Con l'atteggiamento da gestori di bancarelle che è proprio dei distributori di cinema italioti è arrivato questo Mud. Hanno detto: "Oh, ma dato che questo attore secco secco ha preso l'Oscàr per il film sull'aids e a molti è piaciuto pure il telefilm sul detective perché non recuperiamo pure 'sta strunzat?", e così fu. Ora, non è che il film in questione faccia proprio del tutto schifo, qualcosa si salva: l'ambientazione rural, per esempio, che fa tanto cinema indipendente, altro che L.A. o N.Y. Siamo in Arkansas, paludi e pick up a morire, barbe incolte, sudore e accento paesano assai (qua si sta prendendo il vizio della lingua originale). Poi, checché se ne dica, l'attore in oggetto è bravo, pure la maggior parte dei comprimari. Il difetto vero risiede più che altro nel mancato raggiungimento dell'obiettivo: si voleva abbinare la storia country/fluviale con la durata distesa e lo svolgimento placido dei fatti, ottenendo però ridondanza, abbiocchi e domande tipo: "ma questi veramente fanno?". Ma niente è perduto, almeno gli occhi un po' di piacere l'hanno avuto.
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Non ha nessun senso esprimere valutazioni su qualcosa che è storia del cinema. Non che uno non debba avere dei gusti ed esprimere valutazioni ma pure chi ha certi gusti ad un certo punto deve arrendersi all'evidenza e andare a farsi l'aperitivo cool con sottofondo chill out e colletto della polo alzato onde non cacare il cazzo a chi vuol parlare di cose serie in modo serio. Arrendersi, dicevamo, all'evidenza di qualcosa che a buon diritto sta nella storia del cinema mondiale e proprio da lì, dalla storia del cinema, ci guarda e ride beffardamente della fine che abbiamo fatto, ride di noi che, tapini, stiamo lì a dire "sì però" e "no ma" e magari pure "non mi piace il westèrn" con l'accento sull'ultima "e". Infine, come al solito, come nei peggiori film americani, va a finire che per risolvere i problemi devono pensarci gli americani. Sì, i soldi per fare il restauro della trilogia li hanno cacati gli americani, fornendo in omaggio ulteriori buone ragioni per farci vergognare (beninteso, oltre al calcio e oltre Forza Italia). Non resta, infine, che tentare il racconto delle emozioni che si sono provate a vedere (e sentire) in una grande sala semivuota questa pietra miliare: la punta degli stivali di Clint in bocca, gli speroni degli stivali di Ramon negli occhi, l'incedere da venditore di meloni di Chico Brega, il fischio delle pallottole, la risata di Esteban, il sudore. E la musica, che te lo dico a fare. E ce ne sono ancora altri due. Dio o chi per lui ci conservi per arrivare a vedere anche loro.
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Ci sono volte che esci dal cinema e vorresti gridare al mondo "all'anim' e chi t'è stramuort!", proprio come con l'ultimo film di Alice R. |
Il cerchio si chiude: Poliziottesco, Nico Giraldi, Tarantino, Manetti Bros. Con le dovute cautele.Viva il cinema di genere, viva la presa per il culo, viva la camorra e l'Alfa Giulia. Viva le mazzate e le sparatorie, le sgommate e gli inseguimenti. Infine, soprattutto, ora e sempre viva Lollo Lov e le sue cuoricine!
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Bel film, di quelli che ti mettono in pace con il business. Certo, resta la nota amara del doppiaggio ma ormai è come lamentarsi del traffico e degli imbecilli, non se ne esce. |
Per i cultori di un grande regista, anche questa volta Farhadi ci prende e ci sbatte di fronte a grandissimo cinema, classico, senza niente di superfluo, solo dramma e angoscia, cedendo solo talvolta a qualche metafora ancor più travolgente della vicenda che sta raccontando. Capolavoro assoluto, immenso ritrattista della (misera) umanità. |
Ma che bel film! I critici di mestiere direbbero che è un ritratto di quella parte degli States lontana dai riflettori e fuori dalle traiettorie mainstream. Andassero a cacare loro e i ritratti fuori mainstream, questo è un grande film a carattere universale. |
Film interessante e fatto bene. Certo, se poi qualcuno avesse proprio voglia di rompere le palle allora si potrebbe sottolinearne una certa abbondanza di "scrittura", cosa che ne fa un'opera da consigliare ad un pubblico di bocca molto buona. Tale pubblico potrà poi provare forte compiacimento (bagnato con ottimo vino rosso) nello scoprire i riconoscimenti festivalieri che ha ricevuto la sceneggiatura. Ci sono poi quelli che potrebbero definirlo come un film "cerebrale" ma sono sicuramente persone che ridono poco e hanno letto avidamente (in gioventù si fanno tanti errori) le pagine culturali di Repubblica. Dopo le pippe restano i fatti: Joaquin Phoenix è, al solito, mostruosamente bravo (e folle). I luoghi sono perfettamente "contestuali", una Los Angeles futura che poteva essere rappresentata così bene solo da Shanghai. Il tema, infine, stimolante, interessante, logico. La morale è incontestabile: appena potranno, pure i sistemi operativi ci schiferanno.
