C'era una volta, ad otto miglia da Napoli verso gli Astroni, una macchia di fichi e di pioppi, sul quale s'infrangevano i raggi del sole, non potendolo attraversare. Lì si trovava una casetta mezza abbattuta, abitata da una vecchia che era tanto sguarnita di denti quando carica d'anni, tanto piena di gobba quando vuota di fortuna, aveva cento rughe in faccia ma senza una piega le tasche, la testa tutta argentata ma neanche una monetina d'argento per ricrearsi lo spirito, al punto che faceva il giro dei fienili dei dintorni per sostentarsi con qualche elemosina. Ma poiché attualmente si dà con più facilità una borsa d'oro ad una spia ladrona che non qualche monetina ad un povero disagiato, la vecchia durante tutta la trebbia mise insieme a malapena un piatto di fagioli, mentre tutte le case del paese, in quel periodo d'abbondanza, ne mantenevano a quintali. Ma come si suol dire, " a paiolo vecchio bozzo o buco ", " a cavallo magro Dio manda le mosche " e " ad albero caduto l'accetta ", di modo che la vecchia, puliti i fagioli e versati in una pentola, li mise sul davanzale e se ne uscì a fare un po' di legna nel bosco per cuocerseli. Ma intanto che era fuori passò di fronte alla casa Nardo Aniello, il figlio del re, che stava cacciando. Costui, intravedendo la pentola sulla finestra, gli venne l'estro di fare una sbruffonata, scommettendo con i suoi servitori su chi, mirando meglio degli altri, avesse centrato la pentola con un sasso, iniziarono così a bersagliare quella povera pentola, e dopo tre o quattro sassate il principe, colpendola nel centro, la mandò in pezzi. La vecchia tornò quando se n'erano già partiti, e trovando l'amara tragedia, cominciò a fare cose maledette gridando: - Si stropicci pure le mani e ne vada altezzoso quel caprone di Foggia che ha cozzato contro la mia pentola, il figlio di strega che ha rotto la fossa delle sue carni, il mascalzone zoticone che ha seminato fuori stagione i miei fagioli! E se pure se non altro avere rispetto per i suoi interessi e non buttare in terra le insegne della sua casata, né mettersi sotto i piedi le cose che vanno sopra la testa! Ma vai pure, che io prego il cielo a ginocchia scoperte e con le viscere del cuore che lo faccia innamorare della figlia di un'orca che lo faccia ribollire e cuocere quando basta, e poi le buschi dalla suocera in modo che si veda vivo e si pianga morto: di modo che, trovandosi impastoiato e dalle magnificenze della figlia e dalle stregonerie della madre, non riesca mai a filar via, ma resti anche se crepa per le torture di quella brutta megera, che dovrà ordinargli i servizi a bacchetta, e fargli vedere il pane a distanza, in modo che dovrà per quattro volte rammentare con rammarico i fagioli che mi ha gettato in terra. Le condanne della vecchia misero le ali e salirono subito in cielo, tanto che, per quanto si usi dire: " bestemmie di femmina nel sedere te le semina ", o " al cavallo bestemmiato risplende il pelo ", stavolta fecero sbattere il naso al principe che fu lì per lasciarci la pelle, non erano difatti ancora trascorse due ore, che il principe, ritrovandosi nel bosco senza seguito, incontrò una bellissima giovane che andava raccattando chiocciole, e per giocare diceva: - Esci, esci corna che mammata ti scorna. Ti scorna sopra la terrazza e fa il figlio maschio. Il principe, vedendosi dinanzi quello scrigno pieno dei più grandi tesori della natura, quel banco dei più ricchi depositi del cielo, quell'arsenale delle più poderose forze d'amore, non capiva cosa gli stesse accadendo, perché i raggi degli occhi di lei, passando quel volto di cristallo tondo, cogliendo l'esca del cuore suo lo avevano acceso tutto come una fornace nella quale si preparano i mattoni dei progetti per