Lapiazzarossa

La proposta di yunus per il premio nobel


Il Nobel Yunus: sostengo il premio per Ingrid Il «banchiere dei poveri» rilancia la sua sfida per un mondo senza povertà. E in un’intervista a Umberto De Giovannangeli per l’Unità parla anche di Ingrid Betancourt ed esprime la propria adesione alla campagna del nostro giornale per il Nobel per la Pace alla Betancourt. Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace nel 2006, è a Roma per presentare il suo ultimo libro, «Un mondo senza povertà» (Feltrinelli, 2008). Quale significato può assumere l’assegnazione del Nobel per la Pace a Ingrid Betancourt? «È già un grande onore essere nominata, essere candidata al premio Nobel. Anche se poi il premio non viene assegnato alla persona candidata, è comunque una forma di visibilità che le si dà, è portare l’attenzione su un personaggio. L’essere indicata al Nobel è già un importante riconoscimento che Ingrid Betancourt merita». Ingrid Betancourt si è battuta per i diritti di un popolo. E tra questi diritti universali c’è l’affrancamento dalla povertà. «Un mondo senza povertà», è il titolo del suo ultimo libro. Senza povertà: una speranza, un’illusione o è un progetto realizzabile? «È una convinzione. Io sono assolutamente convinto che un mondo senza povertà sia fattibile ed è un obiettivo che può essere realizzato molto presto. Si riallaccia oltretutto a quello che è il primo obiettivo del Millennio. che consiste nel dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015. Se un tale obiettivo è fattibile, è altrettanto fattibile l’assoluta e totale eliminazione della povertà entro lo stesso periodo di tempo di 15 anni». Con «Il banchiere dei poveri» (Feltrinelli 1998) lei ha raccontato la storia straordinaria della fondazione della Grameen Bank (un istituto di credito indipendente che pratica il microcredito senza garanzie e che è diffuso in 57 Paesi) e la nascita del sistema del microcredito. A che punto è questa rivoluzione? «In Bangladesh l’80% delle famiglie povere ha avuto accesso al microcredito. La Grameen Bank da sola ha 7,5 milioni di clienti; altre istituzioni di microcredito hanno una ulteriore clientela di 7,5 milioni di persone, quindi in totale possiamo dire che 15milioni di famiglie sono state raggiunte da questo sistema. In tutto il mondo i dati che ci sono stati comunicati indicano che 130 milioni di famiglie hanno potuto avere accesso al microcredito». Sulla globalizzazione sembra che si siano formate due scuole di pensiero: chi demonizza la globalizzazione, chi invece la esalta acriticamente. Qual è il suo punto di vista? «Il mondo è diventato un “villaggio”. La parola globalizzazione fa riferimento al mondo come villaggio, quindi diversamente da duemila anni fa quando tutto era molto distante, oggi il mondo è molto ravvicinato. In un villaggio non si può dire a un vicino non ho voglia di parlare con te: i bambino giocano assieme, si va a fare la spesa allo stesso mercato, si lavora fianco a fianco...In un tale contesto, oggi non si può dire di essere a favore o contrari alla globalizzazione, nel senso che si tratta di una realtà, che ci piaccia o no, con la quale dobbiamo convivere. Quindi bisogna chiedersi se abbiamo una giusta globalizzazione o se siamo destinati, condannati, a muoverci nella direzione che ci porterà a una globalizzazione sbagliata. Se non abbiamo una immagine in mente di quella che è la giusta globalizzazione finiremo con avere la globalizzazione sbagliata. Nell’ambito del concetto di una giusta globalizzazione, tutti devono trarre vantaggio dalla globalizzazione; quindi dovrebbe essere un sistema di relazioni in cui tutti guadagnano qualcosa, ne traggono beneficio. Non è accettabile una situazione nella quale il Paese potente, la grande compagnia si accaparrano tutto a discapito dei poveri. Ho parlato di un “codice della strada” per la