LA PORTA

Post n°1 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie
Foto di cattivocomepochi

Grigia e squadrata.

 Un piccolo dissesto geologico

l'ha resa impercettibilmente sghemba,

sulla sinistra. Ciononostante,

con le sue mostre troppo grandi

a insidiare il muro; con la maniglia

di ceramica bianca, autoritaria;

e con l'ottone militaresco,

un po' annerito, della toppa

- un occhio socchiuso

né ammiccante né minaccioso

di coccodrillo sonnacchioso -

appare solida e pedante,

come intransigenti signore

dalle caviglie troppo grosse.

Sui suoi cardini malverniciati

sorprendentemente silenziosi,

l'immutabile telaio

disegna aperture infinite,

offrendo o negando con perfidia

il flusso domestico di voci, di odori, di moti.

Del mondo, il mio mondo,

implacabile regolatrice.

dicembre 2003

 
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ASSORTI

Post n°2 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Dolce amica,
c’è un luogo sulla terra o in cielo
dove i tuoi occhi brillano per me
e il tuo sorriso mi guida nella notte?

C’è un luogo,
dolce amica, sulla terra o in cielo
dove le tue dita intrecciano le mie
nel pallido cammino delle stelle?

Ci sarà pure, dolce amica, un luogo
di terra, di cielo, o forse d’acqua
ove, pacificato, riposerò
lungo le rive del tuo grembo.

E dove veglierò silente e accorto
sulla tua quiete, il tuo respiro,
il sonno.

Poi partirò.
Tu resterai tacita e assorta
scrutando il mare in lontananza.
Il vento riporterà vaghe parole
il buio inghiottirà anche le ombre.




18 settembre 2001

 
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Il treno

Post n°3 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi

Imballato in un treno lumaca
subisco il ritmo quasi binario
di paesaggi indifferenti
scagliati a forza sulla retina .

Complicate essenze,
pensate per un domani
senza fini apparenti;
precarie ombre, come precaria è la vita, tremula.

Nel mio interno fatiscente
– mani pietose sorprese a rassettare -
ho raccolto brandelli di pretesti

 
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IO CI SARO'

Post n°4 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Io ci sarò.
Cercami tra mille volti,
supera siepi
di occhi freddi e mani interessate.
Sarò lì, ad aspettarti,
trepidante e inquieto.
T’apparirò distolto,
ingombro,
indifferente.
Invece ci sarò,
vigile e appassionato.
Se vuoi, mi troverai
con uno sguardo fugace.
Solo respingendoti,
potrò accoglierti nel mio mondo.

 
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ATTESA

Post n°5 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Assoluto è il mistero
Che separa la notte dai tuoi occhi.
Preso da improvviso stupore
Per l’inedita impazienza
Che colgo sul tuo viso,
Getto lo sguardo
Lucido e tremante
Negli abissi luminosi
Della tua profonda essenza.

 
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GESSO

Post n°6 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Dai, fammi posto:
ho fretta di viverti.
Il tempo corre già
così veloce.
Lasciami entrare.
Voglio immergermi
furtivo
nei tuoi occhi grigio-celesti
tra una panchina di marmo
e un albero giapponese.
Nel tuo sorriso un po’ sconnesso
ho lasciato tracce del mio.
Lasciami percorrere
(a ritroso)
quei sentieri felpati
pieni di acqua e muschio,
quelle sobrie attese
e i piccoli addii,
che sanno di gesso,
di treni e di castagne.




5 dicembre 2003

 
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IL MARINAIO

Post n°7 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Il Marinaio


Si alzò per remare più forte
guardando il mare,
la fronte alla tempesta.
Sulle mani dure,
lambite dal pianto
di mille donne belle,
c’è ora solo il segno profondo del canapo
e il sapore amaro della salsedine.
Gli occhi di madreperla,
il cuore è ormai la vela
spiegata contro il vento.
La terra è già un ricordo
Il viso suo l’aurora.
La sua speranza,
fragile di legno e tela,
sorveglia sull’albero maestro
l’avvicendarsi lento e senza fine
di invisibili correnti.