costruire la casa delle speranze. Filadoro, poiché questo era il nome della ragazza, non perse tempo: essendo di fatto il principe un bel Marcantonio, subito le trafisse da parte a parte il cuore; così che l'un l'altro si chiedevano compassione con gli occhi, e mentre le loro lingue si erano bloccate, gli sguardi erano delle trombe da banditore che diffondevano il segreto dell'anima. Dopo di che restarono per un bel pezzo entrambi con la gola intasata senza riuscire a pronunciare parola, infine il principe tolto, il tappo, il condotto della voce riuscì a proferirle: - Da quale prato è fiorito questo fiore di bellezza? Da quale cielo è piovuta questa rugiada di piacevolezza? Da quale miniera è stato asportato questo tesoro di beltà? O selve felici, oh boschi fortunati, abitati come siete da questo tesoro, pieni di luce da questa luminaria delle feste d'Amore! Oh boschi, oh selve, dove non si recidono manici per le scope, aste per le forche, né coperchi per i vasi da notte, ma solo porte per il tempio della bellezza, travi per la casa dell'amore! - Andateci piano cavaliere mio - diede risposta Filadoro - esagerata grazia la vostra perché è alle vostre virtù più che alle mie qualità che devo l'epitaffio di elogio che mi avete fatto, sono una donna che sa valutarsi quantitativamente, e non voglio che qualcun altro mi faccia da regalo. Ma per quella che sono, bella o brutta, nera o bianca, magra o grassa, canterina o scorreggiona, scorfana o fata, bambola o salame, sono tutta ai vostri comandi, perché questo bel taglio d'uomo mi ha fatto a fette il cuore, questa bella faccia di conte mi ha trapassato da parte a parte, e io mi do a te come una schiavetta in catene da ora e per sempre. Non furono parole queste per il principe, ma squilli di tromba che chiamavano il " tutti a tavola " dei godimenti amorosi, o meglio che lo svegliarono con i tutti a cavallo della pugna d'amore, vedendosi così offerto che gli aveva attaccato il cuore. Filadoro, a questa cerimonia da principe, fece una faccia da marchesa, anzi, fece una faccia da tavolozza di pittore, nella quale si vedeva un misto del rosso del turbamento, della rossa ciliegia della paura, il verderame della speranza e il rosso fuoco della bramosia. Ma Nardo Aniello avrebbe voluto proseguire, quando gli si seccò la parola, poiché in quest'infelice vita umana non c'è vino dell'appagamento senza la feccia del ribrezzo, non c'è brodo grasso della soddisfazione senza schiuma di sventura: mentre, difatti, si trovava sul più bello, ecco che arriva d'improvviso la madre di Filadoro, la quale era un'orca così brutta che la natura doveva averla fatta com'esemplare dei mostri. Aveva i capelli come una scopa di rami secchi, ma non per pulire la casa da fuliggine e tele di ragno, ma per oscurare e affumicare i cuori; la fronte era di pietra genovese, per aguzzare il coltello della paura e lacerare i petti, gli occhi erano comete che predicevano tremiti di gambe, punture di cuori, tremori di spirito, coliche dell'anima e dissenterie di corpo, in quando aveva il terrore sulla faccia, il terrore nello sguardo, lo schianto nei passi, la diarrea nelle parole, la sua bocca era zannuta come quella di un porco, grande come quella di un mostro, storta come quella di chi ha una convulsione, piena di bava come quella di un mulo, in conclusione da capo a piedi essa era una disgrazia di deformità, un ricovero di storpi, tanto che doveva avere una storia di Marco e Fiorella cucita sulla gamba per non morire a quella vista. L'orca, agguantato Nardo Aniello per la casacca, proferì: - Alatola! Uccello, uccello, manette di ferro! - Siete osservatore! - controbatté il principe - Indietro canaglia! - e fece per appoggiare mano alla spada che era di buona lama.
