Messaggi del 11/08/2011

La pastorella e lo spazzacamino

Post n°372 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

L'armadio che si trovava nel salotto era antichissimo e molto bello. Tutto scolpito in rilievo, con foglioline e arabeschi, aveva una cornice di rose e di tulipani.
Nel centro invece, c'era la figura di un uomo dall'aspetto stranissimo: aveva le gambe di capra, una testa sormontata da due piccole corna e un viso aguzzo e sogghignante, con una barbetta a punta: I bambini lo avevano soprannominato " Il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone ", titolo forse un po' lungo, ma del quale poche persone sono state insignite fino a oggi.
Sulla mensola che sosteneva il grande specchio abitava da tanto tempo una pastorella di porcellana, graziosissima; aveva le trecce bionde arrotolate sulle orecchie, portava le scarpette verdi, una gonna ornata di un nastro azzurro e sosteneva sulle spalle una graziosa gerla.
Vicino a lei c'era uno spazzacamino pure di porcellana. Sorreggeva con grazia la scala sotto il braccio e il suo visetto era bianco e roseo come un fiore, cosa stranissima, perché, come spazzacamino, gli sarebbe forse stata bene un po' di fuliggine. La pastorella e lo spazzacamino erano là da tanto tempo, perciò avevano incominciato a volersi bene e infine si erano fidanzati. Tutti e due erano giovani e belli, tutti e due di porcellana, tutti e due fragili e leggeri.
Poco lontano da loro c'era un'altra statuetta, tre volte più grande: rappresentava un vecchio cinese e poteva dir di sì e di no tentennando la testa. Affermava di essere il nonno della pastorella, forse perché era di porcellana anche lui; ma la pastorella non ci credeva. Tuttavia il cinese dichiarava di avere autorità sopra di lei e quando il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone gli domandò la mano della fanciulla, dondolò la testa affermativamente.
- Che marito avrai! - disse con entusiasmo alla presunta nipotina. - Che marito! Credo persino che sia di mogano, e tu sarai chiamata la Signora Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone. E' anche molto ricco, perché ha tutto l'armadio pieno di argenteria, senza contare ciò che tiene nascosto nei cassetti segreti…
- Ma io non entrerò mai in quell'armadio buio - protestò la pastorella. - Ho sentito dire che vi sono già chiuse dentro undici statuette di porcellana.
- Ebbene, tu sarai la dodicesima - concluse il cinese. - Questa notte, quando tutti i mobili si sveglieranno e incominceranno a scricchiolare, sarà celebrato il matrimonio.
Detto questo, fece ancora di si con la testa, poi si addormentò. La pastorella incominciò a piangere, guardando lo spazzacamino.
- Non voglio sposare quell'uomo dai piedi di capra - singhiozzò. - Dobbiamo scappare di qui. Aiutami, ti prego.
- Farò tutto ciò che vorrai - rispose il piccolo spazzacamino. -Fuggiamo di qui. Io guadagnerò la vita anche per te, col mio mestiere di spazzacamino.
- Purché si riesca a scendere dalla mensola - osservò la pastorella preoccupata.
Lo spazzacamino la rassicurò e andò per primo, mostrandole dove bisognava posare i piedi, sugli angoli intagliati e sulle foglie in rilievo. L'aiutò anche con la scala e in poco tempo raggiunsero il pavimento. Ma quando si volsero verso l'armadio, videro che l'allarme era già stato dato. Il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone fece addirittura un salto, gridando al vecchio cinese:
- Eccoli che fuggono! Fuggono!
La pastorella e lo spazzacamino ebbero una gran paura e, lesti lesti, si nascosero nel cassetto di un piccolo mobile. In quel cassetto c'erano alcuni mazzi di carte incompleti e anche un piccolo teatro di cartone per burattini. In quel momento vi si stava rappresentando una commedia e tutte le dame di quadri, di cuori, di fiori e di picche erano sedute nei primi posti e si facevano vento con dei tulipani. I fanti stavano dietro e avevano una testa in alto e una in basso, come nelle carte da gioco. La commedia rappresentata narrava la storia di due giovani che si volevano bene e non riuscivano a sposarsi, e la pastorella pianse molto perché quella storia assomigliava alla sua. A un certo punto esclamò: - Mi fa troppo soffrire. Io debbo uscire dal cassetto.
Lo spazzacamino l'accompagno subito fuori, ma quando misero piede sul pavimento e guardarono la mensola, videro che il vecchio cinese si agitava violentemente.
- Di sicuro viene a riprenderci - gridò la pastorella spaventata e, per la paura, cadde sulle ginocchia di porcellana.
- Ho un'idea - suggerì lo spazzacamino - Andiamo a nasconderci in quell'anfora che sta nell'angolo. E' piena di fiori, ma noi ci acquatteremo fra le rose e la lavanda e se il cinese verrà, gli getteremo l'acqua negli occhi.
- No, sarebbe inutile - disse la pastorella - So che il cinese e l'anfora sono stati fidanzati molto tempo fa, ma sono rimasti sempre buoni amici. Non ci rimane altra risorsa che fuggire nel vasto mondo.
- Ma tu ne hai davvero il coraggio? - chiese lo spazzacamino - Hai pensato che il mondo è tanto grande e che noi potremmo anche non tornare mai più?
- Ho pensato a tutto.
Lo spazzacamino la guardò a lungo, poi disse:
- Secondo me, la strada migliore è la cappa del camino. Ti senti di scivolare con me nella stufa e di arrampicarti lungo i tubi? Soltanto per questa via potremo giungere al comignolo. Lassù mi sentirò a mio agio, ma prima bisogna salire in alto in alto e arrivare a un buco attraverso il quale usciremo nel mondo.
La pastorella accennò di si, e allora il fidanzato la condusse allo sportello della stufa e lo aperse.
- Dio mio, com'e' buoi! - eclamò lei.
Ma si fece coraggio ed entrò con lui nella stufa. Pian piano risalirono i tubi e giunsero proprio nella cappa del camino.
- Il peggio è passato e tra poco saremo fuori - disse lo spazzacamino - Guarda in alto che magnifica stella!
C'era infatti nel cielo una stella che sembrava indicare la strada ai due fuggitivi: scintillava proprio sulle loro teste; ed essi continuarono ad arrampicarsi coraggiosamente. Era una strada ripida, nera, interminabile; ma lo spazzacamino sosteneva la pastorella e le indicava i punti migliori dove mettere i piedini di porcellana. Così finalmente arrivarono all'orlo del camino e sedettero proprio sul comignolo per riposarsi un po'. Erano davvero molto stanchi. Sopra di loro si stendeva il cielo pieno di stelle e, sotto, i tetti innumerevoli della grande città. Essi guardarono giù, guardarono intorno, tutto il vasto mondo. Come era grande! La povera pastorella non lo aveva immaginato così! Ebbe paura: posò la fronte sulla spalla del compagno e incominciò a piangere.
Lo spazzacamino tentò invano di farle coraggio.
- E' troppo! - singhiozzava - E' troppo grande! E' più grande di quando io possa sopportare. Oh, se fossimo ancora sulla mensola vicina allo specchio! Ti prego, riaccompagnami là! Non sarò contenta finché non ci sarò ritornata. Io ti ho seguito nel vasto mondo, ma adesso devi ricondurmi a casa, se mi vuoi bene.
Lo spazzacamino cercò di calmarla e di farla ragionare; le ricordò il vecchio cinese e il Gran Generale in Capo Gamba di Caprone; ma lei continuava a piangere disperatamente e non restò altro rimedio che accontentarla.
Rientrati nella cappa del camino, incominciarono a scendere con gran fatica, poi si ritrovarono di nuovo nei tubi oscuri. Non era di certo un viaggio di piacere! Infine giunsero nella stufa e si fermarono ad ascoltare dietro lo sportello, per capire che cosa succedeva nella stanza; ma non udirono alcun rumore. Allora cautamente sporsero la testa e guardarono. Ahimè, il vecchio cinese giaceva sul pavimento, rotto in tre pezzi: nel tentativo di inseguirli era caduto dalla mensola. Il busto si trovava distaccato dal resto del corpo, la testa era rotolata in un angolo.
Il Gran Generale Comandante in Capo Gamba di Caprone conservava, invece, l'atteggiamento consueto.
- E' terribile! - disse la pastorella - Il vecchio nonno si è rotto e la colpa è nostra! Oh, non riuscirò mai a sopravvivere a questa disgrazia! - E ricominciò a piangere.
- Si potrà aggiustarlo - la consolò lo spazzacamino - Sì, certamente è possibile. Non disperarti, via: se gli riattacchiamo il busto alla gambe e gli metteremo un buon sostegno nel collo, ritornerà come se fosse nuovo…e potrà dirci ancora una quantità di cose sgradevoli.
- Lo credi? - domandò la pastorella un po' rasserenata.
Così dicendo pian piano uscirono dalla stufa e si arrampicarono di nuovo sulla mensola, vicino al grande specchio.
- Ecco a che punto siamo - commentò lo spazzacamino -Quanta fatica per nulla!
- Oh, se soltanto il vecchio nonno fosse riappiccicato! - disse la pastorella.
Il vecchio nonno, infatti, venne rimesso insieme con po' di colla. Gli fu applicato un sostegno per tener ferma la testa e ritornò come nuovo; ma non poteva più dire di sì o di no .
- Uh, come fate il sostenuto, da quando vi siete rotto - Gli disse il Gran Comandante in Capo Gamba di Caprone - Allora, volete darmi in moglie vostra nipote sì o no?
Lo spazzacamino e la pastorella guardavano ansiosamente il vecchio cinese, ma egli non poteva più piegare il collo e si sarebbe vergognato di confessare che aveva dentro un sostegno. Ma grazie appunto a questo, le due statuine di porcellana poterono mettersi il cuore in pace e vivere tranquille insieme, fino al giorno fatale in cui anch'esse si ruppero.


