Messaggi del 27/06/2011

Il marito di mia moglie (Pirandello)

Post n°144 pubblicato il 27 Giugno 2011 da odette.teresa1958

Il cavallo e il bue, ho letto una volta in un libro, di cui non ricordo più né il titolo né l’autore, – il cavallo e il bue...
Ma sarà meglio lasciarlo stare, il bue. Citiamo il cavallo soltanto.
Il cavallo, – dunque, – che non sa di dover morire, non ha metafisica. Ma se il cavallo sapesse di dover morire, il problema della morte diventerebbe alla fine, anche per lui, più grave assai di quello della vita.
Trovare il fieno e l’erba è, certo, gravissimo problema. Ma dietro questo problema sorge l’altro: «Perchè mai, dopo aver faticato venti, trenta anni per trovare il fieno e l’erba, dover morire, senza sapere per qual ragione si è vissuto?».
Il cavallo non sa di dover morire, e non si fa di queste domande. All’uomo però, che – secondo la definizione di Schopenhauer – è un animale metafisico (che appunto vuol dire UN ANIMALE CHE SA DI DOVER MORIRE), quella domanda sta sempre davanti.
Ne segue, se non m’inganno, che tutti gli uomini dovrebbero sinceramente congratularsi col cavallo. E tanto più quelli animali metafisici che, malati, per esempio, come me, non solo sanno di dover morire tra breve, ma anche ciò che accadrà in casa loro, dopo la loro morte, e senza potersene adontare.
I residui non sono mai limpidi. L’umor vitale agli sgoccioli s’inacidisce vie più, di giorno in giorno, dentro di me. E voglio, riempiendo questi pochi foglietti di carta, procurarmi la soddisfazione sapor d’acqua di mare (soddisfazione che pur non sentirò) di far conoscere a mia moglie, che avevo tutto preveduto.
L’idea m’è nata questa mattina. E m’è nata perché mia moglie m’ha sorpreso nel corridojo, dietro l’uscio del salotto, cheto e chinato a spiare per il buco della serratura.

– O tu che non sei geloso, – mi gridò, – che stai a far lì? To’, guarda! Ti sei finanche tolte le scarpe, per non far rumore.

Mi guardai i piedi. – Scalzi! – era vero. E mia moglie intanto rideva fragorosamente. Che dire? Balbettai sciocchissime scuse: che non spiavo affatto, che solo per curiosità m’ero spinto a guardare: non avevo più sentito il pianoforte; non avevo veduto andar via il maestro, e così...
Ma giuro che le scarpe (con rispetto parlando) me l’ero tolte da un pezzo, senza intenzione. Mi fanno male. E lei, la mia cara Eufemia che mi ha sorpreso lì scalzo, dovrebbe sapere perché mi fanno male, e non riderne, almeno davanti a me. Ho gli edemi ai piedi e, per ingannare il tempo, me li tasto: li premo, vi affondo una ditata e poi sto a guardare come a poco a poco rivenga su.
Ciò non toglie però che non abbia commesso una imperdonabile sciocchezza.
Ma se lo sapevo, ma se lo so, che mia moglie non può soffrirlo, quel suo maestro di musica! E poi sono certo, certissimo che – finché vivo – ella non mi tradirà. Non mi ha tradito in tanti anni, e dovrebbe confondersi per un altro pajo di mesi – e poniamo – quattro, sei? Ma no: ella avrebbe pazienza, ne son sicuro, anche se tirassi avanti, così, ancora un anno.
E poi, lo conosco, lo conosco bene il marito – (futuro) – di mia moglie! E anche per lui potrei metter le mani sul fuoco che non mi farà il minimo torto, finché il naso mi fumica.
È, s’intende, un mio carissimo amico. Ottimo giovine.
Giovine, poi, veramente, non tanto. Quarant’anni, quasi l’età mia. Ma già, io, come se n’avessi cento; mentre lui, solido, ben piantato nella vita, come in un bosco una quercia; e poi dotato, come dicevano gli antichi, «di tutte quelle buone parti che a fare un perfetto marito si ricercano»: castigati costumi, generosa e gentilissima natura.
Lo provano le cure che ha per me.
Quasi ogni giorno, per dirne una, viene con la vettura per farmi prendere una boccata d’aria. Mi dà il braccio e m’ajuta a scendere pian pianino la scala, obbligandomi a sostare sui pianerottoli, a ogni branca, fin tanto che lui non abbia contato fino a cento; poi mi tasta il polso per sentirne la repenza, mi guarda negli occhi, mi domanda dolcemente:

– Proseguiamo?

– Proseguiamo.

E così via, fino in fondo, pian pianino, pian pianino. Per risalire, dopo la scarrozzata, – egli da una parte, il portinajo dall’altra – mi portano su in sedia.
Mi sono ribellato, ma invano. Non posso, è vero, far sette scalini di fila, che l’ansito non mi sopravvenga insopportabile; ma ecco: vorrei che l’amico non si pigliasse tanto fastidio; che il portinajo si facesse almeno ajutare da qualcun altro... Che! Florestano, se gli fosse possibile, vorrebbe portarmi su lui solo, senza ajuto. Via, in fin de’ conti, non peso molto (sì e no, quarantacinque chilogrammi, con tutti gli edemi); e poi penso: servendo me, vuol guadagnarsi la felicità futura. Lasciamolo fare!
Anche mia moglie Eufemia, dall’altro canto, è quasi felice di soffrire per me, e più vorrebbe, per guadagnarsi anche lei, di fronte alla propria coscienza, il diritto di goder dopo, senz’alcun rimorso. Onesto diritto, onestissimo compenso, che né la vita né la coscienza possono negarle, e di cui io, ripeto, non debbo adontarmi.
Confesso tuttavia che, più volte, m’avviene quasi quasi di desiderare che l’uno e l’altra siano due birbaccioni matricolati. L’onestà dei loro propositi, la squisitezza dei loro sentimenti, diventa spesso per me la più raffinata delle crudeltà, poiché io, non potendo in nessun modo ribellarmi a quanto avverrà senz’alcun dubbio dopo la mia morte, mi vedo costretto, per esempio, tante volte, a tirarmi tra le gambe il mio piccino, l’unico mio figlioletto, e a mettermi a insegnargli d’amare, d’aver rispetto filiale per colui che sarà fra poco suo secondo padre, e ad ammonirlo perché cerchi di non dargli mai causa, che abbia a lamentarsi di lui. E gli dico:

– Vedi, Carluccio mio: tu hai le manine sporche. Come t’ha detto jeri zio Florestano, quando t’ha veduto una cenciata d’inchiostro sul nasino? T’ha detto: «Lavati, Carluccio, o ti catturano, sai!». Non è mica vero, però: zio Florestano scherza. Oggi non costuma più mandare in galera chi ha le mani sporche. Ma tu lavatele a ogni modo, perché zio Florestano ama i bambini puliti. Egli è tanto buono e ti vuol tanto bene, Carluccio mio; e anche tu, sai, devi volergliene tanto tanto; e ubbidirlo, sai! sempre; e lasciarlo sempre contento di te. Hai capito, figlietto mio?

E gli magnifico tutti i regalucci ch’egli, per far piacere a Eufemia, gli porta. Il povero piccino mio segue i miei consigli, e già lo venera. L’altro giorno, per esempio, Florestano se lo portò a spasso, e, al ritorno, mi raccontò ridendo che, mentre camminavano insieme, traversando la piazza piena di sole, a un certo punto Carluccio mise un grido, s’arrestò e gli domandò tutt’afflitto:

– T’ho fatto male, zio Florestano?

– No, Carluccio. Perché?

E il mio piccino, ingenuamente:

– T’ho pestato l’ombra, zio Florestano.