Colomba
C'era una volta, ad otto miglia da Napoli verso gli Astroni, una macchia di fichi e di pioppi, sul quale s'infrangevano i raggi del sole, non potendolo attraversare. Lì si trovava una casetta mezza abbattuta, abitata da una vecchia che era tanto sguarnita di denti quando carica d'anni, tanto piena di gobba quando vuota di fortuna, aveva cento rughe in faccia ma senza una piega le tasche, la testa tutta argentata ma neanche una monetina d'argento per ricrearsi lo spirito, al punto che faceva il giro dei fienili dei dintorni per sostentarsi con qualche elemosina. Ma poiché attualmente si dà con più facilità una borsa d'oro ad una spia ladrona che non qualche monetina ad un povero disagiato, la vecchia durante tutta la trebbia mise insieme a malapena un piatto di fagioli, mentre tutte le case del paese, in quel periodo d'abbondanza, ne mantenevano a quintali. Ma come si suol dire, " a paiolo vecchio bozzo o buco ", " a cavallo magro Dio manda le mosche " e " ad albero caduto l'accetta ", di modo che la vecchia, puliti i fagioli e versati in una pentola, li mise sul davanzale e se ne uscì a fare un po' di legna nel bosco per cuocerseli. Ma intanto che era fuori passò di fronte alla casa Nardo Aniello, il figlio del re, che stava cacciando. Costui, intravedendo la pentola sulla finestra, gli venne l'estro di fare una sbruffonata, scommettendo con i suoi servitori su chi, mirando meglio degli altri, avesse centrato la pentola con un sasso, iniziarono così a bersagliare quella povera pentola, e dopo tre o quattro sassate il principe, colpendola nel centro, la mandò in pezzi. La vecchia tornò quando se n'erano già partiti, e trovando l'amara tragedia, cominciò a fare cose maledette gridando: - Si stropicci pure le mani e ne vada altezzoso quel caprone di Foggia che ha cozzato contro la mia pentola, il figlio di strega che ha rotto la fossa delle sue carni, il mascalzone zoticone che ha seminato fuori stagione i miei fagioli! E se pure se non altro avere rispetto per i suoi interessi e non buttare in terra le insegne della sua casata, né mettersi sotto i piedi le cose che vanno sopra la testa! Ma vai pure, che io prego il cielo a ginocchia scoperte e con le viscere del cuore che lo faccia innamorare della figlia di un'orca che lo faccia ribollire e cuocere quando basta, e poi le buschi dalla suocera in modo che si veda vivo e si pianga morto: di modo che, trovandosi impastoiato e dalle magnificenze della figlia e dalle stregonerie della madre, non riesca mai a filar via, ma resti anche se crepa per le torture di quella brutta megera, che dovrà ordinargli i servizi a bacchetta, e fargli vedere il pane a distanza, in modo che dovrà per quattro volte rammentare con rammarico i fagioli che mi ha gettato in terra. Le condanne della vecchia misero le ali e salirono subito in cielo, tanto che, per quanto si usi dire: " bestemmie di femmina nel sedere te le semina ", o " al cavallo bestemmiato risplende il pelo ", stavolta fecero sbattere il naso al principe che fu lì per lasciarci la pelle, non erano difatti ancora trascorse due ore, che il principe, ritrovandosi nel bosco senza seguito, incontrò una bellissima giovane che andava raccattando chiocciole, e per giocare diceva: - Esci, esci corna che mammata ti scorna. Ti scorna sopra la terrazza e fa il figlio maschio. Il principe, vedendosi dinanzi quello scrigno pieno dei più grandi tesori della natura, quel banco dei più ricchi depositi del cielo, quell'arsenale delle più poderose forze d'amore, non capiva cosa gli stesse accadendo, perché i raggi degli occhi di lei, passando quel volto di cristallo tondo, cogliendo l'esca del cuore suo lo avevano acceso tutto come una fornace nella quale si preparano i mattoni dei progetti per