Il labirinto

Carolina Cristofori Piva


C'è una scena madre, raccontata nel carteggio tra Giosue Carducci e Carolina Cristofori Piva, che risale al 13 maggio 1872. Una scena patetica e comica insieme. Il poeta trentaseienne, sposato con due figlie (Beatrice e Laura), ha conosciuto da pochi mesi la signora Cristofori (ribattezzata poeticamente Lidia), ventiseienne madre di Gino e sposa del colonnello ex garibaldino Domenico Piva. Carducci professore universitario a Bologna, Lidia aspirante poetessa residente a Milano: a vederla in una fotografia di quegli anni, infagottata in un abito a balze e merletti, dimostra il doppio della sua età. In una epistola preliminare dichiara al Carducci di essere rimasta rapita dai suoi versi al punto da baciare il libro su cui sono stampati. La lettera del 13 maggio viene scritta il giorno stesso in cui donna Elvira Menicucci trova la minuta di una missiva «abbastanza eloquente» destinata dal marito a Lidia. «Figurati la scena! Mi rimproverò e rinfacciò tante cose; e, povera donna!, mi addolorò e accorò da vero quando mi disse con accese parole della noncuranza con cui l'ho sempre trattata, dell'abbandono in cui l'ho tenuta, dei sacrifizi che ella ha fatto per me e a cui io non ho mostrato mai di attendere. Domani ella ti rimanderà, credo, i tuoi doni». Le ritorsioni non si fanno attendere, prima tra tutte la requisizione delle lenti dono di Lidia. Verranno poi i minacciosi biglietti anonimi inviati alla fedifraga.Le lettere carducciane all'amata sono oltre seicento, un fiume in piena di sospirosi afflati e languori selezionati, anni fa, da Guido Davico Bonino, che ne ha offerto il meglio in Amarti è odiarti (Archinto). Sospiri e languori: «Ti mormoro gemebondo all'orecchio: Quanto ardo di rivederti! Addio, bella!», «io vorrei languire ai tuoi piedi; chiedendoti mercé, non so quante ore; perché chi può contar le ore, quando guarda negli occhi tuoi, anche se inginocchiato?». Invocazioni: «stringimi nei tuoi abbracci e inondami di baci». Materiale buono per le canzonette a venire. «La canaglia convenzionale e accademica» (i colleghi universitari) comincia a mormorare vedendo il Professore ogni giorno all'imbrunire seduto ai tavolini del Caffè dei Grigioni, dove scrive missive alla sua «dolce signora» ingollando bicchieri di grog.I convegni d'amore, in sei anni (fino al 1878), non superano la dozzina: Parma, Lodi, il parco di Monza, Verona, Civitavecchia... Una relazione «più pensata che agita, più vagheggiata che realmente vissuta» osserva Davico. Tormentata e tormentosa per Carducci: «Lina, temo di perder la testa». Una storia che Lidia vive invece «come un dolce idillio di poesia, come uno scherzo gentile». Anche per questo deve esserle pesata parecchio la «torbida», «fanciullesca» gelosia del poeta, che se la prende soprattutto con un amico (ex partner?) della Cristofori, il poeta e critico Enrico Panzacchi. A quest'ultimo si devono molti dei pettegolezzi che circolano tra Bologna e Milano e che fanno infuriare il vate severo e barbuto (e un po' ridicolo): «Io voglio che tu tronchi ogni rapporto con lui. Finora di me non hai conosciuto che il fanciullo; ma, bada, in me v'è l'uomo». Oppure pacate ammonizioni, quando Lidia si trova in laguna non raggiungibile dall'amante sempre impegnato in viaggi e conferenze per far quadrare i conti familiari non proprio floridi: «Non sorrider troppo ad alcuno nelle gondole al lume di luna o al tramonto sul mare».L'eco dei pochi contatti fisici è ovviamente gonfia di magniloquenza: «Io, del resto, sono tutto profumato di te; ti sento ancora sul mio cuore, tra le mie braccia, negli occhi miei e su le labbra». E di contorsioni retoriche: «Mi vien voglia di baciarmi per ribaciare i tuoi baci e i tuoi amplessi, oh come divini!». Agli slanci di voluttà irresistibile, si alternano considerazioni sulla quotidianità difficile e sulle beghe universitarie, pedanterie grammaticali, persino consigli fisico-estetici («non ti far bionda»), soprattutto ripiegamenti malinconici: «Sono qui solo, con un tempo orribilmente triste, con l'animo anche più triste del tempo». Ma anche ripensamenti e rabbie furibonde contro se stesso: «Io... io feci male a crearmi una famiglia, a legarmi alla vita di famiglia, che dà molti compensi, ma che a ogni modo inceppa gl'ingegni». E persino tirate iconoclaste sul matrimonio: «Sono stufo, stufo, stufo, e mando trecento volte al diavolo le mogli e i mariti, e giuro che l'abolizione del matrimonio è la riforma sociale più necessaria più logica più indispensabile, e che solamente per quella bisognerebbe fare la rivoluzione». Le nuvolaglie sull'amore tra Giosue e Carolina compaiono ben presto: l'esaltazione trascolora a poco a poco nello sconforto, la passione valica raramente i confini della retorica epistolare, anche se qua e là riemerge la «fisima» della gelosia e del sospetto che l'amica abbia ripreso ad «aprir le braccia agli ignoti» e a far «la graziosa agli imbecilli». Ma la scena pubblica finirà per prendere il sopravvento nelle aspirazioni dell'ormai Poeta con la maiuscola. I cui languori rimarranno sulla carta, così come probabilmente l'esibita nausea per se stesso, per le menzogne e per la propria vigliaccheria.