Il labirinto

Cola di Rienzo


l tempo di Cola di Rienzo, Roma era una città disastrata di circa 20-30.000 abitanti, che si accontentava di vivere dei miti del passato, con un orgoglio che strideva non poco con la situazione socioeconomica della maggior parte dei suoi abitanti, vessati da un'aristocrazia parassitaria e prepotente, nonché dalla corporazione dei proprietari di terre e bestiame. Mancava quasi del tutto l'artigianato autonomo e la sede pontificia era stata trasferita ad Avignone nel 1305. Si era convinti che la fine dell'impero romano avesse coinciso con la fine del mondo civilizzato e che si trovasse in piena barbarie.I ceti di estrazione nobiliare sognavano che i francesi di Carlo d'Angiò, dominatore del Mezzogiorno (esclusa la Sicilia, che s'era ribellata coi Vespri), avrebbero potuto un giorno fare di Roma la nuova caput mundi, magari con l'aiuto del papato, che ancora credeva, nonostante il fallimento degli imperi franconi e sassoni, in un mito imperiale cristiano.Tuttavia i ceti popolari, più che credere in un papato e in una nobiltà profondamente corrotti, preferivano sperare in un ripristino delle antiche realtà repubblicane, come p.es. il Senato: cosa che avevano già tentato di fare con Arnaldo da Brescia (1090–1155) due secoli prima. Un esperimento durato un decennio, cui il papato aveva posto fine con l'intervento dell'imperatore Federico Barbarossa e dei Normanni.Nicola (detto Cola) di Rienzo, nato a Roma nel 1313, ufficialmente era figlio di un taverniere e di una lavandaia, ma si vantava d'esser figlio dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, il quale avrebbe avuto una relazione occasionale con la madre di Cola mentre era a Roma per farsi incoronare. Siccome era scoppiata una rivolta, egli si sarebbe rifugiato proprio nella taverna del marito di lei: cosa che lei stessa avrebbe detto al proprio confessore solo in punto di morte.In effetti il giovane Cola poté fare degli studi notevoli per la sua estrazione sociale, conoscendo egli molto bene gli antichi monumenti romani, le iscrizioni latine, la paleografia ed epigrafia romane; inoltre aveva letto con molto interesse Tito Livio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo, Agostino, Gregorio Magno, Boezio e s'intendeva di diritto canonico.Cola sentiva il problema del riscatto sociale da parte degli artigiani e degli esercenti minori, che più volte avevano cercato di scrollarsi di dosso l'oligarchia nobiliare, ma inutilmente (1267, 1305, 1312, 1327. 1339). Il nuovo tentativo del 1342 vide il giovane Cola fare da mediatore tra il popolo e il papato avignonese, nella speranza di poter ottenere il consenso di quest'ultimo contro le prevaricazioni baronali.In effetti i veri padroni della città non erano né i senatori né i legati pontifici, bensì gli scherani dei nobili locali, le cui principali famiglie (Colonna, Orsini e Savelli) spadroneggiavano come volevano dopo il trasferimento della sede pontificia (gli stessi Orsini e Colonna ricoprivano alte cariche ad Avignone). Il commercio era scarso anche a causa del banditismo che infestava le campagne. Anche il Petrarca era stato aggredito mentre si allontanava da Roma, dove era stato laureato poeta in Campidoglio.Papa Clemente VI non respinse l'udienza che Cola di Rienzo gli aveva chiesto al fine di organizzare il ritorno del papato nella città santa e di liberare la popolazione dalle angherie dei ceti altolocati. Si sperava anche che il papato indicesse un giubileo per il 1350, che sicuramente avrebbe portato ricchezze alla città.Ad Avignone Cola poté beneficiare del pieno appoggio di Francesco Petrarca, il famoso poeta che teneva in grande considerazione la Roma classica repubblicana e che vedeva in quel "tribuno" la figura ideale per realizzare i suoi sogni e per riformare una chiesa profondamente corrotta.Cola