illustrazione di Mariarita Brunazzi degli amici del forum di pinu

di Hans CHristian Andersen

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I tre capelli d'oro del diavolo

Post n°371 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta una povera donna che diede alla luce un maschietto: e poiché‚ il neonato aveva indosso la camicia della fortuna, gli predissero che a quattordici anni avrebbe sposato la figlia del re. Dopo pochi giorni il re in persona giunse nel villaggio e, senza farsi riconoscere, domandò che cosa vi fosse di nuovo. “Oh,” gli risposero, “è nato un bambino con la camicia della fortuna: a quattordici anni sposerà la figlia del re.” Al re la notizia non piacque, così andò dai poveri genitori e domandò se volessero vendergli il loro bambino. Dapprima questi rifiutarono, ma poi, siccome lo sconosciuto insisteva tanto offrendo oro in quantità e loro non avevano neanche il pane quotidiano, finirono con l’accettare e pensarono: E’ un figlio della fortuna, non gli mancherà nulla.

Il re prese il bambino, lo mise in una scatola e prosegui a cavallo, finché‚ giunse a un corso d’acqua profonda; vi gettò dentro la scatola e pensava: “Così non diventerà il marito di mia figlia.” Ma la scatola galleggiò e, per grazia di Dio, non vi entrò neanche una goccia. Fu trascinata dalla corrente fino a un mulino, a due miglia dalla capitale, e là s’impigliò nella diga. Il garzone del mugnaio la vide e la tirò a riva con un uncino; pensava di trovarci dentro del denaro, tanto era pesante, invece, quando l’aprì, trovò un bel bambino allegro e vispo. Il mugnaio e sua moglie non avevano figli, perciò furono contenti, e dissero: “E’ un dono di Dio.” Così ebbero cura del trovatello, e questi crebbe pieno di virtù.

Quando furono trascorsi circa tredici anni, un giorno il re capitò per caso al mulino e domandò ai mugnai se quel ragazzo fosse loro figlio. “No,” risposero questi. “Il garzone lo ha trovato in una scatola che era arrivata galleggiando fino alla diga.” - “Quanti anni fa è successo?” domandò il re. “Circa tredici anni fa.” - “Sentite,” egli proseguì, “il ragazzo non potrebbe portare una lettera a Sua Maestà la regina? Mi renderebbe un gran servizio e, per questo, sarei disposto a ricompensarlo con due monete d’oro.” - “Come comanda Sua Maestà,” disse il mugnaio. Ma il re, accortosi che era proprio quel figlio della fortuna, scrisse una lettera alla regina nella quale si diceva: “Appena arriverà il ragazzo con questo scritto, sia ucciso e seppellito, e tutto ciò sia fatto prima del mio ritorno.”

Il ragazzo s’incamminò con la lettera, ma si smarrì e la sera si trovò in una gran foresta. Nell’oscurità vide un lumino, vi si diresse e giunse a una casetta. Dentro non vi era altri che una vecchia che si spaventò nel vederlo entrare e disse: “Donde vieni e dove vai?” - “Vado da Sua Maestà la regina; le devo portare una lettera, ma mi sono smarrito e vorrei pernottare qui.” - “Povero ragazzo,” disse la donna, “sei capitato in una casa di briganti, quando saranno di ritorno ti uccideranno.” - “Sono così stanco che non ce la faccio a proseguire,” rispose egli. Mise la lettera sul tavolo, si sdraiò su di una panca e si addormentò. Quando rientrarono i briganti e lo videro, domandarono chi fosse lo sconosciuto. “L’ho accolto per compassione,” disse la vecchia, “deve portare una lettera alla regina e si è smarrito.” I briganti presero la lettera, l’aprirono e lessero che il ragazzo doveva essere ucciso. Allora il capobanda la stracciò e ne scrisse un’altra dove si diceva che il ragazzo, al suo arrivo, doveva sposare la figlia del re. Poi lo lasciarono riposare fino al mattino, quindi gli diedero la lettera e gli indicarono il cammino per arrivare dalla regina. Non appena ebbe letto il messaggio, questa fece preparare le nozze, e poiché‚ il figlio della fortuna era di bell’aspetto, la figlia del re lo prese volentieri come marito, ed essi vissero felici insieme.

Qualche tempo dopo il re fece ritorno al castello, e quando vide che la profezia si era avverata e che il figlio della fortuna era sposo di sua figlia, domandò, sbigottito: “Come sono andate le cose? Che ho scritto nella lettera?” - “Caro marito,” disse la regina, “qui c’è la tua lettera, leggila tu stesso.” Il re lesse e capì subito che era stata scambiata e domandò al giovane che ne fosse stato dello scritto che gli aveva consegnato. “Non ne so nulla,” rispose, “devono avermela scambiata mentre dormivo.” Ma il re incollerito disse: “No, così non va! Chi vuole mia figlia deve riportarmi dall’inferno i tre capelli d’oro del diavolo; se me li porti potrai tenerti mia figlia.” - “Li avrò,” rispose il figlio della fortuna. Si accomiatò da sua moglie e incominciò il suo viaggio.

Arrivò a una gran città; sulla porta la sentinella gli chiese quale fosse il suo mestiere e che cosa sapesse. “So tutto” rispose il figlio della fortuna. “Dicci allora, per favore,” replicò la sentinella, “perché‚ la fontana della piazza, da cui di solito sgorgava vino, ora non dà più nemmeno acqua. Se ce lo dici, ti daremo in ricompensa due asini carichi d’oro.” - “Volentieri,” rispose il giovane, “aspettate ch’io torni.” Proseguì e giunse davanti a un’altra città: e anche questa volta la sentinella gli chiese: “Qual è il tuo mestiere e che cosa sai?” - “So tutto,” rispose. “Allora dicci, per favore, perché‚ un albero che di solito portava mele d’oro, adesso non mette neppure le foglie.” - “Volentieri,” rispose il giovane. “Aspettate ch’io torni.” Proseguì la sua strada e arrivò a un gran fiume che doveva attraversare. Il barcaiolo gli chiese: “Che mestiere fai e che cosa sai?” - “So tutto,” rispose. “Allora dimmi, per favore,” disse il barcaiolo, “perché‚ devo sempre remare senza che nessuno mi dia il cambio; te ne sarò riconoscente.” - “Volentieri,” rispose il giovane, “aspetta ch’io torni.”

Passato il fiume trovò l’inferno: là dentro era tutto nero e fuligginoso e il diavolo non era in casa, c’era soltanto sua nonna, seduta in una gran poltrona. “Che vuoi?” gli chiese. “I tre capelli d’oro del diavolo,” rispose il ragazzo, “se no, non posso tenermi la mia sposa.” - “Mi fai pena,” diss’ella, “se viene il diavolo ti ucciderà; ma voglio vedere cosa posso fare per te.” Allora lo trasformò in una formica e disse: “Nasconditi fra le pieghe della mia sottana, là sei al sicuro.” - “Sì,” rispose quello. “Vorrei anche sapere perché‚ una fonte da cui di solito sgorgava vino, non dà più nemmeno acqua; perché‚ un albero che di solito portava mele d’oro, ora non mette più nemmeno le foglie; e perché‚ un barcaiolo deve sempre remare senza che nessuno gli dia il cambio.” - “Sono tre domande difficili,” rispose la vecchia, “ma sta’ zitto e fa’ attenzione a quello che dice il diavolo quando gli strappo i tre capelli d’oro.”

