LARGU TE LU PALAZZU

A ‘mmera alli monti


A ‘mmera alli monti
Parlare di spazzatura oggi è quanto mai attuale e di moda, ma inevitabilmente drammatico.Tuttavia, vorrei parlarne in modo un poco più romantico, per quanto sia possibile essere romantici parlando di “mmunnizze”!Oggi siamo abituati a vedere enormi camion attrezzati, che triturano la spazzatura, depositandola all’interno di cassoni ermeticamente chiusi; i cassonetti a pedale, le campane di resina per la raccolta del vetro e della carta… e centinaia di sacchetti di plastica (generalmente neri) che custodiscono tutto ciò di cui quotidianamente vogliamo disfarci ma… se facciamo un salto a ritroso di circa quarant’anni, non possiamo non rimpiangere quel periodo, in cui di spazzatura se ne produceva proprio poca, e smaltirla non era un grosso problema.Anche a San Cesario, come in tutti i paesi, c’era un servizio di nettezza urbana, generalmente gestita dal Comune. I dipendenti non erano chiamati “operatori ecologici” ma più romanticamente “spazzini” senza per questo rispettare meno il loro prezioso ruolo.I cassonetti non esistevano, la raccolta avveniva casa per casa, sul cui uscio diligentemente tutte le mattine le brave massaie ponevano “lu sicchiu” con pochi rifiuti, generalmente materiale organico (scorze te petate, scorze te oe, qualche portacallu squajatu, le fronde te le rapacaule, qualche prummitoru ‘nnacetutu). Plastica inesistente, vetro assente, poiché le bottiglie erano rigorosamente riutilizzate. Tutt’al più qualche “buatta te scummari sott’oliu” oppure “qualche scatuletta te tunnu”.Un vecchio, stanco cavallo trainava un carretto con le ruote di gomma e le sponde alte, dipinte di celeste, in cui venivano vuotati “li sicchi” prima di essere riposti accanto alle abitazioni, per poi essere prontamente ritirati in casa.Ricordo perfettamente che la raccolta veniva in qualche modo “annunciata” dal suono squillante di una piccola trombetta di ottone, in cui soffiava di gran lena uno degli amati “spazzini”, probabilmente per allertare qualche ritardataria che subito si affrettava a “cacciare lu sicchiu” talvolta correndo in strada per raggiungere il piccolo “drappello” e farselo “scumbrare”.Pensate che era sufficiente un carretto, per raccogliere i rifiuti di un intero paese!Il carretto e il cavallo erano custoditi nel vecchio “macello comunale”, in Via S. Elia, dove quotidianamente iniziava e terminava la gita per la raccolta.Sicuramente vi starete chiedendo che fine faceva quella spazzatura, dove era ubicata la discarica, dove avveniva “lo smaltimento”.Ebbene, i rifiuti venivano “scaricati” sulla via per Lequile, quella di campagna, esattamente dove ora è ubicato quello che avrebbe dovuto essere il “nuovo mattatoio” (costruito qualche decennio fa, di sana pianta, ma mai andato in funzione).Passando, si potevano “ammirare” quei cumuli di spazzatura che noi bambini chiamavamo “li Monti” e dove spesso ci si dava appuntamento per giocare, o cacciare lucertole con “li cacchi”, una sorta di trappole costruite con gli steli d’erba.Oggi quei “Monti” non esistono più, ci sono “Le Mate”, una vecchia cava che sicuramente rappresenterà una moderna discarica ma anche una fastidiosissima puzza (specie nelle calde notti d’estate, con lo scirocco) se non un pericolo ambientale a ridosso del centro urbano.Tuttavia mi sento di dire che ciascuno di noi dovrebbe puntare meno il dito contro le discariche e dirigerlo un po’ di più verso se stessi… e i propri quotidiani sacchetti “te le mmunnizze”!