infatti poté tornare a Roma come plenipotenziario del pontefice e prese a lavorare come notaio della Camera (una delle poche vie aperte a chi veniva dal popolo), anche se di nascosto tramava per organizzare una sommossa che avrebbe dovuto rovesciare il governo baronale.Particolarmente ostili gli erano i partigiani dei Colonna, ma favorevoli gli erano i rappresentanti dei movimenti ereticali, specie di quello gioachimita.Nel 1347, con 100 uomini armati e una gran folla al seguito, occupò il Campidoglio e il palazzo del governo. L'assemblea popolare, come nell'antichità romana, elesse due tribuni: Raimondo d'Orvieto, vicario del pontefice, e lo stesso Cola di Rienzo, con maggiori poteri.Il programma insurrezionale era abbastanza chiaro:ordine pubblico in città (pena di morte per gli assassini, obbligo per i baroni di non proteggere i malfattori; si prevedeva persino il divieto di ubriacarsi e di giocare d'azzardo); durata massima dei processi: 15 giorni;riorganizzata l'amministrazione finanziaria statale eliminando l'intermediazione dei baroni per la riscossione di pedaggi, diritti di pascolo ed altre imposte; libero accesso dei cittadini a rocche, ponti, porti e porte della città, senza dover pagare alcunché e senza dover chiedere permessi speciali; sostegni finanziari ai monasteri;restituzione allo Stato delle terre usurpate, pena del taglione per i falsi accusatori;abolizione dell'assegnazione dell'appalto del sale ai privati;potere militare affidato alla milizia cittadina, formata dai popolani dei diversi quartieri, e servizio di guardia costiera; i tredici rioni di Roma devono fornire ognuno 100 fanti e 30 cavalieri. In caso di morte di un milite la famiglia otterrà un'indennità di 100 lire se fante, e di 100 fiorini se cavaliere;città e terre intorno a Roma sotto amministrazione del governo repubblicano insediato in Campidoglio; proibizione di avere fortezze private;aiuti per vedove ed orfani;istituzione di riserve di grano contro la carestia.L'immediatezza con cui i baroni cedettero illuse Cola che la sua rivoluzione avrebbe potuto offrire un modello agli altri Stati regionali della penisola, sicché propose di costituire una confederazione di Stati sotto lo scettro di Roma, contro la tirannia di tutti i feudatari della penisola.La proposta però cadde nel vuoto: le città-repubbliche non si fidavano di un tribuno che, pur odiando i baroni, agiva come fosse il braccio secolare del papato, da tempo visto unanimemente come del tutto inaffidabile.Lo stesso Cola, con poca coerenza e molta presunzione, ambisce alla dignità del cavalierato per potersi fregiare di un titolo nobiliare che gli avrebbe permesso di ottenere legittimamente la carica imperiale, con cui avrebbe poi potuto pretendere la riunificazione della penisola.Al che il pontefice, che pur l'aveva appoggiato in funzione anti-baronale, cominciò a vedere in cattiva luce l'idea di restaurare il mito della Roma antica in cui il ruolo della chiesa fosse in qualche modo subordinato all'autorità del Senato repubblicano. Il papato voleva muoversi in maniera assolutamente autonoma e quando il tribuno impedì con decreto l'ingresso di eserciti stranieri nella penisola, se ne risentì, poiché esso era abituato a servirsi delle forze militari di chicchessia in caso di necessità. Inoltre non poteva accettare che il tribuno vietasse l'uso della parole "guelfo" e "ghibellino" quando esso stesso era ampiamente sostenuto dal partito guelfo.Quando nel 1347 si riunì a Roma il primo parlamento panitaliano voluto da Cola, non solo di dovette costatare l'assenza di molte potenze regionali, ma anche l'espressa intenzione, da parte di talune delegazioni che avevano accettato l'invito, a non voler affatto sottostare all'egemonia romana, che, per quanto "laica" si presentasse sotto il nuovo senatore, restava troppo