Non molto tempo dopo, sul far della notte, il diavolo tornò a casa. Fiutò a destra e a sinistra e disse: “Sento odore, sento odore di carne umana; c’è qualcosa che non va!” Allora rovistò e guardò dappertutto, ma invano. La nonna lo sgridò e disse: “Non buttarmi tutto per aria, ho appena spazzato; siedi e mangia la tua cena, hai sempre l’odore di carne umana nel naso!” Allora il diavolo mangiò e bevve; poi posò la testa in grembo alla nonna, disse che era stanco e le chiese di spidocchiarlo un po’. Non tardò ad appisolarsi, soffiando e russando. Allora la vecchia strappò un capello d’oro, lo strappò e se lo mise accanto. “Ahi!” gridò il diavolo, “che c’è?” - “Ho fatto un brutto sogno,” rispose la nonna, “e allora ti ho preso per i capelli.” - “Cos’hai sognato?” - “Ho sognato che una fontana da cui di solito sgorgava vino è asciutta e non dà più nemmeno acqua. Come mai?” - “Ah, se lo sapessero!” rispose il diavolo. “Nella fontana, sotto una pietra, c’è un rospo; se lo uccidono riprenderà a scorrere il vino.” La nonna si rimise a spidocchiarlo finché‚ egli si addormentò e russava da far tremare i vetri. Allora gli strappò il secondo capello. “Uh, che fai?” gridò il diavolo, furente. “Non andare in collera!” ella rispose. “L’ho fatto in sogno.” - “Cos’hai sognato di nuovo?” - “Ho sognato che in un regno c’è un albero da frutta che prima portava mele d’oro e ora non mette più nemmeno le foglie. Come mai?” - “Eh, se lo sapessero!” rispose il diavolo. “C’è un topo che rosicchia la radice: se lo uccidono, darà di nuovo mele d’oro; se invece il topo continua a rosicchiare, l’albero si seccherà del tutto. Ma lasciami in pace tu e i tuoi sogni; se mi svegli un’altra volta ti buschi una sberla!” La nonna lo spidocchiò nuovamente finché‚ egli si addormentò e si mise a russare. Allora gli afferrò anche il terzo capello d’oro e lo strappò. Il diavolo saltò per aria e voleva fargliela pagare, ma essa lo calmò e disse: “Sono brutti sogni!” - “Ma cosa hai sognato?!” - “Ho sognato un barcaiolo che doveva sempre andare su e giù senza che mai nessuno gli desse il cambio. Come mai?” - “Eh, il babbeo!” rispose il diavolo. “Quando uno va per attraversare il fiume, deve mettergli in mano la pertica; allora lui sarà libero, e l’altro dovrà fare il barcaiolo. Ma spidocchiami adesso che possa riaddormentarmi!” Allora la nonna lo lasciò dormire, e allo spuntar del giorno il diavolo se ne andò.

Quando si sentì al sicuro, ella tolse la formica dalle pieghe della sua gonna e ridiede sembianze umane al giovane. Poi gli diede i tre capelli d’oro e disse: “Hai sentito ciò che ha detto il diavolo?” - “Sì,” rispose il figlio della fortuna, “e terrò tutto a mente.” - “Non ti occorre altro,” disse ella, “ora vai per la tua strada.” Egli ringraziò la nonna del diavolo, e lasciò l’inferno. Quando giunse dal barcaiolo, che doveva trasportarlo dall’altra parte del fiume, questi voleva avere la risposta promessa. “Portami prima dall’altra parte,” disse il ragazzo, “poi te la dirò.” E, come scese dalla barca, gli diede il consiglio del diavolo: “Quando viene qualcuno che vuole essere portato sull’altra riva, mettigli la pertica in mano e scappa.” Poi il giovane proseguì e giunse alla città dove si trovava l’albero rinsecchito, e anche la sentinella gli chiese la risposta. Allora egli disse quello che aveva sentito dal diavolo: “Uccidete il topo che rosicchia le radici, e l’albero tornerà a dare mele d’oro.” La sentinella lo ringraziò e, come ricompensa, gli diede due asini carichi d’oro che dovettero seguirlo. Infine arrivò alla città della fontana prosciugata, e anche lì la sentinella volle avere la risposta. Nuovamente egli riferì le parole del diavolo: “C’è un rospo sotto una pietra; cercatelo e uccidetelo, e la fontana tornerà a dare vino.” La sentinella lo ringraziò e gli diede altri due asini carichi d’oro.

Il figlio della fortuna giunse finalmente a casa da sua moglie che si rallegrò di cuore rivedendolo e sentendo che tutto era andato bene. Egli diede i tre capelli d’oro del diavolo al re, cosicché‚ questi non trovò più nulla da ridire. E, quando vide i quattro asini carichi d’oro, disse tutto contento: “Ma dimmi, caro genero, da dove viene tutto quell’oro? E’ un’immensa ricchezza.” - “L’ho trovato vicino a un fiume” rispose il figlio della fortuna “e ce n’è ancora.” - “Posso prenderne anch’io?” domandò il re, pieno di avidità. “Quanto ne volete!” rispose il giovane. “Sul fiume c’è un barcaiolo; fatevi traghettare da lui, dall’altra parte c’è oro in abbondanza!” Allora il vecchio re si precipitò in fretta e furia e quando giunse al fiume fece cenno al barcaiolo che lo prese con s’. Ma come furono dall’altra parte e il re volle sbarcare, il barcaiolo gli mise in mano la pertica e saltò a terra. Così il vecchio dovette remare come punizione dei suoi peccati.

Lo fa ancora? Come no? Certo nessuno gli avrà tolto il remo!



 
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Nevina

Post n°370 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Quando il sughero pesava e la pietra era leggera
come il ricciolo dell'ava
c'era, allora, c'era... c'era...


... una principessa chiamata Nevina che viveva sola col padre Gennaio.
Lassù, nel candore perpetuo, abbagliante, inaccessibile agli uomini, il Re Gennaio preparava la neve con una chimica nota a lui solo; Nevina la modellava su piccole forme tolte dagli astri e dagli edelweiss, poi, quando la cornucopia era piena, la vuotava secondo il comando del padre ai quattro punti dell'orizzonte.
E la neve si diffondeva sul mondo.
Nevina era pallida e diafana, bella come le dee che non sono più: le sue chiome erano appena bionde, d'un biondo imitato dalla Stella Polare, il suo volto, le sue mani avevano il candore della neve non ancora caduta, l'occhio era cerulo come l'azzurro dei ghiacciai.
Nevina era triste.
Nelle ore di tregua, quando la notte era serena e stellata e il padre Gennaio sospendeva l'opera per dormire nell'immensa barba fluente, Nevina s'appoggiava ai balaustri di ghiaccio, chiudeva il mento tra le mani e fissava l'orizzonte lontano, sognando.
Una rondine ferita che valicava le montagne, per recarsi nelle terre del sole, era caduta nelle sue mani, che avevano tentato invano di confortarla; nei brividi dell'agonia la rondine aveva delirato, sospirando il mare, i fiori, i palmizi, la primavera senza fine. E Nevina da quel giorno sognava le terre non viste.
Una notte decise di partire. Passò cauta sulla barba fluente di Gennaio, lasciò il ghiaccio e la neve eterna, prese la via della valle, si trovò fra gli abeti. Gli gnomi che la vedevano passare diafana, fosforescente nelle tenebre della foresta, interrompevano le danze, sostavano cavalcioni sui rami, fissandola con occhi curiosi e ridarelli.
- Nevina!
- Nevina! Dove vai?
- Nevina, danza con noi!
- Nevina, non ci lasciare!
E gli Spiritelli benigni le facevano ressa intorno, tentavano di arrestarle il passo abbracciandole con tutta forza la caviglia, cercavano di imprigionarle i piedi leggeri entro rami d'edera e di felce morta.
Nevina sorrideva, sorda ai richiami affettuosi, toglieva dalla cornucopia d'argento una falda di neve, la diffondeva intorno, liberandosi dei piccoli compagni di gioco. E proseguiva il cammino diafana, silenziosa, leggera come le dee che non sono più.
Giunse a valle, fu sulla grande strada.
L'aria si mitigava. Un senso d'affanno opprimeva il cuore di Nevina; per respirare toglieva dalla cornucopia una falda di neve, la diffondeva intorno, ritrovava le forze e il respiro nell'aria fatta gelida subitamente.
Proseguì rapida, percorse gran tratto di strada. Ad un crocevia sostò in estasi, con gli occhi abbagliati. Le si apriva dinnanzi uno spazio ignoto, una distesa azzurra e senza fine, come un altro cielo tolto alla volta celeste, disteso in terra, trattenuto, agitato ai lembi da mani invisibili.
Nevina proseguì sbigottita. La terra intorno mutava. Anemoni, garofani, mimose, violette, reseda, narcisi, giacinti, giunchiglie, gelsomini, tuberose, fin dove l'occhio giungeva, dal colle al mare, mal frenati dai muri e dalle siepi dei giardini, i fiori straripavano come un fiume di petali dove emergevano le case e gli alberi.
Gli ulivi distendevano il loro velo d'argento, i palmizi svettavano diritti, eccelsi come dardi scagliati nell'azzurro.
Nevina volgeva gli occhi estasiati sulle cose mai viste, dimenticava di diffondere la neve; poi l'affanno la riprendeva, toglieva una falda, si formava intorno una zona di fiocchi candidi e d'aria gelida che le ridava il respiro. E i fiori, gli ulivi, le palme guardavano pur essi con meraviglia la giovinetta diafana che trasvolava in un turbine niveo e rabbrividivano al suo passaggio.
Un giovane bellissimo, dal giustacuore verde e violetto, apparve innanzi a Nevina, fissandola con occhi inquieti, vietandole il passo:
- Chi sei?
- Nevina sono. Figlia di Gennaio.
- Ma non sai, dunque, che questo non è il regno di tuo padre? Io sono Fiordaprile, e non t'è lecito avanzare sulle mie terre. Ritorna al tuo ghiacciaio, pel bene tuo e pel mio!
Nevina fissava il principe con occhi tanto supplici e dolci che Fiordaprile si sentì commosso.
- Fiordaprile, lasciami avanzare! Mi fermerò poco. Voglio toccare quella neve azzurra, verde, rossa, violetta che chiamate fiori, voglio immergere le mie dita in quel cielo capovolto che è il mare!
Fiordaprile la guardò sorridendo; assentì col capo:
- Andiamo, dunque. Ti farò vedere tutto il mio regno.
Proseguirono insieme, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, estasiati e felici. Ma via via che Nevina avanzava, una zona bigia offuscava l'azzurro del cielo, un turbine di fiocchi candidi copriva i giardini meravigliosi.
Passarono in un villaggio festante; contadini e contadine danzavano sotto i mandorli in fiore. Nevina volle che Fiordaprile la facesse danzare: entrarono in ballo; ma la brigata si disperse con un brivido, i suoni cessarono, l'aria si fece di gelo; e dal cielo fatto bigio cominciarono a scendere, con la neve odorosa dei mandorli, i petali gelidi della neve, la vera neve che Nevina diffondeva al suo passaggio.
I due dovettero fuggire tra le querele irose della brigata.
Giunti poco lungi, volsero il capo e videro il paese di nuovo festante sotto il cielo rifatto sereno...
- Nevina, ti voglio sposare!
- I tuoi sudditi non vorranno una regina che diffonde il gelo.
- Non importa. La mia volontà sarà fatta.
Avanzarono ancora, tenendosi per mano, fissandosi negli occhi, immemori e felici... Ma ad un tratto Nevina s 'arrestò coprendosi di un pallore più diafano.
- Fiordaprile! Fiordaprile! ... Non ho più neve!
E tentava con le dita - invano - il fondo della cornucopia.
- Fiordaprile! ... Mi sento morire! .. . Portami al confine... Fiordaprile!... Non reggo più!...
Nevina si piegava, veniva meno. Fiordaprile tentò di sorreggerla, la prese fra le braccia, la portò di peso, correndo verso la valle.
- Nevina! Nevina! Nevina non rispondeva. Si faceva diafana più ancora. Il suo volto prendeva la trasparenza iridata della bolla che sta per dileguare. - Nevina! Rispondi!
Fiordaprile la coprì col mantello di seta per difenderla dal sole ardente, proseguì correndo, arrivò nella valle, per affidarla al vento di tramontana.
Ma quando sollevò il mantello Nevina non c'era più.
Fiordaprile si guardò intorno smarrito, pallido, tremante. Dov'era? L'aveva perduta per via? Alzò le mani al volto, in atto disperato; poi il suo sguardo s'illuminò.
Vide Nevina dall'altra parte della valle che salutava con la mano protesa in un addio sorridente.
Un suo vecchio precettore, il vento di tramontana, la sospingeva pei sentieri nevosi, verso il ghiaccio eterno, verso il regno inaccessibile del padre Gennaio

