Il lago bianco

Helga 04. Mistura indiana, bosco e muschio


Ora non ricordo quanti giorni passarono, più d’una settimana, più di dieci. So e ricordo che Helga mi telefonò poco dopo le sette del mattino, tanto che il mio coabitante tedesco si arrabbiò. Mi disse che il marito era appena andato via per altri due giorni, e che quindi si poteva fare quello spostamento di mobili. E mi pregò di essere lì da lei presto, già verso le dieci. Non potevo che dirle di sì. Avevo dormito solo quattro ore quella notte, ma non volevo rompere del tutto quella stramba relazione. Anche la semplice amicizia mi stava bene. Però pensai anche che era un po’ stronza. Alle dieci e qualche minuto ero lì. “Grazie per la puntualità”, mi disse facendomi entrare. Sorpresa: Helga era vestita con una tuta da ginnastica leggera un po’ vecchiotta. Aveva scarpe di pezza. Per la prima volta non la vedevo truccata. Forse non voleva svegliare i miei sensi. Forse era semplicemente in tenuta da lavoro. I miei sensi erano comunque svegli, o meglio si svegliarono subito quando solo le osservai le labbra mentre mi parlava. Non potevo non pensare che quelle labbra e quella bocca qualche settimana prima mi avevano dato uno dei più intensi godimenti fino allora provati. Va bene, va bene. Ora ero lì come maschio per aiutarla a spostare un po’ di mobili. “Ma perché vuoi spostarli? Penso che tuo marito abbia ragione, stanno bene così”. “Non stanno bene. E lo so io perché”. Così mi disse di aiutarla a spostare prima la scrivania, poi delle piante, poi un pezzo di libreria e qui la cosa durò di più perché Helga mi ha fatto togliere e mettere in ordine tutti i libri e tutte le carte che c’erano in quella libreria. E c’erano pure i tappeti da spostare e un sacco di altre cose. Poi finalmente quello che doveva essere il mobile che a spostarlo cambiava tutto, secondo lei: un grande divano. Mi disse di mettermi da un lato. E poi: “Prendi lì, sposta di qua, alza ancora, ora sposta dall’altra parte, sì sì alza, così, ora abbassa questo lato...”. Tac, il divano si era aperto come un librone e ora sembrava un grande letto. “E questo che cos’è?”, chiesi io. “Beh, è un divano che diventa un letto. Voilà! E’ il letto per gli ospiti”. E così dicendo mi venne incontro, mi prese per un braccio e mi portò fuori dalla stanza. Mi portò davanti alla porta di un bagno. Mi fece entrare. “E questo è il bagno per gli ospiti”. Andò verso un armadietto e tirò fuori un grande asciugamano. “E questo è uno degli asciugamani per gli ospiti”. “Ma è grande, è enorme...”. “Sì, come lo vuoi, microscopico? Ti sto invitando a farti una doccia. Lì. Sciampo e sapone li trovi dentro il box, che è grande e comodo”. Ero un po’ disorientato. “Vai. Io ripasso fra qualche minuto per vedere se hai bisogno di qualcosa”. Uscì. Io mi spogliai e iniziai a lavarmi. Dopo quasi cinque minuti sento che si apre la porta del bagno. E poi sento e devo aprire la porta del box della doccia. Helga era lì, nuda, davanti a me, nuovamente sorridente come il sole, era la prima volta che le vedevo i seni, piccoli ma ben disegnati. In mano aveva una spugna marina e una boccetta con dentro un sapone liquido. “Senti che profumo. E’ una mistura indiana”. Entrò e iniziò a lavarsi con me. Inzuppò la spugna del sapone e iniziò a strofinarmi a partire dalla schiena. Mi insaponò e massaggiò tutto, con la spugna e con le mani, sempre stando in piedi, un po’ per lavarmi bene come un bambino, un po’ per il suo e mio piacere. Insaponò anche il mio pene, ritto come una torre e pronto a schizzare come un limone spremuto. E lei stava attenta a mantenerlo così teso e gonfio. Quando finì mi passò la spugna e chiese a me di fare la stessa cosa, precisando, come le altre volte, di non provare a penetrarla. E allora anche io la strofinai e massaggiai per il suo e per il mio piacere, lungo tutto il corpo, dal fondo dei piedi al collo, soffermandomi proprio dove lei sentiva più piacere. Ma non era solo quello lo scopo della sua visita. Quando riprese lei la spugna, vi mise dentro il liquido di un’altra boccetta che non avevo visto. Me la fece odorare. Un profumo di bosco e muschio, ricordo. Con la spugna così inzuppata andò dritta nel mio ano, e pulì e lavò con grande cura. E prendendo la tanta schiuma che aveva prodotto, infilò in quel mio buco poco esplorato il dito, e lo dimenò e girò dentro ripetutamente, come a cercare ogni suo angolo. “Ti fa male o ti piace?”, chiese. Non sapevo che rispondere, feci un qualche mugugno. “Non lo faccio né per farti piacere né per sodomizzarti. Solo perchè voi uomini lì non vi lavate mai bene”. Quando finì, si pulì con cura il dito. E passandomi la spugna mi chiese di fare a lei la stessa cosa: “Così saremo tutti e due candidi...”. Le chiesi se voleva piegare la schiena. Lei capì e lo fece. In quella posizione il suo culo risultava più tondo e armonico, e il mio lavaggio era di fatto una piccola sodomia. Anche esplicita, dentro e fuori, e quando era dentro a girare per ogni angolo, come aveva fatto lei con me, solo che io in quel modo mimavo e sfogavo una penetrazione che era ormai una tortura trattenere. Mi trattenni. Però fu lei a pregarmi di continuare ancora a lavarla, o meglio a massaggiarle l’ano. C’era elettricità in quel box doccia. Ma anche nel bagno, quando uscimmo ad asciugarci, in fretta e soprattutto i capelli, perchè il divano diventato letto ci aspettava.