Quotidianamente...

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Erano giorni che ci pensavo, ogni sera rientrando a casa, mi dicevo che dovevo fare qualcosa, ma continuavo a rimandare. Quella sera no. Stavo tornando a piedi, quando decisi, finalmente, di provvedere, o quanto meno provare a fare qualcosa. Erano giorni che quel furgone era parcheggiato proprio all’incrocio dello svincolo, impedendo a me, ma anche agli altri, di avere una buona visuale sulla strada. Ogni sera, dovevo inoltrarmi in mezzo alla via principale per verificare se la strada era libera da auto, moto e affini. Quel furgone era lì, parcheggiato, ed era un intralcio alla circolazione. La targa era di una rappresentanza diplomatica, sul marciapiede, di fronte, di ambasciate ce ne sono due. Ogni sera, pensavo che dovevo informarmi per sapere a chi rivolgermi. Quel giorno, rientravo a piedi e ci pensavo. Da lontano vedevo i militari che stazionano di fronte alle due ambasciate e ho riflettuto. Sono qui per la sicurezza dei cittadini e dunque anche per la mia, così ha detto il governo quando ha deciso di mettere i soldati nelle città. Sì, sarà, diceva un’altra voce che era sempre mia, però con quei mitra non sono proprio rassicuranti. Sì, diceva l’altra, però mica ti spareranno, dai, non fare la timida, vai e chiedi. Vai e chiedi? Quella voce la faceva facile. Quando in ufficio non vado in bicicletta, vado a piedi e a quelle presenze in tuta mimetica, mi sono abituata, passando molto vicina a loro, mi sono accorta che sono tutti molto giovani (o io molto vecchia?) e un po’ il disagio è diminuito, però… dai, non ti tirare indietro!, continuava imperterrita la voce. Da lontano, ho iniziato a sorridere come a voler dire: non sono pericolosa, non ho intenzioni bellicose! Il sorriso si allargava sempre di più man mano che mi avvicinavo al soldato. Mi tornarono in mente le parole della canzone di De André “… e mentre gli usi questa premura, quello si volta ti vede ha paura, ed imbracciata l'artiglieria…”, continuavo ad avvicinarmi e a sorridere, poi ho pensato che stavo esagerando con la mia circospezione. Il soldato si è avvicinato, mi ha saluto molto cortesemente ricambiando il mio sorriso e ha chiesto se mi poteva aiutare. Ho risposto di sì.- “A chi appartiene quel furgone, quello parcheggiato all’incrocio?”La risposta è stata immediata: all’ambasciata della Libia. Ho così saputo che non ero la sola a lamentarmi per via di quel parcheggio. L’ambasciata della Libia confina con quella dell’Iran, solo un muro interno le divide.Ho ringraziato il soldato, il quale mi ha confermato che lui e i suoi colleghi non possono intervenire in nessun modo per sbloccare la situazione, ma che la mattina successiva avrei potuto presentare un reclamo presso la rappresentanza libica in Italia. “Non è che poi mi ritrovo deportata in Libia? Forse mi conveniva di più avere a che fare con l’Iran…”, il soldato si è limitato a sorridere e a chiedermi se avevo uno chador a portata di mano. In fondo, era semplice mi sarebbe bastato un foulard. Ho ringraziato nuovamente e me ne sono andata.Il furgone è ancora lì, ovviamente. Per qualche giorno, ho pensato di mandare una e-mail di protesta all’ambasciata libica, oppure di fare una telefonata, ma solo la sera me ne ricordo, quando di nuovo ho il problema della visibilità sul traffico. Questa mattina ho spedito la mail, se non succederà niente passerò alla telefonata.Sul marciapiede, della corsia laterale, in corrispondenza con l’ambasciata dell’Iran, dall’inizio di maggio, sono depositati fiori bianchi in memoria di Delara Darabi.