a protesta dello stomaco è la definizione data da Napoleone Colajanni ai moti milanesi del maggio 1898, che vennero duramente repressi dal Regio Esercito, agli ordini del generale Fiorenzo Bava Beccaris e che fanno parte dei cosiddetti Moti popolari del 1898
Situazione prima della sommossa
Nel 1898, l'assetto formale del Regno d'Italia era quello tipico dello Stato liberale ottocentesco, così come si era delineato anche mediante l'esperienza risorgimentale. In particolare, la partecipazione alla vita politica era ancora riservata ad una minoranza di cittadini, appartenenti perlopiù ai ceti agiati: la scelta del suffragio censitario, adottata per motivazioni varie e talora contrastanti, era stata poi conservata, pur con progressive estensioni, anche dai governi della Sinistra storica, nonché sostenuta da un fervente repubblicano quale Francesco Crispi, soprattutto in ragione delle gravi condizioni di analfabetismo in cui, ancora alla fine del secolo, versava una grande parte della popolazione italiana.
Proprio negli stessi anni, l'affacciarsi di nuove istanze sociali dovuto al progressivo sviluppo industriale italiano e lo sviluppo dei primi movimenti di massa, quali il socialismo, interpreti di tante aspirazioni del ceto popolare, crearono sempre maggiori frizioni con le istituzioni, che si orientarono, per contro, a un controproducente irrigidimento su posizioni conservatrici. Sintomatico di ciò, era, ad esempio, l'atteggiamento nei confronti delle nascenti organizzazioni sindacali, tollerate come semplici associazioni nonché controllate dal governo.
Milano all'epoca, con quasi mezzo milione di abitanti, era la seconda città italiana più popolata dopo Napoli e già era la capitale finanziaria della nazione: la città più importante dove sperimentare nuovi modelli di una società semi-industrializzata in una fase cruciale di sviluppo ed emancipazione del ceto popolare guidato da un ceto borghese milanese colto e illuminato.
La situazione nazionale era già problematica per la notevole disoccupazione e i bassi salari, ma il fatto decisivo per il malcontento di massa fu l'aumento di costo del grano e quindi del pane da 35 a 60 centesimi al chilo a causa degli scarsi raccolti agrari. Molti e competenti politici tentarono di organizzare la protesta in modo pacifico per poter ottenere dal governo riforme in senso democratico, ma il malessere popolare era tale che il movimentismo spontaneo di tendenza anarchica, radicale e socialista prevalse: pur non essendoci un progetto rivoluzionario, nel 1898 l'avversione popolare contro tutte le istituzioni statali e coloro che le rappresentavano toccò il suo apice nella allora breve storia d'Italia.
Le prime rivolte popolari si verificarono in Romagna e Puglia il 26 e 27 aprile, e in seguito in tante città e paesi: nei tumulti diversi rivoltosi morirono. Il 2 maggio a Firenze fu dichiarato lo stato d'assedio così come a Napoli due giorni dopo.
La situazione militare a Milano prima degli scontri
Barricate dei rivoltosi ed intervento dei bersaglieri, Milano 1898, foto di Luca Comerio
Sin dai primi giorni del mese di aprile, il generale Bava, comandante il III Corpo d’Armata, considerate le prime avvisaglie di agitazioni manifestatesi in tutta Italia, aveva iniziato l’organizzazione delle forze alle proprie dipendenze, in vista del sempre più probabile utilizzo delle stesse nell’ambito di operazioni di ordine pubblico nelle provincie di pertinenza della sua unità.
Tra i principali presidi del III Corpo d’Armata, oltre a Milano, figuravano, tra gli altri, Como, Bergamo, Brescia, Lecco, Monza, Varese, tutti centri ad alta densità industriale, e dunque, date le contingenze, ad alto rischio di agitazioni. Le forze totali disponibili per il presidio di Milano ammontavano a circa 2000 uomini di fanteria, 600 di cavalleria e 300 di artiglieria a cavallo, e d’altro canto, data la situazione tesa in tutta la Lombardia, non vi era la possibilità di attendersi rinforzi cospicui dai presidi circonvicini. Inoltre, bisogna considerare che la situazione delle truppe ai primi di maggio era ulteriormente complicata dalla chiamata alle armi della classe di leva 1873 (da effettuare nei giorni 6, 7 e 8 maggio), che comportava numerosi problemi logistici e organizzativi.