11 dicembre 1988

 
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SER(en)ATA

Post n°8 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

L’ambiente, invero, non è un granché:
ma è pieno di trappole e d’insidie.
Ti ci muovi a tuo agio
nera pantera di jungla. E io, lo so,
non sono Sandokan.
Occorrono pertanto prudenza
e massima accortezza.

Siedo su una sedia lontana,
e ti guardo, amica.
Ti muovi con studiata lentezza.
Regali agli avventori
una dose equanime di sguardi e di sorrisi,
ma senza vera malizia.
I tuoi occhi liquidi
lasciano intuire profondità
e caverne, recessi inaccessibili.
Li vedono anche gli altri,
ripeto a me stesso, senza convinzione:
la composizione chimica del mio cervello
non prevede purtroppo
formule di auto-inganno.

Tu ti culli, fendi leggera
lo spazio fatto di fumo e di frastuono.
Strani animali si aggirano sulle nostre teste.
Preferisco estraniarmi, scendo dal palco.
Da lontano mi godo il primo atto. Applaudo.
Il camerino stasera è chiuso per lavori.
Meglio così: non sopporterei di fare file.

I camerieri servono cibi grassi e senza forma.
Lo fanno apposta, sospetto per un attimo.
E’ la congiura degli opposti:
il fiore risalta meglio sulla roccia.
Rido di gusto pensando ai tuoi elettrodi:
al cervello dovrebbero metterteli.
Giuro a me stesso di non dirtelo.
Mi mordo la lingua, piuttosto.
Ma mi accorgo, dolorante,
che non è la prima volta.
E che non sarà l’ultima.

Strapazzi la rosa
che ti ho regalato.
Deduco: non le piacciono le rose.
Oppure: una forse è troppo poco.
Stasera non accetto altre possibilità.
Adesso la lingua sanguina,
sotto i miei denti.
Attento, mi dico: la fiera
si eccita all’odore del sangue.

Il tempo corre veloce,
svapora l’alcool dai bicchieri,
scivola senza apparenti conseguenze
nella mia mente,
dove si agitano invece perfetti
modelli matematici. Una foto
è una foto è una foto è una foto.
Ma fosti tu a depistarmi.
Scusa, ma dissento: il sorriso
non può eguagliare gli occhi.

Occhi scuri che incrociano i miei:
è un attimo, ma posso
vedere pesci e creature marine
guizzare felici nei tuoi abissi.
Vestito da palombaro,
(e quindi
con tutta la goffaggine del caso),
tante notti in te mi sono immerso,
trasportato dalle tue calde correnti
in un gorgo di dolcezza e di passione.

E questo mi rivela
commosso e divertito,
il segreto che ci lega e, forse, ci divide:
la superficie del mare riflette
la luce del cielo,
mai la sua profondità.

 
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RISVEGLIO

Post n°9 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Si faccia silenzio tutt’intorno. Tacciano i respiri della terra,
smettano i loro canti i passerotti allegri. Entri la mia adorata.
Portatela dentro con delicatezza.
Che nessuno disturbi il suo sonno vigile e accorto.
Si spengano anche le stelle, se occorre. Con un soffio leggero.

Si rimanga pronti, nei paraggi, per il suo tenero risveglio.
Si disponga a cerchio, attorno a lei, l’orchestra:
violini, viole, violoncelli e, dietro, i contrabbassi.
Ma mi raccomando: nessun si muova, fino al mio cenno.

E tu, infine, in languida penombra,
aprirai gli occhi e il sorriso al mio sorriso.
La tua mano cercherà la mia. Io sarò lì, accanto.
Avvertirò con le tue labbra
il profumo acuto del melograno.

Con una mano guiderò l’orchestra: un valzer triste,
poi un tango di passione.
Un ritmo lento che risuona dentro il cuore.
Mi abbraccerai, ti abbraccerò.

Poi lenta e sinuosa mi spingerai dentro di te,
il tuo respiro sarà il mio respiro, in fiore.
I nostri corpi risponderanno trepidi,
perfettamente sincronizzati.