Eh via, no: fino a questo punto, no, povero Carluccio mio! Sei stato proprio sciocchino. L’ombra, vedi, l’ombra si può calpestare: zio Florestano e la mammina tua la calpesteranno un giorno l’ombra di tuo papà sicuri di non fargli male, poiché, in vita, si saranno guardati bene dal pestargli anche un piede.
Che gara di compitezze fra noi tre! E che grazioso martirio, intanto. Da povero malato, io vorrei lasciarmi andare come vien viene; invece, mi vedo costretto a tenermi su, per pesare quanto meno sia possibile su loro, che altrimenti m’userebbero tanti altri riguardi, tante altre premure che mi fanno ribrezzo, talvolta, anzi orrore. Avrò torto. Ma questo spettacolo della nostra squisita civiltà, delle nostre continue cerimonie, davanti alla soglia della morte, mi sembra una stomachevole pagliacciata. Coi guanti gialli, e infinite cortesie, mi vedo dolcemente sospinto da loro fino a questa soglia; e ora mi sembra che mi s’inchinino e mi dicano con un sorriso grazioso sulle labbra:

– Passi pure. Buon viaggio! E stia sicuro, sa, che noi ci ricorderemo sempre sempre di lei, così buono, così prudente e ragionevole!

Mi hanno insegnato che bisogna esser sinceri. Sinceri? Ma la sincerità, per me, a questo punto, vorrebbe dire senz’altro: uccidere. Dio me ne guardi! Chi mi trattiene?
Parliamo un po’ sul serio. Se io non avessi fede, se io non credessi in Dio, davvero; se credessi invece che la morte sia limite anche all’anima d’ogni avvenire, e che, mancandomi la terra sotto i piedi, il vuoto e null’altro m’accoglierà, credete che Florestano io non lo ammazzerei?
Quando penso, certe notti, nell’insonnia, che egli si coricherà nel mio letto, al posto mio, lì, con tutti i miei diritti su mia moglie e su le cose mie: quando penso che nel lettuccio della camera accanto il figlietto mio, l’orfanello mio, qualche notte forse si metterà a piangere e chiamerà la mamma sua, e penso che egli a mia moglie che vorrà accorrere a vedere che cos’ha il piccino mio che piange, forse dirà: – «Ma no, cara, lascialo piangere; non scendere dal letto; ti raffredderai!» – io, Florestano, vi giuro, lo ammazzerei!
Invece, ogni notte, seduto presso la finestra, me ne sto quieto quieto a contemplare il cielo, a lungo. C’è una stellina piccola piccola lassù, a cui tengo fissi gli occhi e a cui dico spesso, sospirando:

– Aspettami, verrò!

E ad Eufemia, che è figlia d’un libero pensatore e ostenta di non credere in Dio, ripeto spesso:

– Sciocca, credici: Dio esiste. E ringrazialo, sai? Ringrazialo.

Eufemia mi guarda, come se le paresse strano che io, Luca Lèuci, possa dirle così, io che – secondo lei – non avrei davvero alcun obbligo di crederci, poiché Dio mi tratta male, facendomi morire così presto. Ma lo ringrazierà, quando le verranno tra mano questi pochi foglietti di carta, se ama di cuore il suo Florestano.
Intendo bene che l’unica è di morir presto, qua. Vedo certe volte Florestano che con gli occhi e coi sospiri si sforza di far capace mia moglie dei desiderii che lo tormentano, pover’uomo! M’immagino allora mia moglie col bel capo biondo reclinato vezzosamente sull’ampio petto quadro di lui, nell’atto di carezzargli appena appena, stirando in su con due dita, i lunghi peli rossicci del magnifico pajo di baffi... Oh voluttà! Pazienza anche tu, cara Eufemia mia! E certe paroline di notte, come le hai dette a me, abbracciata con me, le dirai presto, le dirai anche a lui, senza quasi sapere di dirle:

– Tesoro mio... Ah, caro... sì, sì... Caro, caro...

