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Alessandra Di Rudinì

Post n°1453 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

uo padre era Antonio Starabba, marchese Di Rudinì, di Palermo, ma d’ascendenza spagnola. Verso la fine dell’Ottocento, diventò capo del governo italiano. Sua madre, contessa Maria de Barral, francese, di origine greca, donna dolcissima con una vita infelice.
Da questi genitori nacque a Napoli Alessandra Di Rudinì, il 5 ottobre 1876. La mamma depose nel suo cuore i primi germi della fede, ma Sandra, rimasta presto priva di lei, crebbe in un ambiente mondano dove conobbe i personaggi più illustri del suo tempo.
Compì gli studi nei migliori collegi d’Italia, a Trinità dei Monti a Roma, a Poggio Imperiale a Firenze. Nell’ambiente di collegio, Sandra, una ne pensava e cento ne faceva, come quella volta che le collegiali, entrate in cappella, per la preghiera della sera, si trovarono tutte ad avere le mani e fronte sporche d’inchiostro. L’unica a non essersi macchiata era Sandra, perché aveva riempito d’inchiostro la vaschetta dell’acqua santa all’ingresso della cappella e tutte, entrando si erano segnate la fronte con quell’inchiostro, meno lei.
Quando la somma delle marachelle divenne insopportabile, la cacciarono dal collegio. Fuori, qualcuno le mise in mano la Vita di Gesù, scritta dal negatore della fede Ernest Renan. «Quel giorno, dirà poi Sandra, fu uno dei più tristi della mia vita, perché perdevo la mia unica ragion d’essere: Gesù».

Una dea a cavallo

A 15 anni, era già una signorina perfetta: alta più di un metro e ottanta, aveva un volto di stupenda bellezza greca, folti capelli biondi, occhi azzurri vivissimi, intelligentissima, volitiva. Sembrava una dea apparsa dalle onde del mare. Dominatrice nei salotti con il suo fascino, mai schiava della moda, era signorile, elegantissima. La sua grande passione erano i cavalli, ne aveva una scuderia personale con 14 esemplari puro sangue che ella cavalcava come un’amazzone.
Suo padre la adorava e la sognava sposa di qualche principe di casa reale o imperiale d’Europa. Per un momento pensò a un matrimonio con il granduca Sergio, della famiglia dello zar di Russia, ma Sandra non ne volle sapere perché avrebbe dovuto rinunciare alla sua fede cattolica per farsi ortodossa.
A 18 anni, sposò chi sentiva di amare davvero: il marchese Marcello Parlotti di Verona, musico, scettico e stoico. A lui si diede con la sua fedeltà di sposa, diventando presto madre di due creature: Antonio e Andrea. Entusiasta anche della bellissima villa sul lago di Garda, Sandra, sposa e madre, poteva considerarsi una donna felice, ma non lo era, pur non mancandole nulla.

I giorni del dolore

Nella primavera del 1900, Marcello fu colpito da tubercolosi galoppante. Sandra lo curò con dedizione eroica: pur percorsa da una crisi di fede e ormai lontana da ogni pratica cristiana, per il suo Marcello morente chiamò un santo prete di Verona, Don Francesco Serenelli. Marcello morì lasciandola vedova a 24 anni, con due piccoli figli da crescere.
Suo padre, marchese Di Rudinì, cercò di distrarla con viaggi e feste: nell’aprile del 1903, a Roma per la visita del Kaiser Guglielmo di Germania, in maggio per la visita dello zar di Russia. A Parigi, frequentò i circoli letterari e partecipò a colazioni con Zola e Anatole France che la lasciarono di ghiaccio. Solo uno di quei viaggi l’aveva segnata in profondità: nel 1901, era stata in Marocco dove si era recata a consultare un vecchio marabutto, che guardandola a lungo le aveva detto: «Tu avrai tutto: splendore, ricchezza, amore... poi avrai ancora tutto: sofferenza, povertà, freddo... sulla tua fronte ci sono tre veli... uno l’avrai ancor... il più bello».
Sandra si allontanò in silenzio, senza chiedere altro. Nel cuore era come sommersa da una prorompente capacità di amare, sotto mille forme. Con il borsellino pieno, dava tutto in elemosina. Provava un gusto sottile a soppiantare altre donne, le quali, in salotto, a confronto con lei, erano costrette a eclissarsi.
Nel novembre 1903, partecipò a Firenze alle feste per il matrimonio del fratello. Vi era pure il poeta Gabriele D’Annunzio, che, benché legato ad Eleonora Duse, rimase folgorato da Sandra. La Duse si ritirò e Sandra diventò la “compagna” del D’Annunzio, senza badare allo scandalo né alle ire del Marchese Di Rudinì suo padre.