Lo so, mi guarderai, timida e curiosa.
I tuoi occhi scaveranno dentro ai miei,
in cerca di risposte e di abbandono.
Riderai forse di me.
Io sarò lì sodale e grato:
ma sarò altrove.

Sono l’uomo delle montagne e del deserto.
L’uomo che nulla ha da offrire e poco da dividere:
pochi versi sconclusionati,
qualche attimo felice e un po’ precario.
E una sete inestinguibile del tuo tenero sorriso.

 
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TANGO DELLA LONTANANZA

Post n°10 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie
Foto di cattivocomepochi

Ho vagato solo
nel buio dei barrios di Buenos Aires,
cercando negli specchi grigi della notte
un riflesso di te, amica.

In Plaza de Mayo
ho raccolto, serbandole nel petto,
asciutte lacrime di bianche Madri,
flagellate e crocifisse.

In un vortice di mesta ebbrezza,
ho ascoltato
malinconici sospiri di bandoneon,
prodigiosi mantici
di Piazzolla e di Gardel.

Ah, quanto simile a te,
amica mia, questa città,
questo tango leggiadro, triste e senza tempo.
Questa tragedia che danza e che fa male.
E che mi incanta, amica mia,
mentre m’uccide.

 
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A MOSCA!

Post n°11 pubblicato il 06 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Foto di cattivocomepochi

«A Mosca! A Mosca!», imploravano le tre malinconiche sorelle di Cechov. E Mosca ci appare, dopo un trasbordo notturno in un piccolo e scomodo autobus dalle finestre appannate, in tutta la sua contraddittoria grandezza. La piazzaRossa, deserta, a mezzanotte, restaurata di fresco con i suoi improbabili colori: il rosso mattone delle mura, i verdi, i celeste e gli arancioni delle sue cupole laccate, il bianco troppo candido delle sue chiese sormontate da luccicanti berretti stondati. Luci all'idrogeno sapientemente piazzate sottolineano il suo carattere teatrale, artificioso e dunque assolutamente sorprendente. Imbacuccati all'inverosimile, con il vento polare che ti sferza i pochi lembi di pelle rimasti scoperti (le guance, il mento, il lobo delle orecchie), ci muoviamo in questa piazza di cui non riesci a percepire i confini come dei piccoli automi: marionette futuriste dai gesti spezzati che sarebbero piaciuti a Mejerchol'd e a Majakovskij, che cercavano l'attore perfetto, spersonalizzato, senza anima né volontà proprie, completamente docile nella mano del regista. L'homo sovieticus, insomma, avanguardia e metafora della rivoluzione dell'uguaglianza, ma che a me fa venire drammaticamente in mente le lunghe file per il pane e le minacciose quanto inutili parate militari. Il fiume è ghiacciato e la città è piena di neve e vuota di vita. Vado a letto in una stanza calda come una sauna. Scosto la tenda, nessuna scena a colori dietro i vetri: solo palazzi grigi e tutti uguali, una fabbrica in lontananza con la tetra ciminiera che stupra il cielo e lo avvelena. Ho visto tanta povertà, tanta miseria, nelle mie scorribande intorno al mondo: le favelas brasiliane, i tuguri guatemaltechi, le baracche di fango e lamiera dei palestinesi, il cimitero del Cairo trasformato in un verminaio umano. Ma la povertà nel gelo è un'altra cosa: quel freddo aspro implacabile che giorno dopo giorno, ora dopo ora, ti corrode fuori e ti brucia l'anima dentro... E maledico il sonno riparatore che è in ritardo, non arriva e che, ormai ne sono certo, stanotte non arriverà più...

6 febbraio 2005

 
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Quando mi lascerai

Post n°14 pubblicato il 11 Novembre 2005 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Quando mi lascerai,
vorrei morire ai tuoi occhi.
Perché un morto non ti cerca,
non ti consiglia,
non ti parla.
Un morto ti lascia vivere.

Un morto puoi cercarlo,
ma solo nei ricordi.
Non si torna mai, da morti.
Si vive nella nostalgia degli altri.

Voglio vivere da morto,
nella tua nostalgia.
Quando mi lascerai...