influenzata dall'ingombrante presenza della chiesa, pur avendo questa la sua sede ad Avignone.Cola di Rienzo non s'era assolutamente reso conto che un qualunque processo di riunificazione nazionale avrebbe richiesto sforzi diplomatici molto più consistenti e tempi di realizzazione molto più lunghi. Un progetto politico del genere avrebbe avuto senso solo a condizione che in una scelta di tipo federativo nessuno Stato regionale apparisse superiore agli altri, o dagli altri venisse penalizzato.Infatti anche nel caso in cui si fosse optato per una soluzione di forza (quella secondo cui uno Stato regionale s'impone sugli altri grazie alla propria compagine militare), sarebbe stato impossibile realizzare un obiettivo del genere in un'Italia dove vari Stati potevano dimostrare una potenza equivalente (Firenze, Napoli, Palermo, Venezia, Milano e i Savoia). Quando mezzo millennio dopo si riuscirà a realizzare l'unificazione attraverso una soluzione di forza, essa fu preceduta da ideali risorgimentali e garibaldini attraverso cui, inizialmente, non si pensava che tutto il potere istituzionale sarebbe stato gestito dai Savoia.Insomma il disegno di Cola appariva del tutto velleitario, anche se il suo proclama della libertà di Roma e dell'Italia (agosto 1347) venne in sostanza accettato. Esso prevedeva i seguenti punti:il popolo romano rivendica la potestà che un tempo aveva su tutto il mondo e revoca tutti i privilegi concessi in danno della propria autorità; Roma e tutte le città d'Italia sono dichiarate libere; tutti i popoli d'Italia sono dichiarati cittadini di Roma; l'elezione dell'imperatore viene rivendicata dal popolo di Roma con estensione a tutti gli italiani; una assemblea generale viene indetta per la Pentecoste del 1348, a tale assemblea sono invitati i due contendenti all'impero (Ludovico il Bavaro e Carlo IV di Boemia); vengono fatti salvi i diritti del papa.Il vicario del papa, vescovo di Orvieto, rifiuta il proclama e inizia a trattare coi baroni, per ostacolare seriamente la realizzazione di qualunque decreto della repubblica. Cola reagì prontamente incarcerando i maggiori rappresentanti delle famiglie Colonna e Orsini; sembrava avesse intenzione di metterli alla forca, ma nel momento decisivo li liberò, nella speranza che il suo gesto venisse considerato come una forma di riconciliazione, e per un momento i nobili vi credettero. Il suo comportamento sarà però criticato dal Petrarca.Tuttavia papa Clemente VI, al vedere ciò, temette che si potesse costituire un blocco politico tra baroni e popolani a suo danno, per cui provvide subito a condannare Cola come ribelle ed eretico, ponendogli, come condizione della revoca, la restituzione al cardinale Bertrand de Deaulx, che aveva già assoldato centinaia di armati, del governo sui territori dello Stato della chiesa attorno a Roma, annullando le confische già attuate del patrimonio ecclesiastico. In caso contrario tutta la città sarebbe stata sotto interdetto (col divieto di praticare qualunque cerimonia religiosa) e l'attacco militare sarebbe stato immediato.Poiché il tribuno non cedette, si venne alle armi. La famiglia Colonna preferì mettersi dalla parte del cardinale, ma venne sconfitta dai popolani. Cola, invece di approfittare di questa situazione, inspiegabilmente tergiversò, mirando piuttosto, attraverso i propri ambasciatori, a farsi eleggere come nuovo imperatore (era morto Ludovico il Bavaro e il papa puntava le sue carte su Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia, nipote di Arrigo VII di cui s'è parlato sopra).Alla fine del 1347 Cola chiedeva di trattare col cardinale de Deaulx: rinunciò al dominio sui territori di Roma e consentì a far entrare nel Consiglio tribunizio ben 39 membri indicati dal cardinale. Era l'occasione buona perché i nobili tornassero all'attacco.Questa volta