Messaggi del 28/06/2011

Nenè e Ninì

Post n°150 pubblicato il 28 Giugno 2011 da odette.teresa1958

Nené aveva un anno e qualche mese, quando il babbo le morì. Ninì non era ancor nato, ma già c’era: si aspettava. Ecco: se Ninì non ci fosse stato, forse la mammina, quantunque bella e giovane, non avrebbe pensato di passare a seconde nozze: si sarebbe dedicata tutta alla piccola Nené. Aveva da campare sul suo, modestamente nella casetta lasciatale dal marito e col frutto della sua dote.
Il pensiero d’un maschio da educare, così inesperta come lei stessa si riconosceva e senza guida o consiglio di parenti né prossimi né lontani, la persuase ad accettar la domanda d’un buon giovine, che prometteva d’esser padre affettuoso per i due poveri orfanelli.
Nené aveva circa tre anni e Ninì uno e mezzo, quando la mammina passò a seconde nozze.
Forse per il troppo pensiero di Ninì, non badò che si potesse dare il caso d’aver altri figliuoli da questo secondo marito. Ma non trascorse neppure un anno, che si trovò nel rischio mortale d’un parto doppio. I medici domandarono chi si dovesse salvare, se la madre o le creaturine. La madre, s’intende! E le due nuove creaturine furono sacrificate. Il sacrifizio però non valse a nulla perché, dopo circa un mese di strazii atroci, la povera mammina se ne morì anche lei, disperata.

Così Nené e Ninì restarono orfani anche di madre, con uno che non sapevano neppure come si chiamasse, né che cosa stésse a rappresentar lì in casa loro.
Quanto al nome, se Nené e Ninì lo volevano proprio sapere, la risposta era facile: Erminio Del Donzello, si chiamava; ed era professore: professore di francese nelle scuole tecniche. Ma quanto a sapere che cosa stésse più a far li, ah non lo sapeva nemmeno lui, il professor Erminio Del Donzello.
Morta la moglie, morte prima di nascere le sue creature gemelle: la casa non era sua, la dote non era sua, quei due figliuoli non erano suoi. Che stava più a far lì? Se lo domandava lui stesso. Ma se ne poteva forse andare?
Lo chiedeva con gli occhi rossi e quasi smarriti nel pianto a tutto il vicinato che, dal momento della disgrazia, gli era entrato in casa, da padrone, costituendosi da sé tutore e protettore de’ due orfanelli. Di che lui forse, si sarebbe dichiarato gratissimo, se veramente il modo non lo avesse offeso.
Sì, sapeva che molti, purtroppo, giudicano dati apparenza soltanto, e che i giudizii che si davano di lui forse erano iniqui addirittura, perché, effettivamente, la figura non lo aiutava troppo. La eccessiva magrezza lo rendeva ispido, e aveva il collo troppo lungo e per di più fornito d’un formidabile pomo d’Adamo, la sola cosa grossa in mezzo a tanta magrezza; e ruvidi i baffi, ruvidi i capelli pettinati a ventaglio dietro gli orecchi; e gli occhi armati di occhiali a staffa, poiché il naso non gli si prestava a reggere un più svelto paio di lenti. Ma, perdio, da quel suo collo così lungo egli credeva di saper tuttavia cavar fuori una seducentissima voce e accompagnare le sue frasi dolci e gentili con molta grazia di sguardi, di sorrisi e di gesti, con le mani costantemente calzate da guanti di filo di Scozia, che non si levava neanche a scuola, impartendo le sue lezioni di francese ai ragazzini delle tecniche, che naturalmente ne ridevano.
Ma che! Nessuna pietà, nessuna considerazione per lui, in tutto quel vicinato, per la sua doppia sciagura. Pareva anzi che la morte della moglie e delle sue creaturine gemelle fosse giudicata da tutti come una giusta e ben meritata punizione.
Tutta la pietà era per i due orfanelli, di cui in astratto si considerava la sorte. Ecco qua il patrigno, adesso, senza alcun dubbio, avrebbe ripreso moglie: una megera, certo, una tiranna; ne avrebbe avuto chi sa quanti figliuoli, a cui Nené e Ninì sarebbero stati costretti a far da servi, fintanto che, a furia di maltrattamenti, di sevizie, prima l’una e poi l’altro, sarebbero stati soppressi.
Fremiti di sdegno, brividi d’orrore assalivano a siffatti pensieri uomini e donne del vicinato; e impetuosamente i due piccini, in questa o in quella casa, erano abbracciati e inondati di lagrime.
Perché il professor Erminio Del Donzello, ora, ogni mattina, prima di recarsi a scuola, per ingraziarsi quel vicinato ostile e dimostrar la cura e la sollecitudine che si dava de’ due orfanelli, dopo averli ben lavati e calzati e vestiti, se li prendeva per mano, uno di qua, l’altra di là, e li andava a lasciare ora in questa ora in quella famiglia tra le tante che si erano profferte.