 
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Il caso Kaufman

Post n°15 pubblicato il 11 Novembre 2005 da cattivocomepochi

Romanzo a puntate? Per ora pubblico i primi due capitoli... Poi si vedrà...

I.

A quei tempi

                                                Norimberga,1960   

“Se sono pentita?… Francamente, non capisco di che cosa dovrei essere pentita… Le rispondo subito, perché negli anni scorsi ci ho pensato spesso  all’intera faccenda, al caso, come lo chiama lei. Ma non ho mai avuto pentimenti. Però, ecco, sì, questo posso dirlo: umanamente, mi è sempre dispiaciuto  per il vecchio. Era una brava persona, non era uno sporcaccione  o, almeno, prima   non lo era mai stato. Mai una lamentela da parte di una cameriera, di una governante, di una sua commessa… Sa, era ricco e dopo la morte della moglie, si poteva pensare che… Insomma, lei mi capisce, un uomo solo può avere  le sue esigenze.  E, invece, niente di niente: un sospetto, una voce, un sussurro, uno sguardo.  Io me ne sarei accorta subito. E, invece, un giorno arriva quella lì, con quella faccia da santarellina (sono le peggiori). Lo provocava, in continuazione. Figurarsi, un vecchio, a quell’età, dopo tanti anni di vedovanza, con quel po’ po’ di ragazza  bionda, una gattamorta che gli scodinzolava sempre intorno. Che   sfacciata…! E il tono che si dava? Se ci ripenso…. No, dicevo, il vecchio,  mi ha fatto pena, sin dall’inizio. Si capiva che aveva perso la testa. Nel quartiere volevano, sì, vabbé, insomma, volevamo dare una lezione a tutti e due, certo, nessuno poteva pensare che lui sarebbe finito così male: che orrore, la testa. Tante volte l’ho  sognata  di notte, mi vengono i brividi… E’ buio, sono nella mia stanza,  a letto e a un certo punto, insieme a un gran freddo,  compare  la testa: sì, solo la testa, il corpo non c’è, o almeno non si vede e mi chiama: “Eva, Eva”…  Io rispondo: “Testa del signor Leo, cosa vuoi da me?”. E lui, ancora: “Eva, Eva”.  Ma non mi dice altro. Una volta  – parlo sempre del sogno – gli ho detto, a brutto muso: “Ma perché vieni da me e non vai da quel giudice, che il diavolo se lo porti,  mi pare si chiamasse Ratterberg o qualcosa di simile. Ma a me lasciami in pace, che non c’entro”. Credo che abbia capito, perché questo sogno era più frequente  nei primi anni. Ora solo qualche volta, ogni due,  tre anni. Però, qualche volta, torna.  Lei penserà: sono i rimorsi di coscienza. No, non è così o almeno non credo. Di giorno, a freddo, con il ragionamento, ci ho pensato e ripensato e non ho trovato nulla  da rimproverarmi. Ripeto: a noi sembrava giusto dare una lezione di decenza a quei due: la cosa era troppo sfacciata.  Lei non può capire, è troppo giovane: oggi i giovani si baciano per le strade, si danno al libero amore,  fumano la droga e nessuno reagisce.  Sono i tempi, vero?  Ebbene: anche quelli erano i  tempi, quei due erano scandalosi, facevano una cosa disdicevole sotto molti punti di vista.  E, per di più,  era una cosa grave contro la legge. Se erano leggi ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire. Lo diceva sempre anche il signor Leo, la legge è la legge. Oggi c’è la democrazia, sono arrivati i democratici e noi poveracci di conseguenza  siamo diventati  tutti democratici. Ma non lo abbiamo deciso,  lo siamo e basta, sono i tempi.  Ieri era diverso, comandavano i nazisti e tutti erano nazisti, ma per noi non cambiava granché. A quei tempi, quando tutti eravamo nazisti,  dire a uno democratico era un insulto, peggio  che dirgli ladro o mascalzone o figlio di….  Oggi, che tutti sono  democratici,  dire  nazista è diventato peggio che dire assassino. E’ la politica, beato chi la capisce. La povera gente si adatta. Non so se mi spiego: in quegli anni facevo la portiera, mi spezzavo la schiena tutto il santo giorno, su e giù per le scale, buongiorno e buonasera, guadagnavo poco, me lo facevo bastare. Poi è arrivata la guerra, la fame nera, i bombardamenti, gli americani, i russi e la democrazia (ma non per tutti: mia cugina vive a Berlino est e non se la passa affatto bene).  Risultato?  