fatta loro scavare la fossa e vennero fucilati cinque per volta.  Ognuna di quelle cinquine, cadendo sotto le raffiche, gridava: “Viva l’Italia!”. Un’altra cinquina veniva prelevata dal gruppo in attesa, la facevano schierare davanti ai corpi ancora scalcianti di quelli già abbattuti e nuovamente, quando partiva la raffica, quei “figli di stronza”, come venivano insultati, gridavano il nome della madre: “Viva l’Italia”[1].  Per otto volte, come le donne del paese, terrorizzate chiuse nelle loro case, con le orecchie tese a quegli spari e quelle grida, raccontarono alle madri di quei martiri, alcuni anni dopo, quando si recarono lassù a riesumare i resti dei figli. Per otto volte, udirono le voci di quei ragazzi gridare. “Viva l’Italia!”[2].[1]  Fra gli uccisi c’erano anche due coppie di fratelli: Randi Giuseppe di 18 anni e Mario di 16; Fontana  Antonio di  20 e Vincenzo di 18. Banzi Carlo la vittima più giovane: 15 anni. Testimonianze raccolte nel racconto Il passo dello squadrone, 12 marzo 1952 di C.Mazzantini.[2] «Che a più di 50 anni di distanza da quei massacri, ci sia qualcuno che non trovi un solo moto di pietà per chi è caduto di fronte ai mitra impugnati da una “fazione” della Resistenza. Ma rivendichi la macelleria come discriminante positiva e legittimante dell’antifascismo, è cosa davvero raccapricciante», Giampiero M. in un articolo de "L’Indipendente" di alcuni anni fa.