Era – s’intende – in ciascuna di queste famiglie più delle altre caritatevoli e in pensiero per la sorte dei piccini, almeno una ragazza da marito; e tutte, senza eccezione, queste ragazze da marito sarebbero state mammine svisceratamente amorose di quei due orfanelli perfida tiranna, spietata megera sarebbe stata solo quell’una, che il professor Erminio Del Donzello avrebbe scelto tra esse.
Perché era una necessità ineluttabile, che il professor Erminio Del Donzello riprendesse moglie. Se l’aspettava di giorno in giorno tutto il vicinato, e per dir la verità ci pensava sul serio anche lui.
Poteva forse durare a lungo così? Quelle famiglie si prestavano con tanto zelo di carità ad accogliere i piccini, per adescarlo; non c’era dubbio. Se egli avesse fatto a lungo le viste di non comprenderlo, tra un po’ di tempo gli avrebbero chiuso la porta in faccia; non c’era dubbio neanche su questo. E allora? Poteva forse da solo attendere a quei due piccini? Con la scuola tutte le mattine, le lezioni particolari nelle ore del pomeriggio, la correzione dei compiti tutte le sere... Una serva in casa? Egli era giovine, e caldo, quantunque di fuori non paresse Una serva vecchia? Ma lui aveva preso moglie perché la vita di scapolo, quell’andare accattando l’amore, non gli era parso più compatibile con la sua età e con la sua dignità di professore. E ora, con quei due piccini...
No, via: era, era veramente una necessità ineluttabile.
L’imbarazzo della scelta, intanto, gli cresceva di giorno in giorno, di giorno in giorno lo esasperava sempre più.
E dire che in principio aveva creduto che dovesse riuscirgli molto difficile trovare una seconda moglie, in quelle sue condizioni!
Gliene bisognava una? Ne aveva trovate subito dieci, dodici, quindici, una più pronta e impaziente dell’altra!
Sì, perché in fondo, via, era vedovo, ma appena: si poteva dire che quasi non avuto tempo d’essere ammogliato. E quanto ai figliuoli, sì, c’erano, ma non erano suoi. La casa, intanto, fino alla maggiore età di questi, ch’erano ancor tanto piccini, era per lui, e così anche il frutto della dote, il quale insieme col suo stipendio di professore faceva un’entratuccia più che discreta.
Questo conto se l’erano fatto bensì bene tutte le mamme e le signorine del vicinato. Ma il professor Erminio Del Donzello era certo che si sarebbe attirate addosso tutte le furie dell’inferno, se avesse fatto la scelta in quel vicinato.
Aveva sopra tutto, e con ragione, paura delle suocere. Perché ognuna di quelle mamme disilluse sarebbe certo diventata subito una suocera per lui; tutte quante si sarebbero costituite mamme postume della sua povera moglie defunta, e nonne di quei due orfanelli. E che mamma, che nonna, e suocera sarebbe stata, ad esempio, quella signora Ninfa della casa dirimpetto, che più delle altre gli aveva fatto e seguitava a fargli le più pressanti esibizioni d’ogni servizio, insieme con la figliuola Romilda e il figlio Toto!

Venivano tutti e tre, quasi ogni mattina, a strappargli di casa i piccini, perché non li conducesse altrove. Via, uno almeno! ne d’esse loro uno almeno, o Nené o Ninì; meglio Nenè, oh cara! ma anche Ninì, oh caro! E baci e chicche e carezze senza fine.
Il professor Erminio Del Donzello non sapeva come schermirsi; sorrideva, angustiato: si volgeva di qua e di là; si poneva innanzi al petto le mani inguantate; storceva il collo come una cicogna:

– Vede, cara signora... carissima signorina.... non vorrei che... non vorrei che...