Sono più vecchia, più stanca e  più sola di prima, la pensione non mi basta e per sbarcare il lunario devo lavorare qui fino a tardi e  lavare centinaia e centinaia di boccali di birra. Non mi lamentavo prima, non mi lamento neanche oggi. C’è gente che si lamenta sempre… Io, caro signore,  ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere,  ho  rispettato le leggi. Capirei: se l’avessi fatto per soldi, per interesse, allora sì che sarebbe stato grave. Invece, io da questa storia non ci ho guadagnato nulla, anzi, anche se qualcuno ha avuto il coraggio di insinuare… Ma lasciamo perdere, è acqua passata: delle malelingue ha già fatto giustizia il Padreterno, sono morte tutte. Era una cosa scandalosa, bisognava pure che finisse, tutto il quartiere sapeva. Per noi era, in un certo senso, un dovere, secondo la morale dei tempi… Io, poi, quando mi hanno chiamata – due volte, prima alla polizia, poi in tribunale, se ci ripenso, che paura… –   non ho mai detto niente di falso, di male, non mi sono inventata niente. Sì, è possibile, qualcun altro un po’ di farina  in più dal suo  sacco ce l’ha messa.  Io no: quello che avevo visto, l’ho detto, ma quello che non avevo visto, anche se lo sapevo, non l’ho mica raccontato. Senta, parliamoci chiaro, il signor Leo  non è stato condannato per quello che ho detto io, figuriamoci, lei, la signorina,  era… come si dice?, ah sì, ecco: rea-confessa. Pure il signor Leo, alla fine, confermò tutto. Poveraccio, chi avrebbe mai pensato che sarebbe finito così? Chissà, se lo avessimo saputo prima… Lei ha letto il processo, intendo dire  gli atti? C’è questo Rathenberger, o come cavolo si chiama,  che chiede l’applicazione dell’articolo taluno insieme all’articolo talaltro e che quindi conclude  che ci vuole la pena di morte. Che c’entro io? Che potevo saperne di queste cose di legge?  A me è dispiaciuto, il signor Leo la morte  non se la meritava, era una punizione esagerata. Poi lo sa come è finita?  La sgualdrinella si è fatta solo qualche mese di galera, dove aveva da  mangiare e bere, mentre noi facevamo la fame nera… No, le ripeto: dispiacere sì, ma i  rimorsi no,  sono un'altra cosa. Eppoi, mi dia retta: se non lo facevamo noi, lo avrebbero fatto altri: e noi, allora, cosa avremmo detto alla polizia? Che eravamo diventati ciechi, sordi e perfino tonti? Ma se lo sapevano pure i muri. Che sapevamo e stavamo zitti  e che, quindi, eravamo complici? Lei lo sa  quali rischi potevamo correre? Ci potevano arrestare tutti e a quei tempi mica era come oggi che arrestano un assassino e poi torna subito in libertà dopo due  o tre giorni.   Si avvicini, le voglio raccontare  una cosa. In un palazzo vicino al nostro dove andavo a fare le pulizie, al secondo piano, c’era una famiglia di ebrei, tutte brave persone, tranquille, oneste, marito e moglie,  due figlie. Lui era dottore, medico intendo dire. I pazienti poveri, che non avevano i soldi per pagare, li curava tutti lo stesso, non importa se cristiani o giudei.  Poi arrivarono le leggi e il dottore non poteva più curare i cristiani e  dopo qualche tempo neanche più gli ebrei. Facevano la fame, qualcuno dei vecchi pazienti ogni tanto si ricordava di loro, mandando a suo rischio e pericolo qualche marco o un pezzo di pane o di carne. Poi, un giorno, li hanno presi tutti, li hanno messi su un camion e non sono più tornati. A noi dicevano che li trasferivano all’Est, in uno Stato tutto per loro. A me  non davano nessun fastidio, mi erano perfino simpatici, ma ci dicevano che gli ebrei  avrebbero inquinato la razza, che erano i nemici dei tedeschi, che era per colpa loro che c’era la guerra. E noi ci credevamo.  Dopo ho saputo che sono morti tutti, il dottore, la moglie, anche le bambine, nelle camere a gas, nei forni crematori.  Quello che gli facevano nei campi, io l’ho visto al cinematografo: sa quando fanno quei cinegiornali  prima che inizia il film?  Qualcuno, dietro di  me, diceva  che era un documentario fatto dagli americani e dai comunisti, per infangare l’onore della Germania. Io di politica non mi intendo, ma i  cadaveri li ho visti io, al cinema, con i miei occhi. Ma poi, gli americani non erano contro i comunisti? Che le devo dire?  Oggi, del dottore, della sua famigliola, nessuno si ricorda più. Mentre tutti parlano del signor Leo: ho sentito, addirittura, che vogliono dedicargli una targa, addirittura una  strada, in  centro. Quelli lì, il dottore, erano brave persone, loro non avevano fatto mai nulla contro la legge. Se vuole saperlo, io non sono razzista, non sono mai stata contro gli ebrei, se  si comportano bene… Che le stavo dicendo, ho perso il filo… 