Il 2 maggio, il Ministero dell’Interno, considerata la situazione generale del Regno, aveva autorizzato i Prefetti ad affidare, in caso di necessità, il ristabilimento dell’ordine all’Autorità militare territorialmente competente. Il 5 maggio, il Prefetto di Milano, barone Antonio Winspeare, comunicò al generale Bava che per il giorno seguente si temevano gravi disordini in città. Il generale provvide così a richiamare in città anche il 5º Reggimento Alpini, che si trovava alle sedi estive, inviandone però due distaccamenti a Varese e Lecco. Le truppe presenti a Milano, alla sera del 5 maggio, potevano così contare su un rinforzo di circa 150 alpini.
Le quattro giornate milanesi
Venerdì 6 maggio
Il 6 maggio 1898 verso mezzogiorno, alcuni agenti di polizia s'infiltrarono tra gli operai della Pirelli di via Galilei; approfittando della pausa pranzo, in fabbrica venivano distribuiti volantini di protesta, su cui fra l'altro stava scritto che il governo era il vero responsabile della carestia che travagliava il Paese. La polizia arrestò sindacalisti e operai: dovette muoversi Filippo Turati, deputato dal 1896, per farli rilasciare quasi tutti, e in questura ne restò solo uno. I lavoratori della Pirelli reclamarono la liberazione del compagno e la loro protesta ebbe la solidarietà delle maestranze di altre fabbriche cittadine. Al termine della giornata il braccio di ferro tra operai e poliziotti non era finito: verso sera, in risposta alla sassaiola di un gruppo di dimostranti, la polizia sparò qualche colpo. Verso le 18.30, un drappello del 2º battaglione del 57º Reggimento fanteria "Abruzzi", al comando dell’allora maggiore Luca Montuori, venne richiamato da forti rumori in via Napo Torriani: una folla di circa 1000 dimostranti stava assaltando la caserma di Questura, e, dopo aver ammucchiato materiali e mobilio davanti al portone, stava anche tentando di darvi fuoco. Nel frattempo, il Delegato di Pubblica Sicurezza, insieme alle guardie presenti in caserma e ad un altro drappello di militari, precedentemente ritiratosi all’interno dell’edificio, resosi conto della situazione, ordinò alla truppa di uscire e, per forzare il blocco opposto dai manifestanti, dalla cui massa erano anche partiti alcuni colpi di arma da fuoco, dopo uno squillo di tromba fece aprire il fuoco sulla folla. I manifestanti arretrarono, dando così modo all’altro drappello di soldati di raggiungere la caserma e respingere poi, senza ulteriormente fare fuoco, la folla fino oltre la vicina stazione ferroviaria. Cessati gli scontri, rimasero sul terreno circa 8 manifestanti, di cui 2 morti, e una guardia di P. S., certo Violi, gravemente ferito da una rivoltellata. Morì poche ore dopo in ospedale. Per stessa ammissione del generale Bava, questo episodio, che fu in pratica il primo scontro cruento tra militari e manifestanti avvenuto a Milano, fu tra le principali cause del successivo precipitare degli avvenimenti.
Sabato 7 maggio
Il giorno seguente, 7 maggio, venne proclamato uno sciopero generale di protesta al quale la cittadinanza aderì in massa riversandosi nelle strade principali della città. Agli operai provenienti dagli stabilimenti della periferia milanese, si aggiunsero quelli delle attività presenti in città, oltre a un'imponente massa di popolazione appartenente alle più varie categorie, dalle tabacchine ai macchinisti ferrotramviari. Massiccio fu anche il concorso di giovani e comunque di cittadini non organizzati, oltre alla ovvia e cospicua presenza di attivisti e agitatori di ispirazione anarchica, repubblicana, socialista, nonché di una quota non indifferente di cattolici intransigenti, sostenitori del potere temporale del papa, il cui punto di riferimento era don Davide Albertario, direttore dell'Osservatore Cattolico.