 

 
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Cecina

Post n°369 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re, che amava pazzamente la caccia, e per essere più libero di andarvi tutti i giorni, non aveva voluto prender moglie.
I ministri gli dicevano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui rispondeva:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Passava l'anno, e i ministri da capo:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Ma quest'anno non arrivava mai.
Ogni mattina, appena albeggiava, indossava la carniera, e col fucile sulla spalla, e coi cani, via pei forteti e pei boschi.
Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai forteti.
I ministri ripicchiavano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
Talché finalmente il Re si decise, e mandò a chiedere la figlia del Re di Spagna.
Ma, andato per sposarla, si accorse che era un po' gobbina.
- Sposare una gobbina? No. Mai!
- Ma è bella, è virtuosa! - gli dicevano i ministri.
- È gobbina e basta: no, mai!
E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti.
Quella Reginotta gobbina aveva per comare una Fata.
La Fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse:
- Sta' tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me.
Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via.
- Maestà, buona caccia!
Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non rispose nulla.
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Un'altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciuola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via:
- Maestà, buona caccia!
- Senti, strega - le disse il Re - se ti trovo un'altra volta per la strada, te la farò vedere io!
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Ma la mattina dopo, eccoti lì quella del malaugurio:
- Maestà, buona caccia!
- La buona caccia te la darò io!
Il Re avea condotto con sé le sue guardie, e ordinò che quella donna del malaugurio fosse chiusa in una prigione.
Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia, non poté tirare un sol colpo. La selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si trovava un coniglio o una lepre, neppure a pagarli a peso d'oro.
Gli accadde anche peggio.
Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a ingrassare, a ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali con quel suo gran pancione che pareva una botte.
Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se avesse fatto cento miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva subito subito riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze. Desolato, consultava i migliori dottori:
- Vorrei dimagrare.
I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno, che lo speziale non mandasse a palazzo bicchieroni d'intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà.
Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perché il Re potesse passare; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati.
Il povero Re si disperava:
- O che non c'era rimedio per lui?
E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re:
- Maestà, voi avete addosso una brutta malìa. Io potrei romperla; ma voi, in compenso, dovrete sposare la mia figliuola, che si chiama Cecina, perché è piccina come un cece.
- Sposerò la tua Cecina!
Il Re avrebbe anche fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto quel grasso e quel pancione.
- Conducila qui.
La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori la Cecina, che era alta appena una spanna, ma bellina e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la Cecina scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sulla palma della mano per mostrarla al Re, lei spiccò un salto e si mise ad arrampicarsi su pel pancione, correndo di qua e di là, come se il pancione del Re fosse stato per lei una collina.
Il Re, con quei piedini, sentiva farsi il solletico e voleva fermarla; ma quella, salta di qua, salta di là, peggio di una pulce, non si lasciava acchiappare. Pel solletico, il Re rideva, ah! ah! ah!, e il pancione gli faceva certi sbalzi buffi. Ah! ah! ah!
Allora la Cecina:

- Pancione del Re,
Palazzo per me!

Il Re dal gran ridere, teneva aperta la bocca; la Cecina, dentro e giù per la gola:

- Pancione del Re,
Palazzo per me!

Figuriamoci lo spavento di Sua Maestà e di tutta la corte!
Nella confusione, la vecchia era sparita.
E la Cecina, che dal suo palazzo ordinava:
- Datemi da mangiare!
E il Re doveva mangiare anche per lei.
- Datemi da bere!
E il Re doveva bere anche per lei.
- Lasciatemi dormire!
E il Re dovea stare fermo e zitto, perché la Cecina dormisse.
- Maestà, - disse uno dei ministri - che sia una malìa di quella donna magra, allampanata, fatta mettere in prigione? Facciamola condurre qui.
I guardiani aprirono la prigione e la trovarono vuota. Quella donna dovea essere scappata pel buco della serratura!
- Ed ora che fare?
E la Cecina, dal suo palazzo del pancione:
- Datemi da mangiare! Datemi da bere!
Il popolo intanto mormorava per le tasse; giacché per riempire quel pancione del Re, ce ne volea della roba! E bisognava pagare.
Il Re fece un bando:
- Chi gli cavava la Cecina dallo stomaco, diventava principe reale e avrebbe avuto quattrini quanti ne voleva!
Ma i banditori andarono attorno inutilmente. E come la Cecina cresceva, per quanto poco crescesse, il pancione del Re si gonfiava e pareva dovesse scoppiare da un momento all'altro.
Il Re la pregava:
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da mangiare.
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da bere.
Se non fosse stato il timore della morte, il Re si sarebbe spaccato il pancione colle proprie mani.
E il popolo che brontolava:
- Re pancione ingoiava tutto! Lavoravano per Re pancione!
Come se Re pancione ci avesse avuto il suo piacere! Lo sapeva soltanto lui, quello che pativa, con la Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere ubbidita!
Finalmente un giorno ricomparve la vecchia:
- Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te!
- Maestà, son venuta a posta coi miei dottori.
E i suoi dottori erano due uccellacci più grossi di un tacchino, con un becco lungo un braccio e forte come l'acciaio.
- Maestà, - disse la vecchia - dovete stendervi a pancia all'aria in mezzo a una pianura.
Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò:
- Ruzzolatemi.
E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie; e, dalla fatica, sudavano.
Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all'aria, uno degli uccellacci gli diè una beccata sul pancione e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto, tutto il vino che Sua Maestà aveva bevuto in tanti anni.
La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali; non c'erano vasi che bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano.
E il pancione del Re si sgonfiò un poco.
Allora l'altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigurgitar fuori tutto il ben di Dio mangiato dal Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto, bistecche, pasticcini, frutta, insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a crepapancia, come fosse di carnovale.
E il pancione del Re sgonfiò un altro poco.
Allora il Re disse:
- Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina!
La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose:
- Eccomi qua.
E il Re tornò com'era prima.
Si sposarono; ma il Re, con quella cosina alta una spanna, che era una moglie per chiasso, si credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere settimane.
La Cecina piangeva:

- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!