Mi vien da ridere, da ridere. Tutti e due allora, maravigliati, mi domandano perché ho riso: io dico un motto di spirito, e Florestano osserva:

Tu sarai vecchio, caro Lèuci, e sempre così celione!

Ma spesso anche non riesco a esser celione, come dice l’amico mio. L’arguzia, senza volerlo, mi diventa mordace, e allora Florestano, in vettura con me, ci soffre a sentirmi parlare. Io gli dico:

– Se non fosse un brutto posto, ti proporrei, caro Florestano, di metterti un momentino al posto mio. T’assicuro che ti farebbe lo stesso effetto curioso che fa a me questo poter vedere la vita così, come resterà per gli altri, nella certezza che tra poco, forse mentre stai a dirlo, essa per te finirà; e il poter pensare ciò che gli altri faranno ragionevolmente, quando tu non sarai più.

Parlo chiaro; ma Florestano finge di non comprendere. E io continuo:

– Caro Florestano, io so, per esempio, la corona di porcellana che verrai a depormi sulla fossa, quando vi giacerò.

Florestano mi dà sulla voce, e io allora mi taccio e, così magro magro e pallido e afflitto come sono, mi metto a guardare dal cantuccio della vettura che va a passo per gli aerei viali del Gianicolo, questa dolcezza di sole che tramonta; la vita, come la assaporeranno gli altri, anche amara, che importa? questo grosso sanguigno uomo qua, che mi siede accanto e sospira; mia moglie che a casa, in attesa, anche lei sospira: e anche, senza più me, il mio piccino, che un giorno, presto, non saprà più chi ero, com’ero!

– Papà...

E Florestano, voltandosi, gli risponderà sgarbato:

– Che vuoi?

Il marito di tua madre, Carluccio, che non è il tuo papà vero. Ci pensi?

Ma la vita pure, Carluccio, è così bella... così piena...

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NOVELLE PER UN ANNO - 1924 - TUTT'E TRE

6. La maestrina Boccarmè (1899 - 1900)

 

 

«Il Marzocco», 31 dicembre 1899 e 7, 14, 21, 28 gennaio 1900 col titolo Salvazione, poi in Quand'ero matto, Streglio, Torino 1902.

 


 

