Il labirinto
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Henry Maximilian Beerbohm (Londra, 24 agosto 1872 – Rapallo, 20 maggio 1956) è stato uno scrittore e caricaturista inglese.
Imparentato con l'attore e produttore Herbert Beerbohm Tree, frequentò la Charterhouse School e successivamente il Merton College ad Oxford, diventando segretario del Myrmidon Club. Ricevette elogi da parte di George Bernard Shaw, lo scrittore, nel descrivere le capacità di Max Beerbohm, affermò che «la sua abilità non era comparabile a quella di nessun altro».
Affascinato da Oscar Wilde e Walter Pater, si distinse non solo per l'eleganza che utilizzava nei versi, ma anche per non aver mai voluto seguire i temi romantici e sentimentali del decadentismo, distaccandosi da esso. Agli inizi della carriera preferì utilizzare la forma del panegirico (discorso di enfatico encomio, talvolta esagerato), con uno stile affine a quello di Alexander Pope.
La sua prima raccolta di saggi si intitolò The works of Max Beerbohm, a cui seguì More e Yet again. La sua opera successiva, A Christmas Garland si rivelò un'imitazione di vari autori contemporanei, mentre verso la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento realizzò i suoi lavori più impegnativi e riusciti: Happy Hypocrite (1897) e Zuleika Dohson (1911).[1]
Al termine della prima guerra mondiale, Max Beerbohm espresse il suo percorso di evoluzione artistica e d'interpretazione del mondo con le sue due opere, Seven Men ed And even now (1920).
L'autore alternò la pubblicazione di saggi con quelle di raccolte di disegni caricaturali impreziositi con alcune celebri battute, tra le quali si ricordano: Book of caricatures e The poet's corner. La sua carriera letteraria si concluse con Mainly in the air, una sorta di rievocazione delle atmosfere della Londra vittoriana.
Nel 1898 seguì Shaw lavorando come critico per Saturday Review,[2] rimanendo nel gruppo di lavoro della rivista sino al 1910.
Il rapporto con Oscar WildeBeerbohm apostrofava Oscar Wilde come "divinità", mentre lo scrittore irlandese definiva Max Beerbohm come la persona che possedeva «l’eterna vecchiezza». Quando egli scrisse Happy Hypocrite, opera che parlava di un uomo e della sua maschera, fu giudicato da Wilde quale tentativo d'imitazione dei suoi scritti, affermazione che non lo rese felice[3]
Inoltre anche la stesura del romanzo Zuleika Dobson ricordava le opere di Wilde.
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