    “Ah, ecco, sì, ma venga più vicino, le confiderò una cosa che ho sempre pensato ma non ho mai detto a nessuno: denuncia o non denuncia, signorina Irene o non signorina Irene, giudice Rothenburger o non giudice Rothenberger (come cavolo si chiama, che il diavolo se lo porti), il signor Leo era ebreo e un ebreo  a quei tempi una brutta fine, prima o poi,  l’avrebbe fatta comunque ”.

 

 

 
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LE SERRE D'INVERNO

Post n°17 pubblicato il 04 Febbraio 2006 da cattivocomepochi
 
Tag: Poesie

Dei cavi marini
mi hanno recato
i tuoi quieti sospiri
in forma di vento.
E, riflesso sull'onda,
il mistero profondo
di vita e di luce
che porti negli occhi.

Lo so, tu  detesti
i fiori recisi.
E questo, lo ammetto
m'aiuta ben poco:
le serre d'inverno
son sempre stipate
con versi adeguati
di rose o di gigli.

Allora mi scuso
se questi sussurri
non hanno la forza
del mare in tempesta,
ma il fascino tenue
di notti di stelle,
di canti soffusi,
di pietra e di piogge.

 
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I nomi del mare

Post n°18 pubblicato il 21 Luglio 2006 da cattivocomepochi
Foto di cattivocomepochi

Marina
Spuma di mare,
Ape regina.

Venisti al mondo:
un nome d'acqua
ti imposero
pensando forse
ai flutti e alle correnti.

Un nome, un destino,
dicevano gli antichi.
Eppur, chiedendo
scusa ai saggi avi,
aggiungo (e bada,
 non sottraggo!):
il corpo tuo è  di terra.

Linea d'Africa scura
tra deserto e oceano,
roccia, ambra e corallo,
monti di sabbia fine,
che il vento ricompone
e poi disperde
e infine ridisegna.

Sulle tue dune inquiete,
ho lasciato
le mie orme,stanche.
Alla tua ombra fresca
ho piantato la mia tenda
ed ho acceso il mio falò
di tregua e di speranza.

 
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AI TUOI PIEDI

Post n°19 pubblicato il 24 Maggio 2007 da cattivocomepochi
Foto di cattivocomepochi

(dedicato a R., svanita nel nulla)