globalizzazione, affinché tutti possano conoscere quelli che sono i limiti, i diritti e gli obblighi. Abbiamo anche bisogno dei cosiddetti “vigili urbani” e di una autorità addetta al “traffico”, in modo tale che questa globalizzazione si possa muovere nella direzione giusta». Lei mette insieme due termini che sembrano antitetici: business e sociale. Come si fa a conciliarli? «Sembra una contraddizione, perché il sistema capitalistico ci ha parlato finora di un unico tipo di impresa, che è l’impresa orientata al profitto. Ciò che io sto cercando di fare è attribuire un nuovo significato alla parola “business”: una impresa volta a fare del bene, ed è questo il significato dell’espressione “social business”, impresa con finalità sociale, proprio per distinguerla dalla tradizionale impresa orientata al profitto. Da una parte c’è l’impresa capitalistica che mira alla massimizzazione del profitto, “tutto deve venire a me”; l’altro tipo di impresa, quella che io propongo, consiste invece nel fare bene il bene per gli altri, e questo è il suo unico obiettivo, quindi “non faccio nulla per me”. Vediamo quindi che abbiamo due tipi di impresa: entrambe possono convivere sullo stesso mercato, perseguendo due tipi di obiettivi diversi. Ciò di cui sono fermamente convinto è che sia giunto il tempo che la nuova idea del business sociale guidi la prossima grande trasformazione del mondo. È tempo che la visione di un mondo in cui la povertà sia solo un ricordo del passato si trasformi in realtà. Vede, nel mio lavoro con la Grameen Bank ho conosciuto bene i più poveri fra i poveri. Da questa esperienza mi viene una fede incrollabile nella creatività degli esseri umani. Nessuno nasce per soffrire le miserie della fame e della povertà e in ogni povero è nascosto un potenziale di successo pari a quello di ogni altro essere umano. È possibile eliminare dal mondo la povertà proprio perché è una condizione innaturale che agli esseri umani può solo essere imposta con la forza». Ciò che lei auspica è anche una «rivoluzione» culturale e una rivolta delle coscienze... «È così. La ragione per cui la povertà non è sconfitta è proprio perché noi accettiamo l’idea che sia inevitabile. Perché se veramente affermassimo con convinzione profonda che la povertà è inaccettabile e incompatibile con la civiltà umana, allora sapremmo bene come creare le istituzioni e compiere le scelte politiche adatte a estirparla dal mondo». Per tornare all’attualità più stretta. Oggi (ieri, ndr.) è iniziato in Giappone il vertice del G8. Il Papa ha lanciato un appello perché i Grandi aiutino i poveri. Ma un’organizzazione come il G8 può davvero aiutare quel business sociale da lei sostenuto? «Il G8 rappresenta tutti i Paesi ricchi del mondo: i leader del G8 non sono semplicemente degli individui, essi rappresentano lei e rappresentano le persone che compongono quegli otto Paesi. Qualsiasi cosa quei leader diranno, lo diranno per conto del popolo che rappresentano. Quando il Papa lancia un appello a questi leader, in realtà lancia un appello ai popoli rappresentati da questi leader». L’ultima domanda è molto personale: i suoi assistenti mi hanno raccontato dei festeggiamenti spontanei che lei ha ricevuto ieri a Roma da tanti membri della comunità del Bangladesh a Roma. Come ci si sente in questo ruolo di «star»? «Devo dire che mi sento molto a mio agio in questo ruolo nella misura in cui sono molto felice che queste persone mi sentano a loro vicino; questa prossimità con la gente è davvero molto, molto importante. E devo dirle che non sono soltanto le persone della comunità del Bangladesh, ma anche persone che appartengono ad altre nazionalità, e non soltanto a Roma, ma anche in altre città e in altri Paesi sempre più mi riconoscono per quello che dico e per ciò che faccio. Sono persone che accolgono con entusiasmo il messaggio che io porto».