Barricate furono innalzate a Porta Venezia, Porta Vittoria, Porta Romana, Porta Ticinese e Porta Garibaldi. Il generale Bava, dopo aver ricevuto un telegramma dal Governo in cui gli si affidava il ristabilimento dell'ordine in città, si portò in Prefettura, da dove organizzò preliminarmente l’impiego delle truppe. Affidatane la direzione operativa al generale Luchino Del Majno, si portò in Piazza del Duomo, ove, sotto una tenda da campo, insediò il suo quartier generale. Da lì intendeva dirigere direttamente le truppe con un movimento a raggiera, con l'obiettivo di respingere la massa dei dimostranti verso le porte della città.
Nel pomeriggio di quella stessa giornata, il governo, irremovibile nel vedere dietro i disordini una trama rivoluzionaria, decretò per Milano lo stato d'assedio, affidando i pieni poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris, che fu così nominato Regio Commissario Straordinario della Città e Provincia di Milano. Entrò così in azione, per riportare l'ordine, l'esercito con la cavalleria, il cui effetto venne però vanificato dalle barricate prontamente erette e dalle tegole lanciate dai tetti delle abitazioni. Il passo successivo fu quindi, da parte delle truppe e delle forze di polizia, il ricorso al fuoco contro i manifestanti.
Tra l’altro, numerose vittime civili si contarono proprio tra i curiosi che, dalle finestre, assistevano agli scontri nelle vie della città, tanto che, in un decreto commissariale dello stesso 7 maggio, il generale Bava ordinò che «verificandosi conflitti per le vie si dovranno chiudere le persiane che prospettano le vie medesime». Alla sera del 7 maggio, secondo le stime ufficiali, a Milano vi era una massa di almeno 30.000 dimostranti, il cui numero è però da considerarsi realisticamente molto maggiore. Viceversa, agli iniziali circa 3000 militari presenti a Milano, ai quali si affiancavano circa 1000 agenti di polizia, vennero progressivamente ad aggiungersi due battaglioni provenienti dal 91° e dal 92º Reggimento fanteria "Basilicata" e un ulteriore battaglione del 48º Reggimento fanteria “Ferrara”, oltre a uno squadrone del 23º Reggimento Cavalleggeri “Umberto I”.
Domenica 8 maggio
La giornata dell'8 maggio era destinata a imprimersi, tragicamente, nell’immaginario collettivo: i cannoni entrarono in azione contro le barricate e la folla, composta da uomini e donne, ma anche da vecchi e bambini. Quel giorno infatti, mentre continuavano ad affluire piccoli nuclei di rinforzi alle truppe, la situazione si faceva particolarmente drammatica, data la persistenza di numerose barricate, che il solo impiego delle truppe a piedi e a cavallo non riuscivano ad eliminare. In particolare, a Porta Ticinese si registrava la situazione più grave, giacché la folla a presidio delle barricate era particolarmente numerosa e ben determinata a non cedere agli attacchi delle truppe. I comandi, in ultima analisi nella persona del generale Bava Beccaris, decisero così l’utilizzo dell’artiglieria. I pezzi della 2ª batteria a cavallo spararono così alcuni colpi a mitraglia, ottenendo sì una rapida dispersione della folla, ma provocando diverse vittime.
Non solo, ovviamente, i settori vicini ai manifestanti, ma anche l’opinione pubblica moderata restò profondamente scossa da quelle cannonate, che rappresentarono, e rappresentano tutt’ora, una delle più gravi responsabilità del generale Bava. I morti accertati, secondo l’esercito, furono 3, oltre, però, a numerosissimi feriti, anche molto gravi. Alla sera del giorno 8, il generale Bava Beccaris telegrafò al Presidente del Consiglio, Antonio di Rudinì, e al Ministro della Guerra, Alessandro Asinari di San Marzano, che la rivolta si poteva «considerare domata».
Lunedì 9 maggio
Nella notte tra l’8 e il 9 maggio, giunsero a Milano anche due colonne di rinforzi alle truppe, comandate dai generali Pelloux e Marras, che portarono così il presidio cittadino a circa 6200 effettivi totali. Il 9 maggio i militari continuarono a eseguire scariche di fucileria, obbedendo agli ordini, ma i rivoltosi milanesi continuarono a opporre una tenace resistenza con le barricate, a conferma del fatto che le agitazioni non erano ancora del tutto cessate.
