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Cora Slocomb

Post n°91 pubblicato il 17 Giugno 2011 da odette.teresa1958


Del personaggio parla nel suo libro- La signora di Sin-Sing/No alla pena di morte, Giunti editore, 2002- la pronipote Idanna Pucci, nata a Brazzà, poco lontano da Udine, cresciuta a Firenze, laureata in Lettere comparate alla Columbia University di New York e studiosa di mitologia balinese. Il personaggio eccezionale riscoperto dal libro è la bisnonna, l’americana Cora Slocomb, moglie del friulano Detalmo di Brazzà, fratello dei famosi esploratori.

Idanna Pucci ha raccolto documenti, appunti, diari in vecchi cassettoni, ha sollecitato e ascoltato racconti dalla madre e da ciò è nata una storia nella quale, sullo sfondo di paesaggi geografici e sociali diversi, che vanno dal Friuli all’America, s’intrecciano figure, miserie, dolori, destini, storie di mobilitazioni civili che mantengono i lettori legati alla pagina, come ormai raramente capita.

Vale la pena, allora, ricordare tre giudizi apparsi su giornali americani. Da condividere. “La narrazione non lascia niente al caso e riesce a provocare suspense ed emozione…” ( New York Times ); “Un libro splendido e importante sulla giustizia nell’epoca cosiddetta dorata di New York…apre la via a uno studio più approfondito su questo periodo, caratterizzato da una giustizia ferrea a sfavore degli immigrati e delle classi più povere, che nulla comprendevano delle leggi e invariabilmente perdevano…” ( New York Law Journal ); “ Le questioni sociali più scottanti emergono in tutta la loro pienezza…le storie di queste donne troppo a lungo neglette sono riportate alla luce con passione e credibilità” ( Philadelphia Inquirer ).

Cora Slocomb Brazzà “era l’incarnazione dell’ideale di bellezza dell’epoca tardovittoriana: la sua pelle era bianca e liscia come l’avorio, le spalle perfettamente rotonde, il seno opulento e la vita sottile…”. Ed era una donna anticonformista, libera, attenta al mondo femminile e ai suoi problemi.

Anticonformista quanto Detalmo di Brazzà, il marito, appassionato di ingegneria civile, scienziato-inventore. Entrambi convinti che “ la ricchezza rende felici soltanto perché offre l’opportunità di fare del bene al prossimo: quella dei poveri era una causa che condividevano con pari determinazione”.

Cora, poco tempo dopo essersi stabilita a Brazzà, introdusse in Friuli l’arte del merletto imparata adolescente in Louisiana dalla madre quacchera. A Brazzà fondò una cooperativa che divenne ben presto uno dei centri italiani più attivi e apprezzati del settore.

“La cooperativa forniva i mezzi di sostentamento alle donne senza distoglierle dai loro compiti domestici o dal lavoro contadino, e le occupava nei lunghi periodi invernali durante i quali non si poteva lavorare nei campi”. Le merlettaie di Brazzà divennero presto famose anche come “le merlettaie della regina”, grazie agli ordini regolari che venivano da casa Savoia, dalla regina Margherita. “A Chicago, all’Esposizione Internazionale del 1893, i merletti di Brazzà furono scelti come esempio magistrale dell’artigianato italiano”.

Un grande e proficuo lavoro d’emancipazione quello compiuto da Cora di Brazzà tra le donne del Friuli. Un mondo che stimava e amava. Con la stessa intensità, le stavano a cuore i problemi della pace e della non violenza. Tanto “da diventare presidente del Committee on Peace and Arbitration all’interno dell’American National Council of Women”. Inoltre, nell’85, venne eletta presidentessa dell’Associazione Italiana dell’Impresa Femminile.

Nell’aprile 1895 apprende dalla stampa americana, che puntualmente leggeva,una notizia: a New York, una povera immigrata italiana, Maria Barbella, di ventidue anni, drogata, sedotta e abbandonata, aveva tagliato la gola, per lo stato di vergogna in cui venne a trovarsi, al seduttore Domenico Cataldo. Era in corso un processo che lasciava trasparire venature razziste e pregiudizi contro l’emigrazione italiana.

Cora Slocomb di Brazzà decide allora, sostenuta dall’accondiscendente e sempre presente marito, di trasferirsi a New York. Per battersi a difesa di Maria, per salvarla dalla sedia elettrica, la recente invenzione americana di un dentista.

Là Cora, anche con l’aiuto di un’altra donna coraggiosa, Mrs Foster vedova di un generale, mobilita l’attenzione dei cittadini, della stampa, delle istituzioni giuridiche a favore di Maria Barbella, per la revisione delle accuse, e contro la pena di morte.

“Cora e Detalmo non potevano conciliare la reputazione dell’America come patria della scienza e dell’abolizionismo con quelle spiccate tendenze barbariche (…) Per Cora la pena di morte rappresentava un potente strumento di repressione dei gruppi di minoranza. In ogni epoca storica, l’opinione della classe dominante era che un assassino proveniva sempre da quel gruppo sociale che si stava conquistando un posto autonomo nella società”.

Alla fine la battaglia, almeno per Maria Barbella, fu vinta. La povera, giovane donna della Basilicata, una dei 247.000 italiani che sbarcarono in America nel 1892, fu libera e salva.

“Nel 1906 si concluse la vita pubblica di Cora. La contessa di Brazzà aveva quarantaquattro anni.

“Avvenne all’improvviso”, scrive Detalmo nelle sue memorie: “senza alcun sintomo premonitore; Cora cadde malata in un caldo pomeriggio di maggio. Stava facendo sosta a Bologna nel suo viaggio di ritorno a Brazzà dalla Calabria devastata dal terremoto, dove aveva organizzato i primi soccorsi”. Quando morì, il 24 agosto 1944, a ottantadue anni, ventiquattro anni dopo Detalmo, “ I suoi occhi color acquamarina erano rimasti quelli di un tempo.

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