costruire la casa delle speranze. Filadoro, poiché questo era il nome della ragazza, non perse tempo: essendo di fatto il principe un bel Marcantonio, subito le trafisse da parte a parte il cuore; così che l'un l'altro si chiedevano compassione con gli occhi, e mentre le loro lingue si erano bloccate, gli sguardi erano delle trombe da banditore che diffondevano il segreto dell'anima. Dopo di che restarono per un bel pezzo entrambi con la gola intasata senza riuscire a pronunciare parola, infine il principe tolto, il tappo, il condotto della voce riuscì a proferirle: - Da quale prato è fiorito questo fiore di bellezza? Da quale cielo è piovuta questa rugiada di piacevolezza? Da quale miniera è stato asportato questo tesoro di beltà? O selve felici, oh boschi fortunati, abitati come siete da questo tesoro, pieni di luce da questa luminaria delle feste d'Amore! Oh boschi, oh selve, dove non si recidono manici per le scope, aste per le forche, né coperchi per i vasi da notte, ma solo porte per il tempio della bellezza, travi per la casa dell'amore! - Andateci piano cavaliere mio - diede risposta Filadoro - esagerata grazia la vostra perché è alle vostre virtù più che alle mie qualità che devo l'epitaffio di elogio che mi avete fatto, sono una donna che sa valutarsi quantitativamente, e non voglio che qualcun altro mi faccia da regalo. Ma per quella che sono, bella o brutta, nera o bianca, magra o grassa, canterina o scorreggiona, scorfana o fata, bambola o salame, sono tutta ai vostri comandi, perché questo bel taglio d'uomo mi ha fatto a fette il cuore, questa bella faccia di conte mi ha trapassato da parte a parte, e io mi do a te come una schiavetta in catene da ora e per sempre. Non furono parole queste per il principe, ma squilli di tromba che chiamavano il " tutti a tavola " dei godimenti amorosi, o meglio che lo svegliarono con i tutti a cavallo della pugna d'amore, vedendosi così offerto che gli aveva attaccato il cuore. Filadoro, a questa cerimonia da principe, fece una faccia da marchesa, anzi, fece una faccia da tavolozza di pittore, nella quale si vedeva un misto del rosso del turbamento, della rossa ciliegia della paura, il verderame della speranza e il rosso fuoco della bramosia. Ma Nardo Aniello avrebbe voluto proseguire, quando gli si seccò la parola, poiché in quest'infelice vita umana non c'è vino dell'appagamento senza la feccia del ribrezzo, non c'è brodo grasso della soddisfazione senza schiuma di sventura: mentre, difatti, si trovava sul più bello, ecco che arriva d'improvviso la madre di Filadoro, la quale era un'orca così brutta che la natura doveva averla fatta com'esemplare dei mostri. Aveva i capelli come una scopa di rami secchi, ma non per pulire la casa da fuliggine e tele di ragno, ma per oscurare e affumicare i cuori; la fronte era di pietra genovese, per aguzzare il coltello della paura e lacerare i petti, gli occhi erano comete che predicevano tremiti di gambe, punture di cuori, tremori di spirito, coliche dell'anima e dissenterie di corpo, in quando aveva il terrore sulla faccia, il terrore nello sguardo, lo schianto nei passi, la diarrea nelle parole, la sua bocca era zannuta come quella di un porco, grande come quella di un mostro, storta come quella di chi ha una convulsione, piena di bava come quella di un mulo, in conclusione da capo a piedi essa era una disgrazia di deformità, un ricovero di storpi, tanto che doveva avere una storia di Marco e Fiorella cucita sulla gamba per non morire a quella vista. L'orca, agguantato Nardo Aniello per la casacca, proferì: - Alatola! Uccello, uccello, manette di ferro! - Siete osservatore! - controbatté il principe - Indietro canaglia! - e fece per appoggiare mano alla spada che era di buona lama.