Il Re per questo lamentìo, non la poteva soffrire.
Andò da una Strega e le disse:
- Che cosa debbo fare per levarmi di torno la Cecina?
- Maestà,

- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.

Mangiarla gli repugnava; pure, tornato a casa disse alla Cecina:
- Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai.
Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma la Cecina rispose:

- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.

Grazie, Maestà!

Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!

Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di capelli e portatemela qui.
Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto.
- Cecina, vieni a dormire.
- Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno.
Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui per il primo. La mattina, svegliatosi, vide che la Cecina era già levata.
- Cecina, non hai dormito?
- Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà.

- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!

Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone.
Venne re Corvo:
- Cra! Cra! Cra! Cra!
E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! cra! ne fece un boccone.
- Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via.
- Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi.
E con due beccate gli cavò gli occhi.
Il povero Re piangeva sangue:
- La Cecina morta, e lui senz'occhi! Ah, Cecina mia!
Passato un po' di tempo, ricomparve la solita vecchia. Era la Fata comare della Reginotta di Spagna.
- Maestà, non vi affliggete. La Cecina è viva, e i vostri occhi son riposti in buon luogo; son nella gobba della Reginotta di Spagna.
Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a gridare pietosamente, dietro al portone:
- Ah, Reginotta! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta, dalla finestra, rispondeva:
- Sposare una gobbina! No, mai!
- Perdonatemi, Reginotta; e rendetemi gli occhi!
La Reginotta dalla finestra rispondeva:

- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.

Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola persona; e si mise a gridare più forte:
- Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta scese giù e gli disse:
- Ecco gli occhi.
Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava precisamente alla Cecina, benché fosse di giusta statura.
Così fu perdonato, e da lì a poco la sposò.
Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina.

Vissero lieti e contenti
E a noi si allegano i denti.

 
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I due malcontenti

Post n°368 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C’erano una volta due vecchi sposini tanto poveri che non possedevano nemmeno una capanna e abitavano in una grossa botte, di quelle che si adoperano per conservare l’aceto.
Avevano aperto nella botte un uscio, una finestrella e anche un buco per far uscire il tubo della stufa; ma trascorrevano le giornate seduti sull’uscio perché in casa c’era troppo buio e troppo odor d’aceto.
- La colpa è tua – rimbrottava la moglie – se siamo costretti a vivere così! Sei infingardo e fannullone, ed è per questo che non abbiamo una casa.
- E tu sei una spendacciona dalle mani bucate! – rimbeccava l’uomo inviperito. –Non hai mai saputo risparmiare un soldo. Ecco perché, adesso che siamo vecchi, viviamo così male come nessun altro nel paese.
Infatti nel villaggio tutti, anche i più poveri, possedevano almeno una capanna, e spesso si facevano beffe dei due, sempre seduti e arrabbiati davanti alla loro botte. Un giorno in cui avevano litigato più del solito e si erano voltati la schiena indispettiti, un uccellino dalle penne d’oro venne a posarsi sul ramo di un albero.
- Ma insomma, - domandò – si può sapere che cosa avete, voi due?
- Siamo stanchi di vivere in una botte – rispose il marito sospirando.
- Vorremo avere una casa come l’ hanno gli altri, ecco!
- Tutto qui? – disse l’uccellino. – Ebbene venite con me.
Incominciò a svolazzare di ramo in ramo e i due vecchi sposi lo seguirono. Giunsero così davanti a una bella casetta nuova circondata da un piccolo giardino.
- E’ vostra – cinguetto l’uccellino. – Spero di vedervi contenti, finalmente. Quando avreste bisogno di me, battete tre volte le mani e chiamatemi: io verrò subito.
E con un trillo giocondo volò via. I due coniugi visitarono la casetta e credettero di sognare: c’erano proprio tutte le comodità: la cucina, il tinello, la cantina e un bel pezzo d’orto.
- Finalmente siamo a posto! – esclamò la moglie felice. – Adesso abbiamo una casa proprio sul serio!
Trascorsero i primi giorni a mettere a posto i mobili e a coltivare l’orticello e il giardino; poi incominciarono a fare qualche passeggiata. Fu così che videro le proprietà dei vicini: grandi tenute con case coloniche, stalle, fienili, macchine agricole. La moglie incominciò a bofonchiare:
- Queste si, che sono proprietà! Il nostro orto fa soltanto ridere. Perché non chiamiamo l’uccellino e gli chiediamo una tenuta?
Detto fatto, batterono le mani tre volte e subito comparve l’uccellino.
- Che cosa volete?
- Vorremo una tenuta, e una casa un po’ più grande di questa – rispose la moglie che aveva più coraggio.
L’uccellino strizzò un occhi, poi disse:
- Va bene, venite con me.
Saltellando di ramo in ramo, li condusse in una grandissima fattoria circondata da campi immensi, ricchi di stalle e di bestiame.
- Spero che così siate finalmente contenti – disse l’uccellino; e volò via.
I due sposi furono contenti per un po’, cioè per il tempo che impiegarono a visitare le loro terre e le quaranta stanze della fattoria. Poi fecero attaccare i cavalli alla carrozza per fare una gita in città. Qui videro palazzi magnifici, ornati di marmi e di cristalli, e ritornarono a casa con l’animo avvelenato.
- Hai visto con quanta eleganza vestivano le signore sedute al caffè? – chiese la moglie rabbiosamente. – Portavano scarpette dorate, e noi gli zoccoli che porto io!
Il marito non rispose, ma anche lui pensava ai gentiluomini da collarino di pizzo e dai polsini fatti di preziosi merletti.
- Chiamiamo l’uccellino? – chiese la moglie ansiosamente.
- Hm! Hm! – rispose il marito. Ne aveva una gran voglia, ma gli sembrava di essere meno colpevole, se lasciava fare tutto alla moglie.
Questa batté le mani tre volte e l’uccellini apparve subito. Aveva l’aspetto imbronciato, e stette ad ascoltare senza far commenti.
- Oh, caro uccellino! – disse la moglie. – Siamo stanchi di vivere in campagna. Dovresti procurarci un bel palazzo in città!
L’uccellino non rispose, ma incominciò a svolazzare di ramo in ramo e i due vecchi lo seguirono. Giunsero così a un magnifico palazzo di marmo che sorgeva proprio nel centro della città. Volò via prima che potessero ringraziarlo, e i due sposi incominciarono a passare in rivista la loro nuova dimora:
- Hai visto che cosa abbiamo ottenuto? – diceva la moglie gonfia d’orgoglio.
Il marito taceva; in cuor suo era soddisfatto, ma non del tutto. Infatti più tardi, andarono a teatro, videro dei cocchi con stemmi e corone dipinti sugli sportelli. Erano i nobili che passavano, sempre accompagnati e seguiti dai loro servi.
- Potremmo essere anche noi nobili come gli altri e anche di più – disse la moglie un giorno. – Perché non chiamiamo l’uccellino?
- Vedrai, moglie mia, che andremo a finir male – bofonchiò il marito: ma la prospettiva di diventare nobile non gli dispiaceva; e non impedì alla moglie di battere le mano tre volte,
l’uccellino venne subito:
- Che cosa volete ancora? – domandò con la voce piena di collera.
- Perché non vi accontentate mai di ciò che avete? – chiese l’uccellino con ira. – Anche quest’altro dono non vi servirà a nulla!
Detto questo sparì e i due sposi si trovarono in un palazzo meraviglioso che aveva uno stemma dipinto ovunque. Al loro passaggio numerosi lacchè si inchinavano profondamente. Felici del nuovo stato, la moglie volle fare un viaggio nel cocchio stemmato fino alla capitale, e cosi i due coniugi videro il palazzo reale. Non appena rincasati, la moglie batté le mani:
- Caro uccellino, vorremo essere re e regina e dopo basterà – disse all’uccellino che aveva le penne più arruffate che mai e gli occhi lampeggianti di sdegno.
La bestiola volò via senza dir parola, ma subito dopo i due sposi si trovarono seduti sul trono, con una corona d’oro sulla testa. Per qualche tempo i due si divertirono a fare i sovrani, a ricevere ambasciate, a passare in rivista i loro soldati tra il suono delle fanfare. Ma la moglie non aveva più limiti alla sua ambizione.
- Più su della regina, c’è l’imperatrice – disse un giorno al marito. – Voglio essere imperatrice. E tu?
- Io…io vorrei essere papa. Il papa vale più degli imperatori – rispose l’uomo.
La moglie fece una smorfia:
- Ebbene, io voglio essere il Signore!
Batté le mani e la finestra si spalancò: ma invece dell’uccellino dorato entrò un grosso uccellaccio dalle ali nere.
- Sono io: non mi riconoscete? – gridò con voce terribile. – Ora basta: tornate ad ammuffire nella vostra botte!
L’uccellaccio sparì, e con lui sparirono la reggia, i lacchè, i cavalli, le carrozze, gli stemmi e ogni cosa.
I due vecchi sposi si trovarono seduti davanti all’uscio della botte, sotto il buco sconquassato della stufa che lanciava sbuffi di fumo nero

di Ludwig Bechstein


 
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La morta e la viva (Pirandello)