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Qua bisogna fare tre premesse se no va a finire male: - Questo diario viene redatto al solo scopo di serbare le impressioni (più o meno a caldo) che il cinema (più o meno di prima visione) lascia sui neuroni del suo sempre più anziano e stanco estensore. - L'estensore di cui al punto precedente non possiede la verità, al contrario di tutto il resto dell'umanità. - E' noto che i premi Oscar non qualificano i film più belli dell'universo ma ricordano dell'esistenza di una cosa che si chiama cinema anche a chi normalmente la ignora. Di questo occorre farsene una ragione. A questo punto si può parlare di Gravity, un film che ha vinto un sacco di premi Oscar ma non fa niente. Ci sta Clooney che gironzola nello spazio divertendosi un mondo guidando uno Jetpack (uno zainetto che ti fa zompettare un po' di qua e un po' di là) con la stessa faccia di culo con cui ha trasformato dalla TV una cosa come il caffè in una gioiello da boutique di altissima classe. Ci sta Sandra Bullock che da un giorno all'altro è andata un momento nello spazio ad installare una sorta di modulo HW fuori al telescopio spaziale Hubble. Ci sta poi una tempesta di detriti causata dall'urto tra satelliti che li coglie in pieno e li lascia "a piedi" nello spazio. Ci sta poi che succedono altri fatti un po' così, ma non fa niente. I film ambientati nello spazio ci hanno fatto vedere in passato grandi cose, grandi pippe esistenziali pure. Qua il fatto è stato diverso. 'Sto film mi è piaciuto assai perché la regia mi ha messo appresso agli astronauti (Clooney e Bullock! Astronauti!), mi ha affiancato a loro mentre annaspavano o volteggiavano leggiadri, fluttuavano, si aggrappavano, volavano, non stavano mai fermi, mi ha dato un punto di vista che mi mancava, ho visto cose che non avevo ancora visto fatte così. Non è stata (solo) roba di effetti speciali, è stato qualcosa di più. [Spoiler! Spoiler!] [Spoiler! Spoiler!] [Spoiler! Spoiler!] Infine, pensate quello che volete ma quando una volta a terra i piedi nudi hanno toccano acqua e sabbia è stato quasi commovente. Quasi, però.
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E vediamoci i film che si contendono gli Oscar. Questa qua è la classica prova d'attore, Matthew McConaughey recita in maniera estremamente potente e con tutto il suo corpo. Da solo vale la visione. Il resto? Insomma, la ricostruzione del 1985 è perfetta (a questo servono gli "ammerigani"), così come il sudore, le auto, il Texas, l'Aids, tutto che ti sembra di stare lì. E però non è un gran film, parliamoci chiaro. Si potrebbe stare ore a tracciare piccole sbavature, perché e per-come ma il film rimane nel suo complesso imperfetto, tipo come quando ci si aspetta una grande partita perché ci sono grandi campioni ma poi ne esce un match così così. Secondo me. |
Ecco, è dura ma alla fine la ruota gira e grazie a quel fetente di Procacci può succedere pure che un regista giovane e di gusto quantomeno contemporaneo riesca a fare una commedia divertente e ben confezionata.
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Una platea fragrante di morbido cashmere e dall'età media altina riempie la sala dove si proietta "Il nuovo dei fratelli Cohen" (il titolo non ha mai avuto importanza quando si parla di alcuni registi). In questo caso si tratta pure di uno di quei film che accigliati critici di bocca buona si sono premurati di definire "un'opera minore", "un piccolo film" ma pur sempre "dei fratelli Cohen". Insomma, comincia a far capolino la paura che possa trattarsi di un'altro film "alto", poco digeribile per sventurati europei, come fu "A serious man", alquanto ostico se non si è frequentatori abituali di sinagoghe. Per fortuna di mezzo c'è la musica, quindi il "comprendonio" è, in parte, salvo.