– Ma lasci dire, lasci dire, professore! Lei può star sicuro che come stanno da noi, non stanno da nessuno! La mia Romilda ne è pazza, sa? proprio pazza, tanto dell’una quanto dell’altro. E guardi il mio Toto! Eccolo là... A cavalluccio, eh Ninì? Gioja cara, quanto sei bello! To’, caro! to’, amore!

Il professor Erminio Del Donzello, costretto a cedere, se n’andava come tra le spine, voltandosi a sorridere di qua e di là, quasi a chiedere scusa alle altre vicine.
Ma nelle ore che lui, sempre coi guanti di filo di Scozia, insegnava il francese ai ragazzi delle scuole tecniche, che scuola facevano quelle vicine là, e segnatamente la signora Ninfa con la figliuola Romilda e il figlio Toto, a Nené e Ninì? che prevenzioni, che sospetti insinuavano nelle loro arimucce? e che paure?
Già Nené, che s’era fatta una bella bamboccetta vispa e tosta, con le fossette alle guance, la boccuccia appuntita, gli occhietti sfavillanti, acuti e furbi, tutta scatti tra risatine nervose, coi capelli neri, irrequieti, sempre davanti agli occhi, per quanto di tratto in tratto se li mandasse via con rapide, rabbiose scrollatine, s’impostava fieramente incontro alle minacce immaginarie, ai maltrattamenti, ai soprusi della futura matrigna, che le vicine le facevano balenare; e, mostrando il piccolo pugno chiuso, gridava:

– E io l’ammazzo!

Subito, all’atto, quelle le si precipitavano addosso, se la strappavano, per soffocarla di baci e di carezze.

– Oh cara! Amore! Angelo! Sì, cara, cara, così! Perché tutto è tuo, sai? La casa è tua, la dote della tua mammina è tua, tua e del tuo fratellino, capisci? E devi difenderlo, tu, il tuo fratellino! E se tu non basti, ci siamo qua noi, a farli stare a dovere, tanto lei che lui, non dubitare, ci siamo qua noi per e per Ninì!

Ninì era un badalone grosso grosso, pacioso, con le gambette un po’ a roncolo e la lingua ancora imbrogliata. Quando Nenè, la sorellina, levava il pugno e gridava: «E io l’ammazzo"» si voltava piano piano a guardarla e domandava con voce cupa e con placida serietà:

L’ammassi davero?

E, a questa domanda, altri prorompimenti di frenetiche amorevolezze in tutte quelle buone vicine.
Dei frutti di questa scuola il professor Erminio Del Donzello si accorse bene, alllorché, dopo un anno di titubamenti e angosciose perplessità, scelta alla fine una casta zitella attempata, di nome Caterina, nipote d’un curato, la sposò e la portò in casa.
Quella poverina pareva seguitasse a recitar le orazioni anche quando, con gli occhi bassi parlava della spesa o del bucato. Pur non di meno, il professor Erminio Del Donzello ogni mattina, prima d’andare a scuola, le diceva:

– Caterina mia, mi raccomando. So, so la nel mansuetudine, cara. Ma procura, per carità, di non dare il minimo incentivo a tutte queste vipere attorno, di schizzar veleno. Fa’ che questi angioletti non gridino e non piangano per nessuna ragione. Mi raccomando.

– Va bene; ma Nené, ecco, aveva i capelli arruffati: non si doveva pettinare? Ninì, mangione, aveva il musetto sporco, e sporchi anche i ginocchi: non si doveva lavare?

– Nené, vieni, amorino, che ti pettino. E Nené, pestando un piede:

– Non mi voglio pettinare!

– Ninì, via, vieni tu almeno, caro caro fa’ vedere alla sorellina come ti fai lavare.

E Ninì, placido e cupo, imitando goffamente il gesto della sorella:

Non mi vollo lavare!

E se Caterina lo costringeva appena, o s’accostava loro col pettine e col catino, strilli che arrivavano al cielo!
Subito allora le vicine:

– Ecco che comincia! Ah, povere creature! Dio di misericordia, senti, senti! Ma che fa? Ih, strappa i capelli alla grande! Senti che schiaffi al piccino! Ah che strazio, Dio, Dio, abbiate pietà di questi due poveri innocenti!

Se poi Caterina, per non farli strillare, lasciava Nené spettinata e sporco Ninì:

– Ma guardate qua questi due amorini come sono ridotti: una cagnetta scarduffata e un porcellino!