Dopo che alcuni informatori avevano riferito che all’interno del convento dei Cappuccini in via Monforte si erano rifugiati numerosi rivoltosi, si ebbe un altro episodio particolarmente drammatico: i comandi ordinarono nuovamente l’utilizzo dell’artiglieria. I soldati, a cannonate, aprirono così una breccia nel muro di cinta del convento, provocando, anche qui, alcuni morti. Una volta penetrativi, trovarono i frati e circa 150 poveri che attendevano la distribuzione giornaliera del cibo. Furono tutti prelevati e portati in prefettura, salvo poi essere in gran parte rilasciati nei giorni successivi. Dopo che altri numerosi milanesi restarono uccisi e feriti, i bersaglieri espugnarono l'ultima barricata in zona di largo La Foppa.
La carneficina
Le vittime della carneficina non son state precisamente quantificate dagli storici per diversi motivi. Il numero esatto delle vittime mai è stato precisato: le autorità di allora fissarono in un centinaio i morti e circa 400 i feriti. Secondo la Prefettura, le vittime accertate furono 88, mentre secondo il celebre cronista e politico repubblicano Paolo Valera, i morti sarebbero stati almeno 118, e i feriti oltre 400. Secondo alcuni testimoni oculari i morti furono oltre 300. Il governo diffuse i suoi dati e i giornali di opposizione esagerarono i numeri a scopo propagandistico denunciando financo 800 morti. Nel celeberrimo canto popolare ci si riferisce a mille caduti ma la cifra è da considerare una licenza poetica.
La Croce Rossa fornì alcuni dati ma non ebbe il controllo totale nei soccorsi; molti familiari di morti e feriti non denunciarono i decessi né si avvalsero di strutture ospedaliere onde evitare le conseguenze della repressione. Tra i soldati si contarono due morti: uno si sparò accidentalmente e l'altro fu fucilato sul posto subito dopo essersi rifiutato di aprire il fuoco sulla folla.
Situazione dopo la sommossa
La repressione
Lo stato d'assedio venne mantenuto anche quando i milanesi erano stati ormai ridotti in condizioni di non nuocere. Tutti i giornali antigovernativi subirono la messa al bando e tanti furono gli arrestati anche tra i deputati parlamentari: tra gli altri subirono l'arresto Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Andrea Costa, Leonida Bissolati, Carlo Romussi, Paolo Valera.
Per la sanguinaria repressione, a Fiorenzo Bava Beccaris, soprannominato il macellaio di Milano dall'opinione pubblica, venne conferita la croce di Grande Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia: gesto che inasprì ancor più gli animi. Il capo del governo, Antonio di Rudinì, gli telegrafò: «Ella ha reso un grande servigio al Re e alla patria».
Meno di un mese dopo, il 6 giugno 1898 il Re in persona mandava a Bava Beccaris il seguente telegramma: «Ho preso in esame le proposte delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A lei poi personalmente volli offrire di motu proprio la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria. Umberto».
Il generale Bava Beccaris ottenne un seggio al Senato il 16 giugno 1898.
Le conseguenze
Numerosi disordini e tumulti si susseguirono in altrettanti comuni italiani sino alla prima guerra mondiale. L'eco della strage sollevò grande impressione nelle numerose comunità italiane all'estero, formate dai milioni di emigranti che, nell'ultimo quarto del XIX secolo, erano espatriati in cerca di lavoro, costretti dalle disastrose condizioni economiche nazionali. Lo storico Ettore Ciccotti portò solidarietà ai rivoltosi milanesi e perciò fu accusato di propaganda sovversiva, che gli costò la destituzione dalla cattedra dell'accademia scientifico-letteraria di Milano e la fuga in Svizzera per evitare l'arresto. Durante la sua latitanza svizzera scrisse il saggio La sommossa di Milano - Note di un profugo (1898). Il 29 luglio del 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall'anarchico Gaetano Bresci, emigrato negli Stati Uniti, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l'offesa per la decorazione conferita a Bava Beccaris
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Post n°1898 pubblicato il 14 Febbraio 2012 da odette.teresa1958
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Ciao, serena serata
Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
Ciao per passare le tue vacanze vi consigliamo Lampedusa...
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
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