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Eccidio di Pontelandolfo

Post n°1873 pubblicato il 12 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Fu una pagina nerissima, quella strage. I bersaglieri al comando del vicentino Pier Eleonoro Negri, inviati dal generale Enrico Cialdini per vendicare una quarantina di commilitoni massacrati tre giorni prima dai briganti nella vicina Casalduni, piombarono sul paese all'alba. Ricorda nel suo libro di memorie uno dei soldati, il valtellinese Carlo Margolfo: «Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese».

«È indescrivibile», avrebbe annotato Rocco Boccaccino nel libro Memorie dei giorni roventi dell'agosto 1861 , «l'eccidio che ne seguì con tutte le sevizie, a cui uomini e donne, inferociti e privi di ogni senso di pietà, brutalmente si abbandonarono». «Quale desolazione!», ricorda Margolfo inorridito: «Non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava...».

I militari del Regno d'Italia, accusa la delibera del Comune che ha dichiarato Pontelandolfo «città martire», «uccisero bambini, giovani, vecchi, donne e fanciulle, molte di esse dapprima stuprate. Molti soldati si impossessarono di danaro, oro ed altri oggetti di valore. Profanarono anche la Chiesa Madre rubando i doni votivi e finanche la corona d'oro della Madonna. Poi il paese dopo la mattanza fu dato alle fiamme, facendo abbrustolire i morti e quanti, ancora feriti o infermi, nelle proprie case imploravano vanamente e cristianamente aiuto!».

I morti ufficiali furono pochi. Al punto che quando nel 1978 il municipio ricordò per la prima volta la strage («la vivevamo come una colpa, come se in qualche modo ce la fossimo tirata», sospira il sindaco Cosimo Testa) la lapide fu dedicata a solo 17 «ignari inermi innocenti» travolti dall'«inconsulto sterminio». In realtà, secondo l'opinione comune degli storici, che da qualche anno hanno cominciato ad approfondire, sarebbero stati quattrocento. Anche se Pino Aprile scrive nel suo libro Terroni che c'è chi ipotizza che le vittime «siano state più di 1.000, alle quali bisogna aggiungere i morti dei mesi successivi per le ferite riportate».

Tra i cadaveri, c'era quello di una ragazzina, Concetta Bondi, che, come avrebbe scritto nel 1919 Nicolina Vallillo, «per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue».

Ci saranno tutti, oggi, a Pontelandolfo, a stringersi con Giuliano Amato intorno alla memoria delle vittime e a quei cittadini che, a partire dal sindaco Testa e dallo storico locale Renato Rinaldi, hanno rifiutato di farsi arruolare tra i neoborbonici, chiedendo invece, proprio perché si sentono italiani, solo ciò cui avevano diritto e che oggi avranno: le scuse dell'Italia. Ci sarà anche il sindaco di Vicenza Achille Variati in rappresentanza della città di Pier Eleonoro Negri. La banda di Pinerolo dell'esercito, orgoglio dei piemontesi. E infine loro, i bersaglieri. Per arrivare finalmente al fraterno abbraccio fra «le due parti della Penisola» invocato 150 anni fa da Giuseppe Ferrari.

Era ora. Resta il rimpianto che, se gesti storici come questo fossero arrivati prima, ci saremmo forse risparmiati intorno al Risorgimento tante ostilità, tante spaccature, tanti conflitti che certo si sono rivelati tutt'altro che «mali passeggeri».

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