Post n°367 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

 

La tartana, che padron Nino Mo dal nome della prima moglie aveva chiamata «Filippa», entrava nel piccolo molo di Porto Empedocle tra il fiammeggiar d'uno di quei magnifici tramonti del Mediterraneo che fanno tremolare e palpitare l'infinita distesa delle acque come in un delirio di luci e di colori. Razzano i vetri delle case variopinte; brilla la marna dell'altipiano a cui il grosso borgo è addossato; risplende come oro lo zolfo accatastato su la lunga spiaggia; e solo contrasta l'ombra dell'antico castello a mare, quadrato e fosco, in capo al molo.
Virando per imboccare la via tra le due scogliere che, quasi braccia protettrici, chiudono in mezzo il piccolo Molo Vecchio, sede della capitaneria, la ciurma s'era accorta che tutta la banchina, dal castello alla bianca torretta del faro, era gremita di popolo, che gridava e agitava in aria berretti e fazzoletti.
Né padron Nino né alcuno della ciurma poteva mai supporre che tutto quel popolo fosse adunato lì per l'arrivo della «Filippa», quantunque proprio a loro paressero rivolti le grida e quel continuo furioso sventolio di fazzoletti e di berretti. Supposero che qualche flottiglia di torpediniere si fosse ormeggiata nel piccolo molo e che ora stesse per levar le ancore salutata festosamente dalla popolazione, per cui era una gran novità la vista d'una regia nave da guerra.
Padron Nino Mo per prudenza diede ordine s'allentasse subito la vela, si calasse anzi addirittura, in attesa della barca che doveva rimorchiare la «Filippa» all'ormeggio nel molo.
Calata la vela, mentre la tartana non più spinta seguitava a filare lentamente, rompendo appena le acque che, lì chiuse entro le due scogliere, parevano d'un lago di madreperla, i tre mozzi, incuriositi, s'arrampicarono come scojattoli uno alle sartie, uno all'albero fino al calcese, uno all'antenna.
Ed ecco, a gran furia di remi, la barca che doveva rimorchiarli, seguita da tant'altri calchi neri, che per poco non affondavano dalla troppa gente che vi era salita e che vi stava in piedi, gridando e accennando scompostamente con le braccia.
Dunque proprio per loro? tanto popolo? tutto quel fermento? e perché? Forse una falsa notizia di naufragio?
E la ciurma si tendeva dalla prua, curiosa, ansiosa verso quelle barche accorrenti, per cogliere il senso di quelle grida. Ma distintamente si coglieva soltanto il nome della tartana:

- «Filippa! Filippa!».

Padron Nino Mo se ne stava in disparte, lui solo senza curiosità, col berretto di pelo calcato fin su gli occhi, dei quali teneva sempre chiuso il manco. Quando lo apriva, era strabo. A un certo punto si tolse di bocca la pipetta di radica, sputò e, passandosi il dorso della mano sugl'ispidi peli dei baffetti di rame e della rada barbetta a punta, si voltò brusco al mozzo che s'era arrampicato sulle sartie, gli gridò che scendesse e andasse a poppa a sonare la campanella dell'«Angelus».
Aveva navigato tutta la vita, profondamente compreso dell'infinita potenza di Dio, da rispettare sempre, in tutte le vicende, con imperturbabile rassegnazione; e non poteva soffrire lo schiamazzo degli uomini.
Al suono della campanella di bordo si tolse la berretta e scoprì la pelle bianchissima del cranio velata d'una peluria rossigna vaporosa, quasi di un'ombra di capelli. Si segnò e stava per mettersi a recitare la preghiera, allorché la ciurma gli si precipitò addosso con visi furia risa gridi da matti:

- Zi' Nì! Zi' Nì! la gnà Filippa! vostra moglie! la gnà Filippa! viva! è tornata!

Padron Nino restò dapprima come perduto tra quelli che così lo assaltavano e cercò, spaventato, negli occhi degli altri quasi l'assicurazione che poteva credere a quella notizia senza impazzire. Il volto gli si scompose passando in un attimo dallo stupore all'incredulità, dall'angoscia rabbiosa alla gioja. Poi, feroce, quasi di fronte a una sopraffazione, scostò tutti, ne abbrancò uno per il petto e lo squassò con violenza, gridando: - Che dite? che dite? -. E con le braccia levate, quasi volesse parare una minaccia, s'avventò alla prua verso quelli delle barche che lo accolsero con un turbine di grida e pressanti inviti delle braccia; si trasse indietro, non reggendo alla conferma della nuova (o alla voglia di precipitarsi giù?) e si volse di nuovo verso la ciurma come per chiedere soccorso o essere trattenuto. Viva? come, viva? tornata? da dove? quando? Non potendo parlare, indicava la paratia, che ne tirassero subito l'alzaja, sì sì; e come il canapo fu preso a calare per il rimorchio, gridò: - Reggete! - lo afferrò con le due mani, scavalcò, e come una scimmia a forza di braccia scese lungo l'alzaja, si buttò tra i rimorchiatori che lo aspettavano con le braccia protese.
La ciurma della tartana restò delusa, in orgasmo, vedendo allontanare la barca con padron Nino e, per non perdere lo spettacolo, cominciò a gridare come indemoniata a quelli dell'altre barchette accorse, perché raccogliessero il canapo e rimorchiassero loro almeno la tartana al molo. Nessuno si voltò a dar retta a quelle grida. Tutti i calchi arrancarono dietro la barca del rimorchio, ove in gran confusione padron Nino Mo veniva intanto ragguagliato su quel miracoloso ritorno della moglie rediviva, che tre anni addietro, nel recarsi a Tunisi a visitare la madre moribonda, tutti ritenevano fosse perita nel naufragio del vaporetto insieme con gli altri passeggeri; - e invece, no, no, non era perita - un giorno e una notte era stata in acqua - affidata a una tavola - poi salvata, raccolta da un piroscafo russo che si recava in America - ma pazza - dal terrore - e due anni e otto mesi era stata pazza in America - a New York, in un manicomio - poi guarita aveva ottenuto il rimpatrio dal Consolato, e da tre giorni era in paese, arrivata da Genova.
Padron Nino Mo, a queste notizie che gli grandinavano da tutte le parti, stordito, batteva di continuo le palpebre su i piccoli occhi strabi; a tratti la palpebra manca gli restava chiusa, come tirata; e tutto il volto gli fremeva, convulso, quasi pinzato da spilli.

Il grido di uno dei calchi e le risa sguajate da cui questo grido fu accolto: - «Due mogli, zi' Nì, allegramente!» - lo riscossero dallo sbalordimento e gli fecero guardare con rabbioso dispetto tutti quegli uomini, vermucci di terra ch'egli ogni volta vedeva sparire come niente, appena s'allontanava un po' dalle coste nelle immensità del mare e del cielo: eccoli là, accorsi in folla al suo arrivo, assiepati là, impazienti e vociferanti nel molo, per godersi lo spettacolo d'un uomo che veniva a trovare a terra due mogli; spettacolo tanto più da ridere per essi, quanto più grave e doloroso era per lui l'impaccio. Perché quelle due mogli erano tra loro sorelle, due sorelle inseparabili, anzi tra loro quasi madre e figlia, avendo sempre la maggiore, Filippa, fatto da madre a Rosa, che anche lui, sposando, aveva dovuto accogliere in casa come una figliola; finché, scomparsa Filippa, dovendo seguitare a vivere insieme con lei e considerando che nessun'altra donna avrebbe potuto far meglio da madre al piccino che quella gli aveva lasciato ancor quasi in fasce, l'aveva sposata, onestamente. E ora? e ora? Filippa era venuta a trovare Rosa maritata con lui e incinta, incinta da quattro mesi! Ah, sì, c'era da ridere veramente: un uomo, così, tra due mogli, tra due sorelle, tra due madri. Eccole, eccole là su la banchina! ecco Filippa! eccola là! viva! con un braccio gli fa cenni, come per dargli coraggio; con l'altro, si regge sul petto Rosa, la povera incinta che trema tutta e piange e si strugge dalla pena e dalla vergogna, tra gli urli, le risa, i battimani, lo sventolio dei berretti di tutta quella folla in attesa.
Padron Nino Mo si scrollò tutto, rabbiosamente; desiderò che la barca sprofondasse e gli sparisse dagli occhi quello spettacolo crudele; pensò per un momento di saltare addosso ai rematori e costringerli a remare indietro, per ritornare alla tartana, per fuggirsene via lontano, lontano, per sempre; ma sentì in pari tempo di non poter ribellarsi a quella violenza orrenda che lo trascinava, degli uomini e del caso; avvertì come uno scoppio interno, un intronamento, per cui le orecchie presero a rombargli e gli s'offuscò la vista. Si ritrovò, poco dopo, tra le braccia sul petto della moglie rediviva, che lo superava di tutta la testa, donnone ossuto, dalla faccia nera e fiera, maschile nei gesti, nella voce, nel passo. Ma quand'essa, scioltolo dall'abbraccio, lì, davanti a tutto il popolo acclamante, lo spinse ad abbracciare anche Rosa, quella poveretta che apriva come due laghi di lagrime i grandi occhi chiari nel viso diafano, egli, alla vista di tanto squallore, di tanta disperazione, di tanta vergogna, si ribellò, si chinò con un singhiozzo nella gola a tôrsi in braccio il bambino di tre anni e s'avviò di furia, gridando:

- A casa! A casa!