[....] Perché mi è venuto in mente che se scrivi maluccio, lo fai con i piedi. E in effetti, uno scritto un po' rozzo si definisce pedestre. Se sei concreta e pratica, hai i piedi per terra; ma se ne hai uno solo a terra e sei francese  vuol dire che disponi di una garconniere (alla quale in genere si accede dopo aver "fatto piedino" con qualcuno).  Se hai quelli di argilla, al 90 per cento dei casi  sei un gigante. Se hai quello di porco, sei una scassinatore di professione. Magari a piede libero o con la palla al piede. A seconda della bravura del piedipiatti che hai alle calcagna. Che potrebbe scoprire il tuo tallone di Achille.
Se misuri in piedi, sei anglosassone. Se caschi, invece, in piedi, sei fortunata. Purché non ai piedi di Pilato. Anche perchè potrebbe metterteli in testa.   Se hai i due piedi in una scarpa sei in grave imbarazzo, ma se tieni il piede in due staffe, allora... te ne approfitti. Se sei sul piede di guerra, la cosa è minacciosa. Meglio se parti con il piede giusto e evita di alzarti con quello sbagliato. La pianta del piede, inoltre, non è un vegetale. Mentre prendere piede, non significa portarselo via....

N.B. Feticisti podofili, alla larga... E' solo un cazzeggio (podeggio?)

 
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Quella notte (F.)

Post n°20 pubblicato il 05 Ottobre 2007 da cattivocomepochi

Vagando nella notte senza stelle

ho incrociato la tua rotta inquieta.

Il mio legno antico ha sussultato

Incagliato nelle secche dei tuoi occhi.

 

L’annuncio del giorno hai atteso, fremente:

un vento tiepido, venuto da Oriente

ti porta in dono canzoni e fragranze.

 Odori di petali e di muschio,

segnalano già  la tua  presenza.

 

Una linea scura galleggia sopra il mare.

«Terra»! Ti guardo e grido: «Terra»,  amica mia.

Il tuo porto segreto  mi accoglierà.

 

Esausto, crollerò sulla tua riva.

Come una conchiglia vuota

rotolerò nel gorgo delle tue correnti.

 

Finché non mi raccoglierai.

Mi accosterai  al tuo orecchio.

E allora entrerà dentro di te

 

il canto dolente del mare,

il respiro lento della sua risacca,

il rombo potente delle sue tempeste.

 

 

Poi chiuderai gli occhi,

assorta...

 
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La viola

Post n°21 pubblicato il 21 Febbraio 2008 da cattivocomepochi
Foto di cattivocomepochi

 
C'è buio intorno a noi,
i tuoi occhi lampeggiano bradi,
come una vecchia insegna al neon,
che mai  troverà pace.
 
Mi muovo circospetto,
trattenendo appena il fiato,
perché la mia presenza
non fermi il tuo albeggiare. 
 
Appari nella luce:
sei fiore che sboccia
e che profuma. Sei colore
e sei musica. Sei donna...
 
E allora cosa importa
se lontana è la la tua voce?
Un solo cielo ci sovrasta
e accoglie i tuoi sospiri.
 
Un solo mare lambisce
e  morde i nostri fianchi.
Un solo ritmo danza,
selvaggio e palpitante.
 
Ti strapperei quel cuore
come in un rito atzeco,
ti coprirei di luce,
di fiori e di catene.
 
Mi guardi e mi attraversi.
La notte scende in fretta.
La vecchia insegna è spenta:
sono di nuovo solo...
 

 
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Post n°22 pubblicato il 15 Maggio 2008 da cattivocomepochi
Foto di cattivocomepochi

IL TARASSACO

Vivo per te che muori:

i tuoi capelli bianchi

si sfaldano a ciocche,

la tua voce si impasta,

il respiro soffia stanco,

estenuato,

l’ossigeno sibila e gorgoglia.

Ma quando ti prendo la mano,

un attimo dal nulla ti distogli,

e a fatica mi sorridi.

E allora voliamo su un prato,

che conosci e che conosco,

di papaveri e di spighe.

Son seduto sul tuo grembo

e mi porgi un tarassaco:

«Forza! ­- ridendo mi dici

– soffia più forte!»

Soffio. E i tuoi capelli

si spiumano,

svolazzano leggeri

sopra quel campo

dove un ruscello gorgoglia

e una brezza sibila serena.

La Nella impasta uova e farina

(saranno lasagne o fettuccine?)

e un bimbo sgambetta

felice

tenendo per mano

la sua mamma.

14 maggio 2008

 
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