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Castelli di Rabbia

Post n°287 pubblicato il 26 Novembre 2008 da laelia75
 


E pur tuttavia nessuno poteva realmente dimenticare ciò che tutti sapevano: e cioè tutta una miriade di piccoli fatti, e sfumature, e visibili concomitanze che gettavano una luce indubbiamente differente su quell'assodato e insondato fenomeno che erano i viaggi del signor Rail. Una miriade di piccoli fatti, e sfumature, e visibili coincidenze che neppure più ci si dava pena di citare da quando, come mille rigoli in un unico lago, si erano dispersi nella limpida verità di un pomeriggio di gennaio: quando il signor Rail, tornando da uno dei suoi viaggi, non tornò da solo, ma arrivò con Mormy, e guardando Jun negli occhi le disse semplicemente - posando una mano sulla spalla del ragazzino - proprio mentre il ragazzino fissava il volto di Jun e la sua bellezza - disse

   - Si chiama Mormy ed è mio figlio.
C'era, sopra, il logoro cielo di gennaio. E intorno una manciata di servi. Tutti abbassarono istintivamente lo sguardo verso terra. Solo Jun non lo fece. Guardava la pelle lucida del ragazzino, pelle color sabbia, pelle bruciata dal sole, ma una volta per tutte da un sole di mille anni fa.
E il suo primo pensiero fu
   "Quella puttana era una negra".
La vedeva, quella donna che da qualche parte del mondo aveva stretto tra le gambe il signor Rail, chissà se per mestiere o per piacere, ma più probabilmente per mestiere. Guardava il ragazzino, i suoi occhi, le sue labbra, i suoi denti, e se la vedeva sempre più distintamente - così distintamente che il suo secondo e limpido e fulminante pensiero fu
   "Quella puttana era bellissima"
Due pensieri non riempirono che un attimo. E fu un attimo tutto ciò che quel minimo universo di persone, ritagliato via dalla più generale galassia della vita, e piegato su se stesso dall'emozione di un apparente scandalo - e fu un attimo tutto ciò che quel minimo universo di persone concesse al silenzio. Perché poi, subito, filtrò la sua voce, attraverso lo smarrimento di ognuno, fino alle orecchie di tutti.
   - Ciao Mormy. Io mi chiamo Jun e non sono tua madre. E non lo sarò mai.
Con dolcezza, però. Questo lo possono confermare tutti. Lo disse con dolcezza. Poteva dirlo con malvagità infinita e invece lo disse con dolcezza. Bisognava immaginarselo detto con dolcezza. "Ciao Mormy. Io mi chiamo Jun e non sono tua madre. E non lo sarò mai".
Quella sera si mise a piovere che sembrava un castigo. E tirò avanti tutta la notte con meravigliosa ferocia. "Una pisciata alla grande" come diceva Ticktel, che sapeva di teologia perché aveva fatto il cuoco in un seminario, così almeno diceva lui, era una prigione dicevano gli altri, stupidi è la stessa cosa diceva lui. Nella sua camera Mormy se ne stava con le coperte tirate fin sopra la testa aspettando tuoni che non arrivavano mai. Aveva otto anni e non sapeva bene cosa gli stava succedendo. Però aveva stampate negli occhi due immagini: il volto di Jun, il più bello che avesse mai visto, e la tavola apparecchiatra giù, in sala da pranzo. I tre candelieri, la luce, il collo stretto delle bottiglie sfaccettate come diamanti, le salviette con misteriose lettere ricamate sopra, il fumo che saliva dalla zuppiera bianca, il bordo dorato dei piatti, la frutta tutta lucida posata su grandi foglie in una coppiera d'argento. Tutte queste cose e il volto di Jun. Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l'istanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata. Se le sarebbe portate dietro per sempre. Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l'anima addormentata e ti semina dentro un'immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quand'è troppo tardi. E già sei, per sempre, un esule: a migliaia di chilometri da quell'immagine, da quel suono, da quell'odore.
Alla deriva.


Due stanze più in là se ne stava Jun, in piedi, con il naso schiacciato sui vetri, a guardare la gran pisciata. E lì rimase fino a che non sentì le braccia del signor Rail intorno ai fianchi, e poi le sue mani che la giravano dolcemente, i suoi occhi che la guardavano stranamente seri e infine la sua voce che era bassa e segreta.
   - Jun, se c'è qualcosa che vuoi chiedermi fallo adesso.
Jun cominciò a sciogliergli il foulard rosso che teneva intorno al collo, e poi gli aprì la giacca e uno a uno i bottoni del gilet scuro, iniziando dal più basso e poi venendo su, lentamente, fino a quello più alto che seppur rimasto ormai solo a difendere l'indifendibile pur tuttavia resistette un istante, giusto un istante, prima di cedere, in silenzio, proprio mentre il signor Rail si chinava verso il volto di Jun per dire - ma era quasi un pregare
   - Ascoltami, Jun... guardami e chiedimi quello che vuoi...
Ma Jun non disse nulla. Semplicemente, senza che un solo angolo del suo volto si muovesse, e assolutamente in silenzio, iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all'orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù ai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta. Così piangeva, Jun. E non smise mai, nemmeno per un attimo, mentre le sue mani spogliavano il signor Rail, e nemmeno dopo, a vederlo nudo sotto di sé e a baciarlo ovunque, non smise mai, continuò a sciogliere il grumo della propria tristezza in quelle lacrime immobili e silenziose - non ci sono alcrime più belle - mentre stringeva tra le mani il sesso del signor Rail e lentamente passava le labbra su quella pelle liscia e incredibile - non c'erano labbra più belle - e piangeva, in quel suo modo invincibile, quando aprì le gambe e in un istante, un po' con rabbia, prese il sesso del signor Rail dentro di sé, e dunque, in certo modo, tutto il signor Rail dentro di sé, e puntando le braccia sul letto, guardandolo dall'alto il volto dell'uomo che era andato dall'altra parte del mondo a scopare una donna bellissima e negra, a scoparla con così appassionata esattezza da lasciarle un bambino nel ventre, guardando quel volto che la guardava prese a rigirare dentro di sé la vinta resistenza che era il sesso del signor Rail, a rigirarlo e domarlo perdutamente, perché entrasse ovunque, dentro di lei, e ritmicamente scivolasse nella follia, mai smettendo di piangere - se quello si può chiamare semplicemente piangere - eppure con sottile e sempre maggiore violenza, e furore forse, mentre il signor Rail le piantava le mani nei fianchi, nell'inutile e falso tentativo di fermare quella donna che si era presa ormai il suo cazzo e con movimenti ciechi ormai gli aveva strappato dalla mente tutto ciò che non era l'elementare pretesa di godere ancora, e ancora di più. E non smise di piangere - e di tacere - di piangere e di tacere, nemmeno quando lo vide, l'uomo che era sotto di lei, chiudere gli occhi e non veder più niente, e lo sentì, l'uomo che aveva dentro, venire tra le sue cosce piantandole istericamente il cazzo nelle viscere in quella specie di percossa intima e indecifrabile che lei aveva imparato ad amare come nessun altro dolore.
Solo dopo - dopo - mentre il signor Rail la guardava nella penombra e accarezzandola ripassava il proprio stupore, Jun disse
   - Ti prego, non dirlo a nessuno.
   - Non posso, Jun. Mormy è mio figlio, voglio che cresca qui, insieme a noi. E tutti lo devono sapere.
Jun stava lì, con la testa sprofondata nel cuscino e gli occhi chiusi.
   - Ti prego, non dirlo a nessuno che ho pianto.



  Tratto da "Castelli di Rabbia" di Alessandro Baricco

 
 
 
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