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Il mendicante e il diamante (Stephen King)

Post n°9 pubblicato il 31 Maggio 2011 da odette.teresa1958

Un giorno l’arcangelo Uriel si presentò a Dio con un’aria sconsolata.
«Che cosa ti affligge?» chiese Dio.
«Ho visto una cosa molto triste», rispose Uriel e si puntò il dito fra i piedi. «Laggiù.»
«Sulla terra?», domandò Dio con un sorriso. «Oh, non manca certo la tristezza laggiù! Be’, diamo un’occhiata».
Si chinarono insieme. In lontananza sotto di loro videro un uomo vestito di stracci che percorreva lentamente una strada di campagna nei sobborghi di Chandrapur. Era molto magro, quell’uomo, e aveva gambe e braccia coperte di piaghe. Spesso i cani lo rincorrevano abbaiando, ma lui non si girava mai per colpirli con il suo bastone nemmeno quando gli serravano le zanne a pochi centimetri dai calcagni, e arrancava per la sua via, trascinando un po’ la gamba destra. A un certo punto da una grande casa uscì uno sciame di bei bambini ben nutriti e con sorrisi cattivi sulle labbra, e scagliarono sassi allo straccione quando questi tese loro la tazza vuota delle elemosine.
«Vattene via, obbrobrio!», gridò un bimbo. «Vattene via nei campi e muori!»
Al che l’arcangelo Uriel scoppiò in lacrime
«Su, su», lo esortò Dio con una pacca sulla spalla. «Credevo fossi fatto di tempra più solida.»
«Si, senza dubbio», rispose Uriel, asciugandosi gli occhi. «E’ solo che quell’uomo laggiù mi sembra riassuma in sé tutto quello che è andato storto a tutti i figli e le figlie della terra.»
«Certamente», ribatté Dio. «Quello è Ramu e quello è il suo lavoro. Quando morirà il suo posto verrà preso da un altro. E’ un lavoro onorevole.»
«Forse», disse Uriel, coprendosi gli occhi, con un brivido, «ma non sopporto di vederglielo fare. Mi riempie il cuore di tenebra.»
«Le tenebre qui non sono permesse», replicò Dio, «pertanto dovrò prendere provvedimenti per modificare la situazione che porta oscurità nel tuo cuore. Guarda qui, mio buon arcangelo.»
Uriel guardò e vide che Dio aveva in mano un diamante grosso come un uovo di pavone.
«Un diamante di queste dimensioni e di questa qualità darà da mangiare a Ramu per il resto dei suoi giorni e manterrà i suoi discendenti fino alla settima generazione», spiegò Dio. «E’ in verità il più bel diamante del mondo. Ora…vediamo…». Si sporse su mani e ginocchia, sospese con due dita il diamante tra due nuvole rarefatte e lo lasciò cadere. Poi Dio e Uriel ne osservarono attentamente la traiettoria e lo videro fermarsi al centro della strada che stava percorrendo Ramu.
Il diamante era così grosso e pesante che senza dubbio Ramu lo avrebbe sentito colpire il suolo se fosse stato più giovane ma l’udito gli era venuto gravemente meno in quegli ultimi anni, insieme con i polmoni, la schiena e i reni. Solo la vista gli restava acuta come era quando aveva venti anni e uno.
Mentre superava a fatica un dislivello della strada, inconsapevole dell’enorme diamante che scintillava e lampeggiava sull’altro versante del dosso nella luce del sole appannata dalla foschia, Ramu fece un respiro profondo…poi si fermò e si curvò sul bastone, quando il sospiro si trasformò in una tosse convulsa. S’appoggiò al bastone con entrambe le mani, mentre cercava di superare la crisi, e nel momento in cui la tosse cominciava ad allentarsi, il bastone, che era vecchio e sesso q e quasi consunto quanto Ramu stesso, si spezzò con uno schiocco, precipitando Ramu nella polvere.
Riverso al suolo, rimirò il cielo, domandandosi perché Dio fosse così crudele. « Sono sopravvissuto a tutti coloro che ho amato di più», pensò, «ma non a coloro che odio. Sono diventato così vecchio e brutto che i cani mi abbaiano e i bambini mi lanciano pietre. In questi ultimi tre mesi non ho mangiato che avanzi e sono dieci o più anni che non consumo un pasto decente con la famiglia e gli amici. Sono un vagabondo sulla faccia della terra senza una casa che possa chiamare mia; questa notte dormirò sotto un albero o una siepe senza tetto a difendermi dalla pioggia. Sono coperto di piaghe, mi fa male la schiena, e quando mi fermo a far acqua vedo sangue dove sangue non dovrebbe esserci. Il mio cuore è vuoto come la mia scodella per le elemosine.».