Nené, certe mattine, scappava di casa in camicia, a piedi nudi; si metteva a sedere su lo scalino innanzi all’uscio di strada, accavalciando una gambetta su l’altra e squassando la testina per mandarsi via dagli occhi le ciocche ribelli, rideva e annunziava a tutti:

– Sono castigata!

Poco dopo, piano piano, scendeva con le gambetto a roncolo Ninì, in carnicina e scalzo anche lui, reggendo per il manico l’orinaletto di latta; lo posava accanto alla sorellina, vi si metteva a sedere, e ripeteva serio serio, aggrondato e con la lingua grossa:

– So’ cattivato!

Figurarsi attorno le grida di commiserazione e di sdegno delle vicine indignate!
Eccoli qua, ignudi! ignudi! Che barbarie, con questo freddo! Far morire così d’una bronchite, d’una polmonite due povere creaturine! Come poteva Dio permetter questo? Ah sì, di nascosto, è vero? essi, di nascosto, erano scappati dal letto? E perché erano scappati? Segno che i due piccini chi sa com’erano trattati! Ah, già, niente... Gente di chiesa, figuriamoci! Diamo il supplizio senza far strillare! Oh Dio, ecco le lagrime adesso, ecco le lagrime del coccodrillo!
Una santa, anche una santa avrebbe perduto la pazienza. Quella povera donna sentiva voltarsi il cuore in petto, non solamente per la crudele ingiustizia, ma anche per lo strazio di veder quella ragazzetta, Nené, così bellina, crescere come una diavola, messa sì da quelle perfide pettegole, sguajata, senza rispetto per nessuno.

– La casa è mia! La dote è mia!

Signore Iddio, la dote! Una piccina alta un palmo, che strillava e levava i pugni pestava i piedi per la dote!
Il professor Erminio Del Donzello pareva in pochi mesi invecchiato di dieci anni.
Guardava la povera moglie che gli piangeva davanti disperata, e non sapeva dirle niente, come non sapeva dir niente a quei due diavoletti scatenati.
Era inebetito? No. Non parlava, perché si sentiva male. E si sentiva male, perché... perché proprio portavano con sé questo destino, quei due piccini là!
Il padre era morto; e la mamma, per provvedere a loro, s’era rimaritata ed era morta. Ora... ora toccava a lui.
N’era profondamente convinto il professor Erminio Del Donzello.
Toccava a lui!
Domani, la sua vedova, quella povera Caterina, per dare a Nené e a Ninì una guida, un sostegno, sarebbe passata, a sua volta, a seconde nozze, e sarebbe morta lei allora, e a quel secondo marito toccherebbe di riammogliarsi; e così, via via, un’infinita sequela di sostituti genitori sarebbe passata in poco tempo per quella casa.
La prova evidente era nel fatto, ch’egli si sentiva già molto, molto male.
Era destino, e non c’era dunque né da fare né da dir nulla.
La moglie, vedendo che non riusciva in nessun modo a scuoterlo da quella fissazione che lo inebetiva, si recò per consiglio dallo zio curato. Questi, senz’altro, le impose d’obbedire al proprio dovere e alla propria coscienza, senza badare alle proteste infami di tutti quei malvagi. Se con la bontà quei due piccini non si riducevano a ragione, usasse pure la forza!
Il fu savio; ma, ahimè, non ebbe altro effetto, che affrettar la fine del povero professore.
La prima volta che Caterina lo mise in pratica, Erminio Del Donzello, ritornando da scuola, si vide venire con le mani in faccia quel Toto della signora Ninfa seguito da tutte le vicine urlanti con le braccia levate.
La moglie s’era dovuta asserragliare in casa. E c’erano guardie e carabinieri innanzi alla porta.
Tutto il vicinato aveva apposto le firme a un protesta da presentare alla Questura per le sevizie che si facevano a quei due angioletti.
L’onta, la trepidazione per lo scandalo enorme furono tali e tanta la rabbia per quella ostinata, feroce iniquità, che Erminio Del Donzello si ridusse in pochi giorni in fin di vita, per un travaso di bile improvviso e tremendo.
Prima di chiuder gli occhi per sempre, si chiamò la moglie accanto al letto e con un fil di voce le disse:

– Caterina mia, vuoi un mio consiglio; Sposa, sposa quel Toto, cara, della signora Ninfa. Non temere; verrai presto a raggiungermi. E lascia allora che provveda lui, insieme con l’altra, a quei due piccini. Stai pur certa, cara, che morrà presto anche lui.