Le due donne lo seguirono, e tutto il popolo si mosse dietro, avanti, intorno, schiamazzando, Filippa con un braccio su le spalle di Rosa, la teneva come sotto l'ala, la sorreggeva, la proteggeva, e si voltava a tener testa ai lazzi, ai motteggi, ai commenti della folla, e di tratto in tratto si chinava verso la sorella e le gridava:

- Non piangere, scioccona! Il pianto ti fa male! Su, su, dritta, buona! Che piangi? Se Dio ha voluto così... C'è rimedio a tutto! Su, zitta! A tutto, a tutto c'è rimedio! Dio ci ajuterà...

Lo gridava anche alla folla, e soggiungeva, rivolta a questo e a quello:

- Non abbiate paura! né scandalo, né guerra, né invidia, né gelosia! Quello che Dio vorrà! Siamo gente di Dio.

Giunti al Castello, che già le fiamme del crepuscolo s'erano offuscate e il cielo, prima di porpora, era divenuto quasi fumolento, molti della folla si sbandarono, imboccarono la larga strada del borgo già coi fanali accesi; ma i più vollero accompagnarli fino a casa, dietro al Castello, alle «Balàte», dove quella strada svolta e s'allunga ancora con poche casupole di marinai su un'altra insenatura di spiaggia morta. Qua tutti s'arrestarono davanti all'uscio di padron Nino Mo ad aspettare che cosa quei tre, ora, decidessero di fare. Quasi fosse un problema, quello, da risolvere così, su due piedi!
La casa era a terreno e prendeva luce soltanto dalla porta. Tutta quella folla di curiosi, assiepata lì davanti, addensava l'ombra già cupa e toglieva il respiro. Ma né padron Nino Mo, né la moglie gravida avevano fiato di ribellarsi: l'oppressione di quella folla era per essi l'oppressione stessa delle anime loro, lì presente e tangibile; e non pensavano che, almeno quella, si potesse rimuovere. Ci pensò Filippa, dopo avere acceso il lume sulla tavola già apparecchiata in mezzo alla stanza per la cena: si fece alla porta, gridò:

- Signori miei, ancora? che volete? Avete veduto, avete riso; non vi basta? Lasciateci pensare adesso agli affari nostri! Casa, ne avete?

Così investita, la gente si ritrasse parte di qua, parte di là dalla porta, lanciando gli ultimi lazzi; ma pur molti rimasero a spiare da lontano, nell'ombra della spiaggia.

La curiosità era tanto più viva, in quanto che a tutti eran noti l'onestà fino allo scrupolo, il timore di Dio, gli esemplari costumi di padron Nino Mo e di quelle due sorelle.
Ed ecco, ne davano una prova quella sera stessa, lasciando aperta per tutta la notte la porta della loro casupola. Nell'ombra di quella triste spiaggia morta, che protendeva qua e là nell'acqua stracca, crassa, quasi oleosa, certi gruppi di scogli neri, corrosi dalle maree, certi lastroni viscidi, algosi, ritti, abbattuti, tra cui qualche rara ondata si cacciava sbattendo, rimbalzando e subito s'ingorgava con profondi risucchi, per tutta la notte da quella porta si projettò il giallo riverbero del lume. E quelli che s'attardarono a spiare dall'ombra, passando ora l'uno ora l'altro davanti alla porta e gettando un rapido sguardo obliquo nell'interno della casupola, poterono veder dapprima i tre, seduti a tavola col piccino, a cenare; poi, le due donne, inginocchiate a terra, curve su le seggiole, e padron Nino, seduto, con la fronte su un pugno appoggiato a uno spigolo della tavola già sparecchiata, intenti a recitare il rosario; in fine, il piccino solo, il figlio della prima moglie, coricato sul letto matrimoniale in fondo alla camera, e la seconda moglie, la gravida, seduta a piè del letto, vestita, col capo appoggiato alle materasse, con gli occhi chiusi; mentre gli altri due, padron Nino e la gnà Filippa, conversavano tra loro a bassa voce, pacatamente, ai due capi della tavola; finché non vennero a sedere su l'uscio, a seguitare la conversazione in un mormorio sommesso, a cui pareva rispondesse il lento e lieve sciabordio delle acque sulla spiaggia, sotto le stelle, nel bujo della notte già alta.

Il giorno appresso, padron Nino e la gnà Filippa, senza dar confidenza a nessuno, andarono in cerca d'una cameretta d'affitto; la trovarono quasi in capo al paese, nella via che conduce al cimitero, aereo su l'altipiano, con la campagna dietro e il mare davanti. Vi fecero trasportare un lettuccio, un tavolino, due seggiole, e quando fu la sera vi accompagnarono Rosa, la seconda moglie, col piccino; le fecero chiudere subito la porta, e tutt'e due insieme, taciturni, se ne ritornarono alla casa delle «Balàte».
Si levò allora per tutto il paese un coro di commiserazioni per quella poveretta così sacrificata, messa così da parte, senz'altro, buttata fuori, sola, in quello stato! ma pensate, in quello stato! con che cuore? e che colpa aveva, la poveretta? Sì, così voleva la legge... ma che legge era quella? Legge turca! No, no, perdio, non era giusto! non era giusto!
E tanti e tanti il giorno appresso, risoluti, cercarono di far comprendere quell'acerba disapprovazione di tutto il paese a padron Nino uscito, più che mai cupo, a badare al nuovo carico della tartana per la prossima partenza.
Ma padron Nino, senza fermarsi, senza voltarsi, con la berretta a barca di pelo calcata fin su gli occhi, uno chiuso e l'altro no, e la pipetta di radica tra i denti, troncò in bocca a tutti domande e recriminazioni, scattando:

- Lasciatemi stare! Affari miei!

Né maggiore soddisfazione volle dare a coloro che egli chiamava «principali», commercianti, magazzinieri, sensali di noleggio. Soltanto, con questi, fu meno ispido e reciso.

- Ognuno con la sua coscienza, signore, - rispose. - Cose di famiglia, non c'entra nessuno. Dio solo, e basta.

E due giorni dopo, rimbarcandosi, neanche alla ciurma della sua tartana volle dir nulla.
Durante la sua assenza dal paese, però, le due sorelle tornarono insieme nella casa delle «Balàte», e insieme, quiete, rassegnate e amorose, attesero alle faccende domestiche e al bambino. Alle vicine, a tutti i curiosi che venivano a interrogarle, per tutta risposta aprivano le braccia, alzavano gli occhi al cielo e con un mesto sorriso rispondevano:

- Come vuole Dio, comare.

- Come vuole Dio, compare.

Insieme tutt'e due, col piccino per mano, quando fu il giorno dell'arrivo della tartana, si recarono al molo. Questa volta, su la banchina, c'erano pochi curiosi. Padron Nino, saltando a terra, porse la mano all'una e all'altra, silenzioso, si chinò a baciare il bambino, se lo tolse in braccio e s'avviò avanti come l'altra volta, seguito dalle due donne. Se non che, giunti davanti alla porta, questa volta, nella casa delle «Balàte» rimase con padron Nino Rosa, la seconda moglie; e Filippa col piccino se n'andò quietamente alla cameretta sulla via del cimitero.
E allora tutto il paese, che prima aveva tanto commiserato il sacrifizio della seconda moglie, vedendo ora che non c'era sacrifizio per nessuna delle due, s'indignò, s'irritò fieramente della pacata e semplice ragionevolezza di quella soluzione; e molti gridarono allo scandalo. Veramente, dapprima, tutti rimasero come storditi, poi scoppiarono in una gran risata. L'irritazione, l'indignazione sorsero dopo, e proprio perché tutti in fondo si videro costretti a riconoscere che, non essendoci stato inganno né colpa da nessuna parte, né da pretendere perciò la condanna o il sacrifizio dell'una o dell'altra moglie - mogli tutt'e due davanti a Dio e davanti alla legge - la risoluzione di quei tre poveretti fosse la migliore che si potesse prendere. Irritò sopratutto la pace, l'accordo, la rassegnazione delle due sorelle divote, senz'ombra d'invidia né di gelosia tra loro. Comprendevano che Rosa, la sorella minore, non poteva aver gelosia dell'altra, a cui doveva tutto, a cui - senza volerlo, è vero - aveva preso il marito. Gelosia tutt'al più avrebbe potuto aver Filippa di lei; ma no, comprendevano che neanche Filippa poteva averne, sapendo che Rosa aveva agito senz'inganno e non aveva colpa. E dunque? C'era poi per tutt'e due la santità del matrimonio, inviolabile; la devozione per l'uomo che lavorava, per il padre. Egli era sempre in viaggio; sbarcava per due o tre giorni soltanto al mese; ebbene, poiché Dio aveva permesso il ritorno dell'una, poiché Dio aveva voluto così, una alla volta, in pace e senz'invidia, avrebbero atteso al loro uomo, che ritornava stanco dal mare.
Tutte buone ragioni, sì, e oneste e quiete; ma appunto perché così buone e quiete e oneste, irritarono.