Lentamente si alzò in piedi, ignaro che, a meno di venti metri, la vista del più grosso diamante era negata ai suoi occhi ancora sani da una piccola cunetta di terra arida, e alzò lo sguardo al celeste appannato del cielo. «Dio, io sono sfortunato», disse. «Io non Ti odio, ma temo che Tu non sia amico mio né amico di nessun uomo.».
Detto questo si sentì un po’ meglio e riprese il suo lento cammino, dopo aver raccolto il pezzo più lungo del suo bastone rotto. E, mentre camminava, cominciò a rimproverare se stesso per l’autocommiserazione e per la preghiera ingrata.
«Perché ho alcune cose per cui essere grato», rifletté. «La giornata è straordinariamente bella, tanto per cominciare, e anche se sono per molti versi gravemente acciaccato, la vista mi rimane forte e sana. Pensa come sarebbe terribile se fossi cieco!».
Per dimostrarlo a se stesso, Ramu chiuse strettamente gli cocchi e proseguì con il pezzo di bastone proteso davanti a sé, come fanno i ciechi. Il buio era terribile e soffocante, denso da far perdere l’orientamento. Presto non fu più i grado di dire se stesse procedendo come prima, o se avesse deviato dall’una o dall’altra parte della strada, con il rischio forse di cadere ben presto nel fossato. Lo spaventò il pensiero di quel che sarebbe potuto esser delle sue povere, fragili ossa in seguito ad una simile caduta, ma tenne gli occhi fermamente chiusi e continuò ad arrancare.
«Questa è la giusta medicina per guarirti della tua ingratitudine, vecchiaccio!», si disse. «Passerai il resto del giorno a ricordare a te stesso che sarai anche un mendicante, ma almeno non sei un mendicante cieco e avrai da star felice di questo!».
Ramu non finì nel fossato né dall’una né dall’altra parte della strada, ma cominciò effettivamente a piegare verso destra mentre raggiungeva il culmine del dosso e cominciava a scendere dall’altra parte e fu così che oltrepassò l’enorme diamante che scintillava nella polvere e il suo piede lo mancò di meno di cinque centimetri.
Trenta metri più avanti Ramu riaprì gli occhi. Furono inondati dalla luce forte del sole d’estate, una luce che sembrò inondargli anche la mente. Guardò con gioia il cielo celeste e appannato, i campi gialli e appannati, il nastro d’argento della strada sulla quale camminava. Salutò il passaggio di un uccello da un albero ad un altro con una risata e anche se mai pensò di voltarsi e perciò mai vice il diamante enorme pochi passi alle sue spalle, in quel momento dimenticò le piaghe e il mal di schiena.
«Grazie, Dio, per avermi dato la vista!», esclamò. «Grazie almeno di quello, mio Dio! Forse vedrò qualcosa sulla strada, una vecchia bottiglia che vale soldi in un bazar, o persino una moneta, ma anche se così non fosse, sazierò i miei occhi. Grazie, Dio per avermi dato la vista! Grazie, Dio, per Dio!».
Così soddisfatto, riprese il cammino, lasciandosi dietro il diamante.
Allora Dio allungò la mano e lo raccolse, riponendolo dietro la montagna africana da cui lo aveva preso. Come per un ripensamento (se si può dire che Dio abbia ripensamenti), spezzò un ramo di carpinella dal veldt e lo lasciò cadere sulla strada di Chandrapur, come prima aveva lasciato cadere il diamante. «La differenza è», disse Dio ad Uriel, «che il nostro amico Ramu troverà il ramo, che gli servirà da bastone per il resto dei suoi giorni».
Uriel guardò Dio (per quanto da vicino possa persino un arcangelo guardare quel volto ardente) con un espressione perplessa. «Mi hai impartito una lezione, Signore?»
«Non so», rispose sereno Dio. «O si?»


 

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