 
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Alta moda a S.Tobia

Post n°143 pubblicato il 27 Giugno 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,grazie alla nostra sindachessa il nostro paesino si avvia a conquistare fama mondiale!E' stata infatti della Marianna l'idea di organizzare una sfilata di moda a S.Tobia.Avrebbe dovuto sfilare la collezione estiva della nota stilista romana Olimpia Taripijo (una dei 56 nipoti del vescovo Orapronobis,nda)
Se pensate alla Campbell o alla Schiffer,siete fuori strada.Dopo attenta e ponderata (?) riflessione,la stilista ha affidato i suoi modelli alle sei donne più belle di S.Tobia:le tre sorelle Martellacci (Fidalma,moglie del becchino Geremia,Cleopatra,moglie del Cuccurullo e l'Armida),Ermengarda Trogoloni (figlia dell'Astorre e della Bradamante,nonchè sorella di Caino,Ladislao eBernabò),la Candida e la Berenice (convivente di "Be'erino" dopo la separazione dalla Targiona).Oltre a loro,a S.Tobia avrebbe debuttato una misteriosa topmodel africana,beccata dalla taripijo durante un safari.
Sette giorni fa si èsvolta la sfilata.
A 5 minuto dall'inizio è cascato il primo asino.
L'Armida,accecata dal riflettore, è caduta dalla passerella,dritta in braccio a un bodyguard della Taripijo,tal Giobbe Scorfanelli da Rho.Il tizio,in preda al colpo di fulmine,se l'è presa a fagotto,ben deciso a portarsela anche a piedi in quel di Rho.L'Armida,ovviamente,non era d'accordo.Solo l'intervento di Ireneo e del suo cane Belva hanno salvato la poveretta da un atroce destino.Lo choc però è stato tale che l'han dovuta portare via a braccia.
Dopo il parapiglia la sfilata è ripresa.
La Fidalma indossava una minigonna trasparente.La vista di tanto ben di Dio ha spinto il vigile del fuoco Apollonio Scortichetti a lanciare un fischio di apprezzamento.
Non vi dico il gelosissimo Geremia.per poco non ha segato il collo al malcapitato,poi ha trascinato via la moglie stile uomo delle caverne.
Alla Candida si è scucito l'abito da sera,lasciandola in mutande.La poverina è stata colta da malore.
La Berenice ,invece è scivolata su una buccia di banana posta sul palco dalla Targiona e si è incrinata il coccige.
Disperata,la Taripijo ha deciso di far sfilare la misteriosa topmodel.
Una sinuosa figura velata si è fatta vanti sulla passerella,sotto gli occhi curiosi e perplessi dei paesani:Una volta al centro del palco ha alzato il velo...ed è cascato l'asino più grosso,perchè di altri non si trattava che di Taitù,la moglie di Isaia e figlia di Zibidè!
Alla sua vista,Cesira e Teobaldo han dato di piglio agli schioppi e per forza di cose la serata è finita lì.
E' passata una settimana.
La Taripijo ha deciso di farsi monaca buddista in Tibet.
Lo Scorfanelli si è rivolto a "Stranamore".L'Armida vive nascosta in una località protetta.
La Fidalma esce col burqa,tenuta al guinzaglio dal marito
La Berenice ha citato la Targiona a "Forum"
Taitù ha deciso che la moda non fa per lei ed è tornata in Burundi.
E mentre si spengono i riflettori su S.Tobia,io mi vado a vedere Beautiful (sempre moda è,no?)





 

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Inferno canto XXVI

Post n°142 pubblicato il 27 Giugno 2011 da odette.teresa1958

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande! 3

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali. 6

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo. 12

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee; 15

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia. 18

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire: 39

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola. 42

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto. 45

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso". 48

"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti: 51

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?". 54

Rispuose a me: "Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira; 57

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta". 63

"S’ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!". 69

Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna. 72

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto". 75

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi: 78

"O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco 81

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi". 84

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica; 87

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando 90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse, 93

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta, 96

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; 99

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. 102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna. 105

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111

"O frati," dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia 114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. 117

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza". 120

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; 123

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. 126

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. 129

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, 132

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. 135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. 138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

 
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Libri dimenticati:Mila 18 (Leon Uris)

Post n°141 pubblicato il 27 Giugno 2011 da odette.teresa1958

In questo romanzo che parte dall'invasione della Polonia da parte dei tedeschi nel 1939 ed arriva fino alla rivolta del Ghetto di Varsavia,Uris ricostruisce la storia degli ebrei di Varsavia.
Il titolo prende spunto dal palazzo di via Mila,appunto al 18,dove aveva sede il quartier generale degli insorti nel 1943.
Uris ci lascia personaggi indimenticabili.Andrei,il coraggioso ufficiale che diventerà il capo degli insorti;Sua sorella Debora, sposata ad un ebreo che sceglie per codardia di collaborare coi tedeschi e innamorata di Christopher,coraggioso giornalista americano e sceglierà la morte per salvare la figlia Rachel:Rachel,la ragazza che per amore del suo popolo e del giovane Wolf si trasformerà in un'eroina della resistenza,AlexanderBrandel,lo storico ebreo che diventerà l'ideologo dell'insurrezione...
E' un libro avvincente,toccante,precisissimo nella ricostruzione storica,da leggere in un fiato

 
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Frase del giorno

Post n°140 pubblicato il 27 Giugno 2011 da odette.teresa1958

Il corpo del povero cadrebbe in pezzi se non fosse legato al filo dei sogni (Anonimo)

 
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