Nené e Ninì, intanto, in casa d’una vicina avevano trovato una gattina mansa e un pappagalletto imbalsamato, e ci giocavano, ignari e felici.

– Mao, ti strozzo! – diceva Nené.

E Ninì, voltandosi, con la lingua imbrogliata:

– Lo strossi davero?

Inizio pagina

NOVELLE PER UN ANNO - 1922 - "LA RALLEGRATA"

15. «Requiem aeternam dona eis, Domine!» (1913)

 

 

«Corriere della Sera», 16 febbraio 1913, poi in La trappola, Treves, Milano 1915.

 


 

Erano dodici. Dieci uomini e due donne in commissione. Col prete che li conduceva, tredici.
Nell’anticamera in

 
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S.Tobia balla

Post n°149 pubblicato il 28 Giugno 2011 da odette.teresa1958

"Sì, la tarantella!" dirà il mio lettore più fedele,convinto che ormai io sia irrecuparabile. Invece no,lettori miei.
"S.Tobia balla" è il titolo del primo festival di ballo del nostro paesino,voluto e realizzato dalla nostra sindachessa!
Il meccaninismo è semplice: ogni coppia di ballerini propone un ballo diverso,ci sono le eliminatorie e le ultima 4 coppie rimaste di sputano la finalissima. Detta finalissima c'è stata sette giorni fa.
Vi partecipavano Dio ci scampi e lamoglie Carolina (valzer);Gelsomina Capperoni e il nuovo medico condotto,Romeo Zompafossi (charleston); la Candida e Caino Trogoloni (tango); Astorre e Bradamante Trogoloni (boogie woogie).
In pieno caschè, Caino si è beccato il colpo della strega e la coppia è stata eliminata.
La Candida ha reagito assai sportivamente, prendendo a morsi in testa il suo cavaliere e poi tentando il suicidio prendendo a capocciate l'unico lampione di S.Tobia.
Dio ci scampi, preso dall'emozione, ha cominciato a girare sempre più vorticosamente, trasformando lui e consorte in due trottole umane che travolgevano ogni cosa. Imboccate le scale, hanno poi fatto un colossale rotolone, terminato nella fontana.
Lì hanno cominiciato a darsele di santa ragione e Cuccurullo ha dovuto portarli in guardina.
Ai Trogoloni non è certo andata meglio. Lanciata per aria dall'Astorre, la Bradamante ha provocato il crollo del lampadario, finito in testa all'incolpevole (per una volta) Ireneo.
Il pio sacerdote non ha punto gradito e i Trogoloni si sono dovuti dare alla fuga.
Alla Marianna non è rimasto da fare che premiare la Capperoni e lo Zompafossi, unica coppia rimasta.
Come ho detto, è passata una settimana.
La Candida è in preda a una violentissima emicrania. Non nominatele Caino o morde.
Berengario e la Carolina comunicano solo tramite il figlio Ercolino.
I Trogoloni si trovano in un monastero di clausura sulla Maiella.
Attendato di fronte all'edificio sta Ireneo, armato di schioppo, accompagnato da Belva e dal di lui fratello, Satanasso II.
I nostri vincitori si sono innamorati e si sposeranno a breve.
E con questa nota lieta passo e chiudo





 
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Inferno canto XXXIII

Post n°148 pubblicato il 28 Giugno 2011 da odette.teresa1958

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: ``Tu guardi sì, padre! che hai?".

Perciò non lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi

e disser: ``Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".

Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: ``Padre mio, ché non m'aiuti?".

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».

Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

Che se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.

Noi passammo oltre, là 've la gelata
ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l'ambascia;

ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

E avvegna che, sì come d'un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,

già mi parea sentire alquanto vento;
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».

Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove».

E un de' tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data v'è l'ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,
sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli».

Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».

Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».

«Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropòs mossa le dea.

E perché tu più volentier mi rade
le 'nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade

come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna.

Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch'el fu sì racchiuso».

«Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».

«Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,

che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece.

Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel' apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,

e in corpo par vivo ancor di sopra

 
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La Exodus

Post n°147 pubblicato il 28 Giugno 2011 da odette.teresa1958

La città della Spezia è conosciuta come “porta di Sion”. Alla fine della seconda guerra mondiale il Golfo della Spezia divenne infatti la base di partenza degli scampati ai lager nazisti, uomini, donne e bambini con le facce smunte e piene di paura. I loro occhi avevano conosciuto la persecuzione nazista, lo sterminio, la Shoá, l’inferno dei lager, un’esperienza che non fu a lungo raccontabile. E ora guardavano al mare con la speranza di lasciarsi alle spalle l’Europa degli orrori e di raggiungere la “Terra promessa”. Dall’estate del 1945 alla primavera del 1948 oltre 23.000 ebrei riuscirono a lasciare clandestinamente l’Italia diretti in Palestina. La potenza mandataria della Palestina, la Gran Bretagna, aveva infatti emesso il Libro Bianco del 17 maggio 1939 per regolamentare l’afflusso controllato in Palestina di soli 75.000 ebrei in cinque anni. Una misura che fu messa in crisi dalla drammatica situazione europea e contrastata con ogni mezzo dal Mossad le Aliyà Bet (Istituto per l’emigrazione illegale) sorto nel 1938.

A partire dal maggio 1945 una notevole corrente di ebrei cominciò ad affollare la Penisola e il Mossad le Aliya Bet inviò un responsabile in Italia con base a Milano, Yehura Arazi. Altri membri del Mossad furono inviati in Italia tra i soldati della brigata ebraica al seguito degli alleati. La prima nave di profughi, il Dallin (già Sirius) partì da Monopoli il 21 agosto 1945 con soli 35 immigrati a bordo. La questione dell’immigrazione ebraica scoppiò come caso internazionale nel maggio 1946: l’epicentro della crisi divenne il porto della Spezia dove erano in allestimento due imbarcazione, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, pronte a trasbordare 1.014 profughi. Oltre a Yehuda Arazi, detto dottor Paz, l’operazione La Spezia fu preparata da Ada Sereni e Raffaele Cantoni, responsabile della comunità ebraica italiana. Ma soprattutto quell’operazione godette dell’aiuto di tutta la città della Spezia, già stremata dalla guerra e distrutta dai bombardamenti. Proprio il sostegno della gente, la resistenza dei profughi, l’intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito laburista britannico, costrinsero le autorità londinesi – le cui navi bloccavano l’uscita dal porto della Spezia - a togliere il blocco alle due imbarcazioni che salvarono dal Molo Pirelli a Pagliari alle ore 10 dell’8 maggio 1946. «Nella storia dell’immigrazione ebraica dalle coste europee – ha scritto Mario Toscano nel libro La Porta di Sion – la vicenda della Spezia segnò una svolta sotto il profilo politico e sotto quello qualitativo». La riuscita dell’operazione portò alla costituzione nell’estate del 1946 della base operativa del Mossad le Aliyà Bet a Bocca di Magra. L’accoglienza della comunità e la solidarietà delle autorità spezzine convinsero gli organizzatori del Mossad a puntare sulla Spezia con operazioni di maggior peso. Così nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1947 la nave Trade Winds/Tikva, allestita in Portogallo, imbarcò 1.414 profughi a Porto Venere. Nelle stesse ore era giunta nelle acque Golfo della Spezia, proveniente da Marsiglia, la nave President Warfield, un goffo e pesante battello adatto a portare i turisti giù per il Potomac, da Baltimora a Norfolk, in Virginia. La nave venne ristrutturata nel cantiere dell’Olivo a Porto Venere per la più grande impresa biblica dell’emigrazione ebraica: trasportare 4.515 profughi stivati su quattro piano di cuccette dall’altra parte del Mediterraneo. L’imbarcazione divenne un simbolo, prese il nome di Exodus, raggiunse le coste della Palestina, venne attaccata dagli Inglesi e avviò la nascita dello stato di Israele con tutte le conseguenze che sappiamo. A narrarci le peripezie dei profughi dello sterminio ebreo ci ha pensato nel 1958 Leon Uris con il celebre romanzo Exodus, tema ripreso nel libro Il comandante dell’Exodus di Yoram Kaniuk, incentrato sulla figura di Yossi Harel, classe 1919, il marittimo che cercò di portare a Haifa ottomila occhi che avevano visto l’inconcepibile, tanti bambini e orfani, volti dal sorriso indecifrabile. A Exodus è dedicato anche un bellissimo film del 1960 di Otto Preminger interpretato da Paul Newman, Peter Lanfoird e Eva Marie Saint. La Exodus mosse da Porto Venere ai primi di luglio del ’47, sostò a Port-de-Bouc, caricò a Sète, fu assalita e speronata dai cacciatorpedinieri britannici davanti a Kfar Vitkin. Ci furono dei morti a bordo, gente che era sopravvissuta ai lager e che finì i suoi giorni a due passi dalla speranza, nelle acque tra Netanya e Haifa. E sapete cosa fecero gli Inglesi? Rimandarono i profughi ad Amburgo, al campo di Poppendorf, un ex lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei! Il nome Exodus da allora significò il desiderio di giustizia per l’immigrazione ebraica. Ma solo con la fine del mandato britannico i profughi sarebbero potuti tornare in Palestina. La Fede, il Fenice e la Exodus si mossero tutte dal Golfo della Spezia, una dicitura che non compare nelle carte geografiche israeliana. La Spezia in Israele è infatti indicata col nome di «Schàar Zion», Porta di Sion. Nel nome di Exodus la città della Spezia porta nel Mediterranei l’idea della pace e della convivenza e opera tramite il Comitato Euro Mediterraneo Cultura dei Mari, presieduto dal Sindaco della Spezia, per il dialogo tra i popoli. Ogni anno La Spezia ospita in Premio Exodus dedicato all’interculturalità.

