Il labirinto

Il duca d'Enghien


Louis-Antoine-Henri de Bourbon, duca d' Enghien, apparteneva al ramo cadetto dei Condé e aveva lasciato la Francia con la sua famiglia nel 1789 all' età di 17 anni. Nel 1792, quando la Repubblica vinse le sue prime battaglie a Valmy e a Jemappes contro gli eserciti coalizzati delle dinastie europee, combattè nelle truppe dei principi tedeschi contro i suoi connazionali. Nove anni dopo, nell' anno IX del calendario rivoluzionario, lasciò la vita militare e si trasferì nel castello di Ettenheim, un borgo del granducato di Baden in Germania. Era nel suo letto all' alba del 15 marzo 1804 (o, se preferisce, del 24 Ventoso dell' anno XII) quando un generale francese, scortato da 300 uomini del 26° reggimento dei Dragoni, lo arrestò per ordine del Primo console Bonaparte e lo trasferì a Strasburgo. La tappa successiva, due giorni dopo, fu il castello di Vincennes, nei pressi di Parigi, dove arrivò il 20 marzo alle 9 della sera. Nelle ore seguenti fu portato di fronte a una commissione militare che si componeva di un generale, cinque colonnelli, un capitano relatore e un capitano cancelliere. Gli fu letto un atto in cui lo si accusava di «avere portato le armi contro la Repubblica, di essere stato e di essere ancora al soldo dell' Inghilterra, di avere partecipato a conflitti orditi da questa potenza contro la sicurezza interna ed esterna della Repubblica». La condanna, dopo un processo sommario, fu la morte. Chiese un incontro con il Primo console, ma gli venne rifiutato. Dalla sala del processo venne fatto scendere per una scala a chiocciola e temette per un momento che lo avrebbero rinchiuso vivo in una segreta. Ma non appena arrivò nel fossato del castello e vide il plotone di esecuzione esclamò: «Ah! Grazie al cielo, morrò della morte di un soldato». Nelle cronache della vicenda diffuse dagli ambienti legittimisti, soprattutto dopo la Restaurazione, Enghien divenne un martire. Si disse che aveva chiesto inutilmente la presenza di un sacerdote e che la sua richiesta era stata respinta con parole sprezzanti. Si disse che chiamò «amici» gli uomini del plotone e che Gioacchino Murat, presente all' esecuzione, disse con voce insolente e feroce: «Tu non hai amici qui». Si disse infine che i soldati si avventarono sul suo cadavere e si impadronirono di due orologi. Resta da capire perché Bonaparte abbia voluto la sua morte. Nelle settimane precedenti si erano moltiplicate le voci di attentati contro la sua persona. Ma è probabile che la eliminazione del duca fosse il segnale che il Primo Console intendeva inviare ai Borbone e ai loro partigiani nel momento in cui preparava il colpo di Stato con cui, meno di due mesi dopo, si sarebbe proclamato imperatore. Nelle sue memorie Fouché (allora soltanto senatore) raccontò di avere incontrato Bonaparte alla Malmaison il giorno del processo. Gli disse che la morte del duca avrebbe provocato forti reazioni e sostenne che sarebbe stato necessario dare all' Europa le prove delle sue colpe. «A che cosa servono le prove?» gli rispose il futuro imperatore. «Non è forse un Borbone, e dei più pericolosi?». Dopo avere riassunto nelle sue memorie la conversazione con Bonaparte, Fouché commentò l' uccisione del duca con le parole «È più di un reato, è un errore!». E aggiunse, con una implicita rivendicazione di paternità: «Le riferisco qui perché sono state ripetute e attribuite ad altri». Ma le Memorie furono scritte dopo la caduta dell' Impero, quando Fouché aveva un evidente interesse a «sbiancare» il suo passato. Vi riuscì infatti e divenne ministro della polizia di Luigi XVIII. Qualche mese dopo, tuttavia, dovette dimettersi e abbandonare la Francia per passare gli ultimi anni della sua vita a Trieste,dove,a differenza di altri,morì nel suo letto.