Con le mani sul volante, verso la verità

Ma neppure quella era la gioia per il suo cuore. Nel 1906, ricoverata in una clinica a Firenze, fu operata tre volte, sospesa tra la vita e la morte. Suo padre non si fece vivo. Il poeta le dedicò una pagina delle Faville del maglio e il poemetto Solus ad solam. Erano parole, solo parole, perché, quando iniziava la convalescenza, gli occhi di D’Annunzio si posarono su un’altra donna: Amaranta. L’avventura col vate d’Italia era finita.
Dunque, era altrove la fonte della gioia. Cercarla era per Sandra come inoltrarsi in una foresta senza sentieri. Tuttavia iniziò il cammino. A Renata, figlia del D’Annunzio, la quale era credente, un giorno disse: «Te beata e prega che ti sia risparmiata la terribile angoscia del dubbio».
Coltissima, plurilingue, poteva leggere di tutto, dai vangeli e San Paolo, in greco, ai filosofi contemporanei in tedesco. Immersa nella negazione di Dio non trovava risposta alcuna ai grandi interrogativi dell’esistere, del soffrire e del morire. Don Serenelli l’aiutò molto, ma in modo più decisivo l’aiutò l’abate Gorel che Sandra aveva chiamato dalla Francia, nel 1909, come cappellano di Villa Parlotti a Verona.
Don Gorel la mandò a Lourdes. Partì da Verona, guidando la sua lussuosa automobile, ella stessa. Nella mente il dubbio che la rodeva, eppure, consapevole, fino in fondo che solo nel Cattolicesimo sta la Verità assoluta ed eterna, Sandra aveva già ripreso a frequentare i sacramenti. Ma voleva una fede illuminata, sicura, adulta.
A Lourdes fu colpita dalla sconfinata sofferenza ai piedi della Madonna. Sotto i suoi occhi vide guarire una donna francese completamente cieca, dopo che aveva invocato la Madonna. Dunque, a Lourdes, Gesù, l’Uomo-Dio, operava miracoli servendosi di sua Madre? Era possibile. Quindi Sandra fece esperienza del miracolo della carità presso la santa Grotta, provandone un’impressione grandissima.
Andò ad inginocchiarsi davanti all’immagine della Madonna, invocandola come una bambina sperduta nel deserto. Tutti i dubbi caddero davanti alla forza di Maria Santissima, la rapitrice dei cuori, la condottiera delle anime a Cristo. «Il naturalismo, il positivismo, il razionalismo? Erano tutte chimere. Solo Gesù Cristo è la Verità», dirà più tardi.
Sandra abbracciò Gesù per sempre, Gesù che le era offerto in dono da sua Madre. Nella chiesetta del Carmelo di Lourdes, si confessò e si comunicò con la certezza assoluta ritrovata di aver toccato Dio in persona, di possedere finalmente la felicità: «Il miracolo più grande è ora quello della mia conversione in questo luogo santo. Solo la grazia divina può comunicare la fede con una nuova vita, una vera rinascita».

Il terzo velo

Ritornata da Lourdes nella sua villa sul Garda, prese a vivere come una carmelitana nel mondo: lunghe ore in preghiera davanti al Tabernacolo, ogni giorno il Rosario intero alla Madonna e la recita del Breviario come i sacerdoti. La meditazione delle opere di Santa Teresa e di San Giovanni della Croce. Decise: «Sarò carmelitana per sempre, per amare solo Cristo, per riparare, per intercedere per la Chiesa e per le anime».
Nell’ottobre 1911 a 35 anni, la marchesa Alessandra Starabba Di Rudinì, nel Carmelo di Paray-le-Monial, in Francia, diventò suor Maria di Gesù. Era il terzo velo che scendeva sulla sua fronte, dopo quello della sua prima Comunione e quello di sposa di un uomo: il velo, ora, della sposa di Cristo.
Dal suo Cahier vert, sappiamo che tra il 1912 e il ’13 passò attraverso prove interiori durissime. Tra il 1916 e il ’17 le morirono i due figli di tubercolosi, come il padre. «Non ho più su questa terra, alcun legame, nessun amore, nessuna tenerezza: l’unica ricchezza, l’unico amore che ho è la Croce di Cristo».
Nella preghiera continua, sotto la guida della sua Priora e di santi sacerdoti, diventò una carmelitana matura, dotata di singolari doni. La priora la volle maestra delle novizie, poi, fu eletta priora a Paray: una priora buona, materna, esigente, ma ricca di forte comprensione delle anime, capace di guidare a Gesù, all’unione totale con Lui.
Con l’eredità dei suoi genitori, con i suoi beni personali volle fondare tre nuovi monasteri. Valennienne fu la prima di queste fondazioni che le costò otto anni di fatiche. Il secondo fu il Carmelo di Montmartre, voluto e benedetto dallo stesso cardinal Amette, Arcivescovo di Parigi. Seguì la fondazione del Carmelo del Reposoir in Alta Savoia.
Nel cuore di suor Maria di Gesù, non c’era ormai che un grande amore che la divorava come il fuoco: l’amore per Gesù. Ella, che era stata letteralmente travolta da questo amore, dichiarava che «la vita religiosa al Carmelo doveva essere vita di amore senza confini e non solo osservanza formale delle regole». «Consacrarsi a Lui è amare Lui e, in Lui, la Chiesa e tutte le anime, e sperimentare che Lui ci ama alla follia».
Nel 1930, in autunno, sfinita dal lavoro e dalla dedizione a Dio, si recò al suo Reposoir: le sue condizioni di salute erano ormai disastrose. Venne ancora il dolore atroce a perfezionarla in un olocausto simile a quello di Gesù sulla croce. Nella notte tra il 1° e il 2 gennaio 1931, sentì che Gesù la chiamava per nome. Avvolta di pace e di gioia, ricevuti i Sacramenti, disse piano piano: «Nelle tue mani, Signore, consegno il mio spirito».
Capolavoro stupendo dell’amore di Dio che, accolto, trasforma a sua immagine e somiglianza.
                  
                                             

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