Il labirinto

Ricordo (Pascoli)


Andavano e tornavano le rondini,  intorno alle grondaie della Torre,  ai rondinotti nuovi. Era d'agosto.  Avanti la rimessa era già pronto  il calessino. La cavalla storna  calava giù, seccata dalle mosche,  l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi  dell'unghie su le selci della corte.  Era un dolce mattino, era un bel giorno:  di San Lorenzo. Il babbo disse: «Io vo».  E in un gruppo tubarono le tortori.  Esse là nella paglia erano in cova.  Tra quel hu hu, mia madre disse: «Torna  prestino». «Sai che volerò!» «Non correr  tanto: la tua stornella è appena doma».  «Eh! mi vuol bene!» «Addio». «Addio». «Vai solo?  non prendi Jên?» «Aspetto quel signore  da Roma...» «E` vero. Ti verremo incontro  a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.  Tu ci vedrai passando». «Io vi vedrò».  E Margherita, la sorella grande,  di sedici anni, disse adagio: «Babbo...»  «Che hai?» «Ho, che leggemmo nel giornale  che c'è gente che uccide per le strade...»  Chinò mio padre tentennando il capo  con un sorriso verso lei. Mia madre  la guardò coi suoi cari occhi di mamma,  come dicendo: A cosa puoi pensare!  E le rondini andavano e tornavano,  ai nidi, piene di felicità.  Mio padre palpeggiò la sua cavalla  che l'ammusò con cenno familiare.  Riguardò le tirelle e il sottopancia,  e raccolte le briglie, calmo e grave,  si volse ancora a dire: «Addio!» Mia madre  s'appressò con le due bimbe per mano:  la più piccina a lui toccò la mazza.  Egli teneva il piede sul montante.  E in un gruppo le tortori tubarono,  e si sentì: «Papà! Papà! Papà!»  E un poco presa egli sentì, ma poco  poco, la canna come in un vignuolo,  come v'avesse cominciato il nodo  un vilucchino od una passiflora.  Sì: era presa in una mano molle,  manina ancora nuova, così nuova  che tutto ancora non chiudeva a modo.  Era la bimba che vi avea ravvolte,  come poteva, le sue dita rosa,  e che gemeva: «No! no! no! no! no!»  Mio padre prese la sua bimba in collo,  col suo gran pianto ch'era di già roco;  e la baciò, la ribaciò negli occhi  zuppi di già per non so che martoro.  «Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?»  «No! no!» «Ti porto tante belle cose!»  «No! no!» La pose in terra: essa di nuovo  stese alla canna le sue dita rosa,  gli mise l'altro braccio ad un ginocchio:  «No! no! papà! no! no! papà! no! no!»  Non s'udì che quel pianto e quei singulti  nel tranquillo mattino tutto luce.  Più non raspava i ciottoli con l'unghia  la cavalla, e volgea la testa smunta  alla bimba. E le tortori, hu, hu!  Povera bimba! non avea compiuti  due anni, e ancor dormiva nella culla.  Sapea di latte il suo gran pianto lungo:  assomigliava ad un vagir notturno.  Mio padre disse: «Non partirò più».  Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro  la cavalla, aspettando ad un altro uscio.  Lontanò essa con un ringhio acuto.  E mio padre baciò la creatura,  e le disse: «Non vado: entro; mi muto,  e sto con te. Perché tu sia sicura,  prendi la canna». Rabbrividì tutta  essa, come un uccello quando arruffa  le piume; le spianò; poi con le due  braccia abbracciò la canna di bambù.  Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo  non tornò più. Non si rivide a casa.  Lo portarono a sera in camposanto,  lo stesero in un tavolo di marmo,  dissero, oh! sì! dissero ch'era sano,  e che avrebbe vissuto anche molti anni.  Ma uno squarcio aveva egli nel capo,  ma piena del suo sangue era una mano.  Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,  ciò che di lui rimase, ove sarà?  Sorella, a volte penso che tu l'abbia,  che tu lo tenga ancora fra le braccia.  Così mi pare a volte, che ti guardo  e tu non vedi, ché tu stai pregando.  Tieni le braccia in croce, un poco lasse;  e tieni ancora gli occhi fissi in alto.  Stai come quando ti lasciò tuo padre;  sicura, come allora. Ma una lagrima  ancora scorre a te, di quelle, e il labbro  balbetta ancora, sì: «Papà! Papà!»