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Signori, giù il cappello! In tre ore veniamo trascinati dal sempre più bravo Di Caprio tra il paradiso e l'inferno degli squali finanziari. Scorsese, finalmente in gran forma, non ha peli sulla macchina da presa e disegna trionfi di droghe, orge e milioni di dollari con grande leggerezza, riuscendo perfettamente a rendere quell'idea di USA come terra promessa per esseri spregiudicati e talvolta vittime di un equilibrio interiore alquanto precario. Merito del buon risultato raggiunto è senza dubbio il fatto di essere un'opera tratta dalla vera storia di un truffatore (tale Belfort), in quanto difficilmente un'opera di sola fantasia avrebbe potuto mostrare tanto sfacelo di umana dignità. Un difetto del film? Il doppiaggio, da veri cani. Non resta che aspettare un'edizione in lingua originale. |
Il convento a noi passa Virzì e ce lo dobbiamo far bastare. Ce lo dobbiamo far bastare se vogliamo vedere un filmetto che provi almeno un po' a leggere il contemporaneo senza andare da un estremo all'altro, dalle puttanate volgari alle megapippe d'autore. La storia è montata con intelligenza e lo spettatore segue i diversi punti di vista sui fatti con partecipazione. Il finale, una volta date tutte le carte in tavola, si presenta come ineluttabile, ma ciò non infastidisce, fa parte anzi della rassegnazione che ci portiamo in tasca, non può che essere così. Nella confusa cagnara che accompagna (anzi, anticipa...) sui giornali l'uscita di ogni film che non sia esplicitamente una stronzata (e che magari abbia una pur sottile vena critica) sono stati percepiti alcuni latrati in difesa della nobile razza brianzola, ingiustamente accusata di essere stata presa di mira come responsabile dello sfascio del paese nullafacente mentre pare che essa sia rimasta l'unica che, indefessa, lavora sodo e paga tasse. |
Woody Allen rispetta per l'ennesima volta la sua legge dell'alternanza tra un film di merda e uno decente. Questo è il turno del buon film. Lo stile è sempre lo stesso e a noi habitué ciò fa tanto piacere: dialoghi estenuanti, balbettii, nevrosi, psicofarmaci, fiumi di alcool, turbe sessuali, tradimenti coniugali, famiglie a pezzi. Non si è fatto mancare nemmeno un po' di critica dei ceti sociali mettendo alla base della storia il confronto tra due sorelle abituate ad ambienti decisamente opposti con relativi usi e costumi, tentativi (falliti) di osmosi, ineluttabilità del destino di ciascuno. Ottimi tutti gli attori, buona questa. Bene Woody, fai un altro film inguardabile, poi ci rivediamo. |
L'estensore di questo diario non è un appassionato di film d'animazione ma questo "L'arte della felicità" merita un grande apprezzamento. Il "cartone animato" (qui siamo dei nostalgici) in questo caso è stato il mezzo per proporre nella maniera più libera e agile possibile una serie di riflessioni su temi sicuramente banali che, in quanto tali, tutti prima o poi devono affrontare, alla "chi siamo" e "dove andiamo", per intenderci. |
Il film non è esattamente un gran ché ma offre alcuni spunti. Tipo che Elio Germano è sempre più bravo e la regia ha saggiamente pensato di fare ampio uso della sua fisicità. Magro, curvo, molto spesso a figura intera... il personaggio di Ernesto Marchetti è davvero ben riuscito e interessante. Offre onestà, innocenza e sincerità a iosa, come quel bravo cristiano che quando lo incontri ti fa sentire quasi in colpa per tutte le volte in cui hai pensato che il mondo fa schifo (poi càpita subito qualcosa che ti riporta coi piedi per terra). Grande Ernesto Marchetti, meriterebbe una serie TV, non si offenda la regia... Il resto è poca roba: infelice la corsa contro il tempo negli anni con un paio di fatti epocali qua e là, poco riuscito anche l'effetto invecchiamento (purtroppo Rambaldi non c'è più). Felicissimo invece Haber, a suo agio nel fare un personaggio che non poco gli si addice. Stimo assai Memphis ma qua non era al meglio. Non da stroncare ma ideale per un sabato piovoso.
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Mi sarei volentieri risparmiato questo film se di mezzo non ci fosse stato Rocco Papaleo, alfiere di quel sud che mi piace, quello non napolicentrico, più intimo, che si respira nelle zone interne o su quelle costiere sconosciute alle orde barbariche pressoché agostane, si dica pure il sud "dell'anima". Papaleo è uno di quelli che non ha perso il suo dialetto nonostante viva a Roma da decenni, è uno che ha in mente i paesaggi, i costumi, le donne anziane e il sole delle sue lucane origini. Qua ha voluto strafare (e forse "dovuto", dato il successo del precedente), il film funziona bene e diverte assai nel primo tempo ma poi pian piano si perde nella troppa carne messa a cuocere tra Sca-marci e Bobulove varie... peccato perché la poesia c'era, io l'ho vista. |
Come se i fratelli Dardenne fossero improvvisamente impazziti e invece delle difficoltà nel sopravvivere in questo mondo infame decidessero di approfondire nelle loro storie questioni sentimentali tra omosessualità e amori non corrisposti. |