Cola non fece nulla per difendersi e anzi fuggì da Roma. L'indecisione, la mancanza di fiducia nelle masse popolari furono la sua disgrazia sin dall'inizio. I nuovi governanti revocarono tutti i provvedimenti da lui emanati.Fuori della città, Cola cercò alleati tra alcune forze nobiliari, le quali però lo tradirono, facendolo rinchiudere in Castel Sant'Angelo.Proprio in quegli anni però scoppiò in tutta Europa una terribile epidemia di peste, che fece strage in tutte le città italiane: a Roma persino nelle carceri ove era rinchiuso Cola, il quale, molto fortunosamente, non solo evitò il contagio ma riuscì persino a evadere, riparando negli Abruzzi, dove trovò ampi consensi tra i gioachimiti.Nel 1350, facendosi passare per un loro capo ereticale, andò a Praga per chiedere al re Carlo IV di recarsi a Roma e farsi incoronare imperatore dagli stessi gioachimiti, nella speranza che mettesse ordine nella penisola, la riunificasse e la liberasse della grande corruzione che vi regnava. Ma il re, sapendo bene che senza il consenso del pontefice, non avrebbe mai potuto diventare imperatore, fece imprigionare Cola e lo spedì ad Avignone nel 1352. Qui ritrovò l'amico Petrarca, che ancora continuava a credere in lui, cercando di farlo liberare.In effetti la fortuna gli arrise ancora una volta. Morto Clemente VI nel 1352, il suo successore, Innocenzo VI, vedendo che a Roma i baroni senatori volevano ridurre il potere pontificio negli Stati della chiesa, fece rimettere Cola in libertà (1353). E lo spedì, insieme al cardinale Egidio Albornoz, a Roma, coll'intenzione di riportare i nobili all'obbedienza.Vista la situazione, i popolani insorsero di nuovo, insediando un nuovo governo tribunizio. La cosa però durò poco, poiché i vecchi oligarchi ripresero il potere.Intanto Cola e il cardinale erano già arrivati presso Viterbo, ove giunse una delegazione di popolani a chiedere che Cola tornasse a fare il tribuno. L'Albornoz acconsentì, ma senza dargli i mezzi sufficienti per organizzare una significativa armata- Cola riuscì lo stesso ad entrare in città nel 1354 con l'appoggio del popolo.Rendendosi però conto di essere lì in rappresentanza del papato (lo stesso Albornoz lo aveva nominato senatore a vita), evitò con cura, nel suo primo discorso, di parlare della repubblica romana, di riunificazione della penisola, di "governo mondiale" con cui come imperatore e cose del genere.Tuttavia i baroni non stettero ad ascoltare né lui né il cardinale, sicché Cola si vide costretto a prendere contromisure militari, che però risultarono largamente inefficaci, essendo i soldati quasi tutti mercenari.La sua popolarità crollò di colpo quando, per pagare le truppe e arruolarne di nuovo, si vide costretto a imporre nuove tasse e gabelle. Gli stessi vertici delle truppe cominciarono a ribellarsi, non avendo ottenuto, nei tempi previsti, quanto loro promesso.Cola, a causa della sua megalomania, non riuscì mai a fidarsi completamente della popolazione romana e questo gli fu fatale. Inviso a tutti, si ritrovò senza l'aiuto di nessuno.Quando nel 1354 il Campidoglio fu attaccato dai baroni, egli veniva considerato un traditore del popolo. Non trovò forze sufficienti per resistere. Tentò di fuggire, ma, dopo essere stato catturato, venne fatto a pezzi, bruciato e le sue ceneri furono sparse nel Tevere come quelle di Arnaldo da Brescia due secoli prima.Fu piuttosto il cardinale Albornoz che con la forza e la diplomazia riuscì ad avere la meglio sui riottosi baroni.Di Cola di Rienzo restarono due cose nei secoli successivi: l'opposizione alla feudalità recuperando gli ideali della Roma repubblicana e il tentativo di riunificare la penisola superando la divisioni politico-territoriali, la più grave delle quali era lo Stato della chiesa. La prima fu ripresa dall'Umanesimo e la seconda dal Risorgimento.