«... Il 4 aprile 1946 alla Spezia si sparse la voce che una colonna di fascisti era in procinto di imbarcarsi per la Spagna. La gente corse al molo Pirelli di Pagliari per bloccare quell’esodo increscioso. Le fabbriche scesero subito in sciopero e si formò un corteo di protesta. Ma quando tutti arrivammo al molo Pirelli ci accorgemmo che non si trattava di fascisti in fuga, bensì di ebrei scampati ai campi di concentramento nazisti e ospitati nel centro di raccolta di Magenta. La massa degli spezzini ebbe una metamorfosi. La città stremata e distrutta dalla guerra adottò quei 1.014 profughi ebrei che cercavano di raggiungere la Terra dei Padri. Quello che si determinò alla Spezia fu il più grande esodo mai tentato verso la Palestina, dove vigeva il “Libro Bianco” che limitava l’immigrazione ebraica e gli acquisti di terre. La Jewish Agency aveva acquistato due imbarcazioni, la “Fede” di Savona e il motoveliero “Fenice”, incaricando il cantiere Bargiacchi di adattarle al trasporto di passeggeri. Una terza nave, la “President Warfield”, fu allestita al cantiere dell’Olivo di Porto Venere e assunse il nome di “Exodus”. Gli inglesi, venuti a conoscenza del tentativo di espatrio, bloccarono il porto della Spezia. Gli ebrei scampati allo sterminio sfilarono in testa alla manifestazione cittadina del 25 aprile aprile 1946. La visita alla Spezia di Sir Harold Lasky, allora segretario del Partito Laburista britannico, riuscì a sbloccare la partenza delle prime due navi, che salparono l’8 maggio dal molo Pagliari e riuscirono fortunatamente a raggiungere le coste della Palestina. Diversa sorte ebbe la nave Exodus, che fu assalita dagli inglesi senza riuscire a toccare le coste palestinesi, diventando il simbolo di ogni migrazione...»

 

 







 
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Libri dimenitcati:Exodus (Uris)

Post n°146 pubblicato il 28 Giugno 2011 da odette.teresa1958

La guerra è appena finita e Israele è anocra un protettorato inglese.Gli ebrei superstiti dai campi di concentramento cercano a tutti i costi di tornare nella Terra Promessa,sfidando il blocco inglese.
Questa è la storia romanzata della più famosa nave che partì per Israele,della gente che c'era sopra,della creazione dello stato d'Israele e della guerra di indipendenza del 1948.
Il libro è pieno di personaggi indimenticabili:Kitty Fremont,l'infermiera americana che in Israele ritrova la sua ragione di esistere e l'amore; il generale inglese Sutherland,che deve combattere fra il dovere e il sentimento (la madre era ebrea) e finisce per scegliere quest'ultimo;Arì Ben Canaan,il coraggioso comandante del Palmach ben deciso a dare una patria al suo popolo:Karen,la giovane ebrea danese che per amore della sua patria perderà la vita:Dov Landau,superstite del Ghetto di Varsavia amareggiato e ribelle,che nell'amore per Karen ritroverà se stesso...
E' un libro avvincente,storicamente documentatissimo,che racconta una pagina poco conosciuta della nostra storia

 
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Post n°145 pubblicato il 28 Giugno 2011 da odette.teresa1958

La mia vecchiaia avrà inizio quando smetterò di indignarmi (Gide)

 
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