Quotidianamente...

Post N° 294


La mia famiglia. Già. Una bella famiglia, indubbiamente, numerosa e rumorosa. Una famiglia presente, una famiglia distante. E la distanza ha il suo peso nella mia vita. Già. Perché a leggere così, sembra che tutto sia perfetto e lo è. Lo è ma non lo è sempre stato. A diciotto anni e qualche briciola di mese, andai a vivere per conto mio, in un minuscolo appartamento. I miei genitori, ovviamente, erano contrari. Semplicemente perché non si faceva, semplicemente perché non stava bene. Punto e non c’era possibilità di discutere. Non si faceva nel loro, nel mio, paese natale; si faceva, invece, in Francia. Era del tutto logico, almeno all’epoca, studiare, lavorare e mantenersi. Era tutto nell’ordine naturale delle cose, almeno in quegli anni. Però, io ero figlia di un altre paese, figlia di altre tradizioni e i miei genitori non si volevano adeguare alle tradizioni del paese ospitante. Punto e a capo, secondo loro. Invece no, invece non potevo accettare un punto e a capo. Dopo lunghe e ininterrotte discussioni a spiegare il mio punto di vista, decisi che avrei fatto di testa mia. Ormai ero adulta e non aveva più senso fare tanto percorso in treno per arrivare da casa al luogo di lavoro. Era semplicemente un fatto di comodità. Sostenevo. Una mattina di novembre, ricordo ancora benissimo il giorno, me ne andai. Così senza nemmeno stare tanto a spiegare. Fu un trauma per i miei genitori. Ma speravo nel loro buon senso. Non ci fu per un po’ di tempo. Si scordarono di avere una figlia. Niente telefonate, niente di niente. Il nulla. Però, avevo i miei fratelli. Con loro ho sempre avuto un ottimo rapporto, mi venivano a trovare nel mio minuscolo appartamento, ci telefonavamo, la vita proseguiva anche se con qualche chilometro di distanza. Lavoravo per mantenermi viva, e non sempre era facile. Il minuscolo appartamento si portava via gran parte dello stipendio e il resto veniva speso in libri. Già. Appena veniva accreditato lo stipendio in banca, mi precipitavo in libreria, arrivavo in ufficio con un borsone enorme e i miei colleghi iniziavano la presa in giro: va bene, il 20 del mese ti invito io a cena. Il 25 puoi passare da noi. Ero la più giovane e, ammetto, avevano uno sguardo da fratelli maggiori nei miei confronti. E’ stato un periodo divertente. Ma mi sto allontanando.Ancora un po’ di tempo e come se fosse la cosa più naturale del mondo, tornai a trovare i miei genitori. Suonai, entrai, cenai. Il giorno dopo ripartii come se niente fosse. Non una parola di biasimo, non una parola di soddisfazione da parte loro. Niente. E questo niente fu molto più doloroso di tutte le parole possibili. Il fine di settimana successivo feci la stessa cosa. E così e ancora così. Il niente era lenito dai miei fratelli, i quali continuavano i giochi, le conversazioni di sempre. Un giorno, il niente si frantumò e diventò parole. Niente biasimo, niente soddisfazione ma solo una presa d’atto, un dato di fatto. Iniziarono, in fondo, giorni più tranquilli, forse quasi sereni. Né mio padre, né mia madre mi chiesero mai dove abitavo, se bastavo a me stessa, niente, ma c’era una parvenza di normalità e, in fondo, andava anche bene così.Sull’orlo dei venti anni, annunciai ai miei genitori che mi sarei trasferita in Italia. Niente. Non dissero assolutamente nulla. Tornai nel mio minuscolo appartamento e non cambiai idea. Mio padre mi chiamò, in ufficio, per raccontarmi la sua visione dell’Italia. Passò in rassegna tutti i luoghi comuni che vigevano in quegli anni. Riagganciò il telefono con il suo solito anatema: “poi, fai come ti pare”. Queste parole, per lui, erano, e sono ancora, il suo modo di lavarsi le mani, il suo punto di non ritorno. Mia madre mi accompagnò alla stazione. Ci siamo abbracciate. E il nulla. Per giorni, per settimane, per mesi. Niente. Telefonate di circostanza. Mai nessuna domanda: stai bene, cosa fai, come ti trovi, come te la cavi. Niente. Avevo, in fondo, fatto come mi pareva.I miei fratelli si facevano sentire, scrivevano, ogni tanto uno di loro veniva a trovarmi. Il rapporto diventava sempre più saldo. I miei genitori sono venuti qualche volta, molto di rado, ma sono venuti. Non criticavano più l’Italia, avevano finito per accettare che il paese non era come veniva descritto in televisione, era un’altra cosa, una miscela di tante cose. Come stai? Come ti trovi? Complimenti, hai imparato la lingua italiana. Niente, queste domande o questi piccoli fatti non venivano chiesti o pronunciati. Niente. Il nulla. Gli anni passano, si cresce, almeno si prova, e, ci si rende conto che non ha senso, che una guerra contro i propri genitori non potrà mai essere vinta. E’ inutile. E’ tempo sprecato, troppe energie bruciate. Non aveva più senso, per me, macerare nei sensi di colpa, non più. Un anno, fine anno, andai a trovare la mia famiglia. Qualche fratello era già sposato, i primi nipotini stavano per nascere. Sono la maggiore di una tribù fatta di maschi. Sono la maggiore e solo nove anni separano me dall’ultimo, dal “piccolo”. Qualche rimprovero volò da uno dei miei fratelli verso i miei genitori e vice-versa. Decisi, quel giorno, che non avrei più litigato con loro, per nessun motivo, che era ora di seppellire l’ascia di guerra e non volevo nemmeno sapere chi era in credito e chi era in debito. Per me, era suonata l’ora della pace. Così, ad oltranza. Non mi interessava più calcolare i torti subiti. Chi aveva avuto e chi aveva dato non aveva più importanza, non per me. Mi avvicinai ai miei genitori, dissi semplicemente che volevo bene a loro, proprio a loro, così come erano e che per me, loro erano perfetti. Mia madre rispose che forse perfetti non erano stati con me. Ho precisato che, invece, andava benissimo, che per me erano perfetti. Ci siamo abbracciati. I miei fratelli rimasero stupiti, la ribelle poneva a terra le armi. Ad un certo punto, si deve fare pace. Per se stessi prima di tutto. Sì, ho fatto pace con i miei genitori per egoismo, lo ammetto. Perché non voglio essere soprafatta dai sensi di colpa che già sono tanti anche per via della distanza. E’ stata una delle mie decisioni più importanti, di quelle che non ho mai rimpianto. Così come non ho mai rimpianto quella mattina di novembre, in cui ho deciso di andare a vivere in un minuscolo appartamento.