E padron Nino Mo, il giorno dopo il suo secondo arrivo, fu chiamato dal pretore per sentirsi ammonire severamente che la bigamia non era permessa dalla legge.
Aveva parlato poco prima con un forense, padron Nino Mo, e si presentò al pretore al solito suo, serio placido e duro; gli rispose che, nel suo caso, non si poteva parlare di bigamia perché la prima moglie figurava ancora in atti e avrebbe seguitato a figurare sempre come morta, sicché dunque davanti alla legge egli non aveva che una sola moglie, la seconda.

- Sopra la legge degli uomini, poi, - concluse, - signor pretore, c'è quella di Dio, a cui mi sono sempre attenuto, obbediente.

L'imbroglio avvenne all'ufficio dello stato civile, ove d'allora in poi, puntuale, ogni cinque mesi, padron Nino Mo si recò a denunziare la nascita d'un figliuolo. - «Questo è della morta.» - «Questo è della viva.»
La prima volta, alla denunzia del figliuolo, di cui la seconda moglie era incinta all'arrivo di Filippa, non essendosi questa rifatta viva davanti alla legge, tutto andò liscio, e il figliuolo poté regolarmente essere registrato come legittimo. Ma come registrare il secondo, di lì a cinque mesi, nato da Filippa che figurava ancora come morta? O illegittimo il primo, nato dal matrimonio putativo, o illegittimo il secondo. Non c'era via di mezzo.
Padron Nino Mo si portò una mano alla nuca e si fece saltar sul naso la berretta; prese a grattarsi la testa; poi disse all'ufficiale di stato civile:

- E... scusi, non potrebbe registrarlo come legittimo, della seconda?

L'ufficiale sgranò tanto d'occhi:

- Ma come? Della seconda? Se cinque mesi fa...

- Ha ragione, ha ragione, - troncò padron Nino, tornando a grattarsi la testa. - Come si rimedia allora?

- Come si rimedia? - sbuffò l'ufficiale. - Lo domandate a me, come si rimedia? Ma voi che siete, sultano? pascià? bey? che siete? Dovreste aver giudizio, perdio, e non venire a imbrogliarmi le carte, qua!

Padron Nino Mo si trasse un po' indietro e s'appuntò gl'indici delle due mani sul petto:

- Io? - esclamò. - E che ci ho da fare io, se Dio permette così?

Sentendo nominar Dio, l'ufficiale montò su tutte le furie.

- Dio... Dio... Dio... sempre Dio! Uno muore; è Dio! Non muore; è Dio! Nasce un figlio; è Dio! State con due mogli; è Dio! e finitela con questo Dio! Che il diavolo vi porti, venite a ogni nove mesi almeno; salvate la decenza, gabbate la legge; e ve li schiaffo tutti qua legittimi uno dopo l'altro!

Padron Nino Mo ascoltò impassibile la sfuriata. Poi disse:

- Non dipende da me. Lei faccia come crede. Io ho fatto l'obbligo Mio. Bacio le mani.

E tornò puntuale, ogni cinque mesi, a fare l'obbligo suo, sicurissimo che Dio gli comandava così.
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Una giornata al mare

Post n°366 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Sicuramente Carolina Capricorni non dimenticherà tanto facilmente domenica scorsa,quando Berengario ha codotto la famiglia al amre per un giorno.
So che non ci capite nulla,quindi passo senz'altri indugi a farvi la cronaca dettagliata di una giornata a dir poco bestiale.
ORE 4.00- Berengario ha buttato giù dal letto moglie e figli,costringendoli a lavarsi,vestirsi e far colazione come se dovessero battere un record di velocità.Secondo lui,stavano per perdere il treno.Inutile dirgli che mancavano ancora due ore. Berengario non è stato ucciso perchè i suoi avevano ancora troppo sonno.
ORE 5.00-La macchina era senza benzina,quindi i Capricorni hanno dovuto chiedere un passaggio a un carro da buoi,ovviamente lentissimo. Son riusciti a prendere il treno per un pelo
ORE 6.30-Berengario aveva sete ed ha bevuto una Coca Cola tutto d'un fiato.
5 minuti dopo il treno è stato scosso da un rutto terrificante.
Mentre moglie e figli contavano i bruscoli per aria,un'anziana suora,svegliata di soprassalto da quel piercolo maleducato,ha preso a scarpate il Capricorni
ORE 7.00- Alzatosi per andare in bagno,Berengario ha avuto un capogiro e si è aggrappato alla maniglia del freno.
Per la violenza della frenata,la suora è finita sulla reticella dei bagagli
ORE 8.30- I Capricorni sono arrivati a Viareggio,ma Anselmo ,dimenticato dal padre,è rimasto sul treno
ORE 9.00-I Capricorni sono arrivati allo stabilimento balneare "Cunegonda marina".
Berengario ha scambiato il bagno delle signore per una cabina e vi si è fiondato per mettersi il costume.
L'anziana suora di cui sopra voleva ficcargli il crocifisso che portava al collo in un posto innominabile
ORE 9.30- Scortato da un carabiniere,è arrivato Anselmo.
ORE 12.00- I Capricorni hanno mangiato al ristorante e per poco Berengario non è stato scaranventato in mare dal proprietario (il locale si trova vicino al molo,nda) per tutte le storie che ha fatto per pagare il conto
ORE 14.00-Nella pineta di Viareggio,Berengario,momentaneamente lasciato solo da moglie e figli , è stato abbordato dal famoso travestito sessantenne Peppe er marchettaro,alias Gilda la Rossa.
Per sfuggirgli,si è fiondato dietro un cespuglio,dove l'anziana suora di cui sopra era intenta a un bisogno fisiologico.
La religiosa,credendolo un maniaco,ha difeso il suo onore mordendogli a sangue il naso
ORE 15.00-Tornato in spiaggia,Berengario ha aiutato i figli a scavare una grande buca sul bagnasciuga.
Indovinate un po' chi ci è finita dentro?
Il Capricorni non è morto affogato per puro miracolo.
ORE 17.00-I Capricorni hanno ripreso il treno.
Berengario aveva perso i biglietti e quindi sono dovuti scendere e fare l'autostop per tornare a S.Tobia.
L'unico che li ha presi su è stato un camionista bulgaro che trasportava maiali.
La Carolina non ha ucciso il marito perchè era troppo disperata
ORE 21.00- Appena entrati in casa,berengario ha detto alla moglie che la domenica successiva sarebbero tornati a Viareggio.
La Carolina ha dato di piglio allo schioppo e solo una fuga precipitosa ha salvato Dio ci scampi
E' passata una settimana-
La Taide ha portato figlia e nipoti in montagna:sono divetnati allergici al mare.
Berengario non esce più di casa: fuori è accampata l'anziana suora, che vuole ucciderlo per liberare il mondo da una calamità mondiale.
Larga la foglia,stretta la via,dite la vostra che ho detto la mia.


 
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Amare una persona è... (Falworth)

Post n°365 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Averla senza possederla.
Dare il meglio di sé
senza pensare di ricevere.
Voler stare spesso con lei,
ma senza essere mossi dal bisogno
di alleviare la propria solitudine.
Temere di perderla,
ma senza essere gelosi.
Aver bisogno di lei,
ma senza dipendere.
Aiutarla, ma senza aspettarsi gratitudine.
Essere legati a lei,
pur essendo liberi.
Essere un tutt’uno con lei,
pur essendo se stessi.
Ma per riuscire in tutto ciò,
la cosa più importante da fare è...
accettarla così com'è,
senza pretendere che sia come si vorrebbe.

 
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Libri dimenticati:Stanotte la libertà

Post n°364 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Lapierre e Collins in questo libro si occupano dell'indipendenza indiana e della conseguente creazione dello stato del Pakistan.
A fianco di personaggi comuni troviamo personaggi di fama mondiale:lord Mountbatten,ultimo vicerè che deve affrotnare il compito più arduo della sua vita;Gandhi,che persegue il suo obiettivo in ogni modo,a costo della vita;         Jinnah,il padre fondatore del Pakistan,altrettanto determinato,tanto determinato da nascondere a tutti il fatto di essere malato terminale pur di non mettere a repentaglio il suo obiettivo.;Jawarlal Nehru,il pupillo di Gandhi che si trova costretto,per la politica,ad entrare in rotta di collisione con lui...
E' un libro appassionante,toccante,imperdibile

 
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Frase del giorno

Post n°363 pubblicato il 11 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Non seguitemi mi son perso anche io! (Snoopy)

 
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