LARGU TE LU PALAZZU

“Le ‘uardie”


“Le ‘uardie”
di Luigi PascaliNulla (o quasi) ha a che fare il mestiere di vigile urbano, oggi, con quello dei loro colleghi di trentacinque-quaranta anni fa.Sebbene l’istituzione e il ruolo fondamentalmente sono gli stessi, è mutata profondamente la figura della ’Uardia. Oggi naturalmente il lavoro si è evoluto, i compiti sul territorio sono tanti e i più disparati, che ovviamente non si limitano alla mera “contravenzione”.Da inguaribile romantico, quando vedo una divisa nera con un berretto bianco, non posso fare a meno di pensare all’Ucciu ‘Uardia, allu ’Nzinu Biondinu e allu Toninu Romanu (se dimentico, qualcuno mi perdonerà, ma queste “Uardie” hanno segnato la mia infanzia e qualche “birbonata”).Mi sembra di rivedere i nostri eroi, in sella alle loro fiammanti biciclette te masculu (cioè cu la canna a nnanti) girare per le vie di San Cesario, a controllare soprattutto che i ragazzini non facessero qualche bravata di troppo.Una di quelle famose bravate me la ricorderò per sempre. La Scuola Elementare “M. Saponaro” era stata appena costruita, e noi ragazzi, non avendo spazi per giocare a pallone, se non per strada, avevamo “costruito” un piccolo campetto in terra stumpisciata da noi stessi nel cortile della scuola. Tutti i pomeriggi “zzumpavàmo la ringhiera” per poter inseguire quello che doveva essere un pallone, per poterlo scaraventare al di là della porta costruita rigorosamente “cu ddo’ piezzi te tufu” . Quando qualche compagno più facinoroso (e più ciccione) si stancò di zzumpare pensò bene di “spunnare la ringhiera a càusci” con un doppio risultato: un più facile accesso e costruire delle spade con i fili di ferro divelti dalla recinzione, con le quali “falciavamo” l’erba quando diveniva un po’ più alta.Qualcuno, in verità, aggiungeva a questo “divertimento” quello di prendere a sassi le vetrate della palestra (inutilizzata), rompendo pericolosamente quasi tutti i vetri.Uno di quei pomeriggi assolati, mentre urlavamo in direzione dei compagni intenti a “smarcare” l’avversario, apparvero come dal nulla, sulle biciclette, l’Ucciu e lu ’Nzinu . Fu un attimo, e attraverso le campagne ci dileguammo tutti. Con calma proverbiale, i due “giustizieri” imboccarono la stradina e raggiunsero un paio di noi: ormai non avevamo scampo. Decisi la tattica dell’estraneità, e alla domanda perentoria di chi fossero i ragazzini che erano scappati, risposi con uno spavaldo “E ce sacciu, ieu nun c’era” . Le parole mi furono smorzate sulle labbra da un sonoro “sciacquatienti” e con un “invito” a salire sulla canna della bici, per essere portato in “caserma”. Alla mia espressione di disperazione seguì un deciso “Te sci si’ fiju… poi parlamu cu’ sirda” ma nemmeno l’idea di essere orfano di padre, mi tranquillizzò, poiché l’ira di mia madre, se fosse venuta a conoscenza dei fatti, sarebbe stata comunque terribile.Il tutto si risolse con una “ramanzina” piuttosto energica, ma per un bel po’ non andai a giocare nel campetto della scuola.Oggi, quando vedo i ragazzini scorrazzare in senso vietato o ’mpennare con lo scooter, non posso fare a meno di pensare sorridendo al timore reverenziale che avevamo nei confronti te le “’Uardie” e non nascondo il desiderio che farebbe bene a ritornare… almeno un poco!