Il lago bianco

Helga 03. Spostare mobili


Passò un’altra settimana, o poco più. Un lunedì mattina arriva una telefonata di Helga. Mi chiedeva se potevo aiutarla a spostare alcuni mobili del suo studio, a casa sua. Un divano, la scrivania e forse anche la libreria. “Beh - dissi -, perché non ti fai aiutare da tuo marito?” “Perché lui, che è architetto e che ha arredato tutta la casa, non è d’accordo”. Avevo capito. “Per cui, se vieni oggi stesso per mezzogiorno ti offro qualcosa da mangiare e nel pomeriggio mi aiuti. Lui oggi e domani non c’è, è via per lavoro, così quando ritorna si trova di fronte al fatto compiuto. Capito?” Sì sì, avevo capito. Appena avevo sentito la sua voce al telefono già era iniziata l’agitazione; ora sospettavo sì qualche stratagemma, però lei proprio non mi lasciava intuire niente. Anzi, poco dopo aggiunge: “Guarda che il pranzetto è l’unica ricompensa che avrò per te”. L’unica. Va bene. Almeno, pensai, avrò modo di rivederla. Arrivai a casa sua per il pranzo. Insalata e qualche salume e formaggio. E birra. “Ti piace la birra?”, mi chiese. “Sì, e anche le fragole”, dissi io. “Ah sì - disse lei con la faccia furbetta -, e che cosa hanno in comune la birra e le fragole?” Stavo per rispondere in tema ma lei mi bloccò: “Oggi spostiamo i mobili e basta. Non voglio lasciare tracce”. Cara amica, quella donna così ambigua mi stava stremando. Si divertiva. Certo. Aveva lei il gioco in mano, come si dice. Ma la sua compagnia era già di per sé così dolce che mi accontentavo di guardarla come si muoveva, come preparava il cibo, come versava da bere, come teneva in bocca la sigaretta, come si piegava a buttare cose nella spazzatura. E come si lavava le mani per poi asciugarle sulla mia fronte e sulle mie guance: “Sei calduccio, lo so, ti chiedo scusa, ma da me hai già avuto molto, no?”. “Molto sì, ma non tutto”. “Tutto non lo avrai mai. Sono una moglie fedele io. E non dire più una parola”. Più o meno è questo che ci dicemmo. A dire il vero io buttai lì qualche insistenza, ma lei mi rispondeva con sorrisi fra il sarcasmo e la compassione. E sempre a dire il vero, mentre era girata a lavare i due piatti su cui avevamo pranzato (“Poco perché poi c’è da faticare”), le ho pure accarezzato i fianchi e una natica. “Bravo, palpami il culo così almeno un po’ ti tranquillizzi”. Ma poi dal culo la mia mano scese fin dove finiva la gonna e poi ancora sotto la gonna per risalire sulla coscia, nel tentativo di sentire il calore della sua pelle. Ma lei si scostò e sì, mi diede uno schiaffo. Con la mano inguantata e piena di sapone. Che figura. Le ho chiesto scusa e mi sono rassegnato. Seguì un quarto d’ora di silenzio. Io riuscivo solo a fumare. Una sigaretta. Due sigarette. Lei mise tutto a posto in cucina. Ogni tanto andava in un’altra stanza ma ritornava subito. Io ero come un cagnetto che aspetta un cenno dal padrone. E il cenno arrivò. Con queste parole. “E’ colpa mia Luc, è chiaro che tu sei venuto qui con quell’idea. Ed è chiaro che non mi sai dare ascolto quando ti dico che non si fa niente. Tu ci sei rimasto male, anche per lo schiaffo, e io mi sento una stronza”. “Non dire così...”. “Va bene. Niente. Dai, rimandiamo tutto. Fra una settimana Gerard deve andare via di nuovo per due giorni. Se ti va ti chiamo, oppure chiedo ad altri”. “No, dai, vengo volentieri ad aiutarti. Ho capito”. “Va bene, ti richiamo”. “Ci conto. Starò buono e sarà il mio modo per chiederti scusa per aver...”. “Basta, basta, basta. Le mie scuse sono queste”. Fu un bacio sulle labbra, ma con la punta della sua lingua appena dentro la bocca a toccare la mia. Poi stop. E così me ne andai.